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Armida, eroina pagana


Maga splendida, capace di orchestrare con fredda e spietata lucidità tutte le arti della seduzione per raggiungere i propri fini: Armida, figura tutt’altro che marginale nella costruzione narrativa della Gerusalemme liberata, domina al centro di un immaginario “pagano” che intimorisce e affascina allo stesso tempo, popolato da maghi, creature infernali, riti demoniaci, foreste stregate e giardini incantati che sciolgono i sensi e disperdono la ragione.

Si dice che le donne descritte da Torquato Tasso siano frutto della sua fantasia più che dell’esperienza di vita reale. 

Tra queste, la figura di Armida incarna tutto il fascino e la bellezza di un mondo pagano («Nacqui pagana», xvi, 45) che attrae e  al tempo stesso spaventa, e che dovrà essere sconfitto a beneficio di un “bene” più grande, la conquista della città santa. 

Al termine della sua parabola, Armida, che «ama violentemente e sentimentalmente», come scrive Ugo Foscolo, da dominatrice finirà con il diventare vittima delle sue stesse emozioni, non solo vinta, ma convertita, piegata alla superiorità del trionfante messaggio cristiano. 

Il gran concilio demoniaco

Dai profondi recessi del Tartaro le forze del male muovono un’offensiva contro i crociati, temendo che la conquista di Gerusalemme possa essere il preludio a una generale conversione al cristianesimo di tutta la popolazione. 

Plutone/Lucifero/Satana, «il gran nemico de l’umane genti» (iv, 1), il «crudo re», l’«orrida maestà» (iv, 6-7), imponente, superbo, feroce, terrificante, la bocca una voragine profonda lorda di sangue, convoca in gran concilio i «tartarei numi» (iv, 9), tutti gli dei dell’Abisso (iv, 3):

Chiama gli abitator de l’ombre eterne il rauco suon de la tartarea tromba.

Accorre una schiera di mostri, anime ribelli, migliaia di creature orrende e spaventose: Arpie immonde, Centauri, Sfingi, pallide Gorgoni, Scille, Idre, Pitoni, Chimere che vomitano fuoco, Polifemi, Gerioni.

Segue l’orazione di Satana ai suoi demoni. Il canto conteneva un’ottava (successiva alla 9), poi cassata dall’autore temendo che avrebbe potuto risvegliare l’attenzione dell’inquisizione, dove il re degli inferi apostrofava il Dio cristiano come un tiranno crudele e impietoso:

or colui che regge a suo voler le stelle, / ed usurpando più del dritto ha preso, / e sovra gli inemici incrudelisce / e le sue proprie colpe in noi punisce.

Un’altra ottava, poi ugualmente espunta dal Tasso perché ritenuta irriguardosa, tra la 15 e la 16, definiva Dio, sempre per bocca del demone, «in ciel tiranno», pallido e intimorito.

«La bella Armida, di sua forma altera»

Dalla dimensione ultraterrena al piano della realtà, il primo effetto di questa strategia delle forze infernali è rappresentato dall’arrivo nel campo cristiano di Armida. 

A Damasco viveva un nobile e famoso astrologo e potente mago, Idraote, che, preoccupato per l’avanzare delle schiere crociate, meditava un modo per indebolire l’esercito nemico. 

Un demonio, un «angelo iniquo» (22) lo raggiunge e lo incalza, insinuandosi nella sua mente come un serpente. E gli ispira questo piano: Idraote avrebbe istruito la bella nipote Armida affinché con la forza della sensualità e delle arti magiche distraesse il maggior numero di cavalieri cristiani, inducendoli ad abbandonare il campo.

Il mago Idraote (Internet Archive)

La bella Armida, di sua forma altera e de’ doni del sesso e de l’etate (iv, 27).

Armida dagli ondulati capelli d’oro, il chiaro sguardo e la bocca rosseggiante su un volto d’avorio, era la donna più bella d’Oriente. Straordinariamente bella, come una stella o una cometa in pieno giorno, bella come non se ne videro mai neanche a Delo, ad Argo o a Cipro, città che diedero i natali a bellissime dee. Un aspetto giovanile e candido, quasi adolescenziale, che dissimula però un animo esperto e maturo, piegato verso un fine magico.

L’apparizione di Armida nel campo cristiano è descritta con esiti velatamente erotici. La fanciulla si presenta «dal bianco velo traluce involta» (iv, 28), un velo leggerissimo e trasparente che lascia il suo corpo a tratti scoperto ed eccita l’immaginazione. Così inizia il gioco seduttivo (iv, 31),

Mostra il bel petto le sue nevi ignude, onde il foco d’Amor si nutre e desta.

Armida passa «fra le cupide turbe» (iv, 33) provocando ammirazione e desiderio. Se ne accorge e se ne compiace ma non lo dà a vedere, ostentando invece una composta modestia. 

Tasso dovrà di nuovo autocensurarsi nel descrivere l’apparizione di Armida attraverso lo sguardo infuocato d’amore del giovane Eustazio, il primo dei soldati in campo ad andarle incontro. 

Sono infatti state limate le allusioni più provocatorie dove Armida veniva paragonata a una dea. Nelle prime intenzioni di Tasso, la maga avrebbe dovuto assumere contorni divini che però sono in contrasto con la posizione cristiana di condanna verso la seduzione e il fascino, per di più esercitati con la magia. Qua e là, comunque, ricorre il richiamo ai due mondi cui appartiene Armida, l’umano e l’ultraterreno, tra «mortali dolcezze» e «grazie divine» (v, 62-63).

Resta il paragone con altre due figure femminili del mondo classico legate al tema della magia, Medea, sposa di Giasone e sacerdotessa di Ecate, e Circe, che pure è una dea, oltre che un’incantatrice (iv, 86):

far con gli atti dolci e co ’l bel viso più che con l’arti lor Circe o Medea.

— Su Circe, figlia di Helios, leggi Figlia del Sole su sfondo di tenebra

— Su Medea, tra le più famose e potenti sacerdotesse di Ecate, leggi Eco di rituali notturni

Un trionfo d’Amore

In un discorso tanto accorato quanto menzognero, Armida racconta di essere una sfortunata orfana di origini regali, promessa in sposa a un uomo dall’aspetto deforme e dall’animo vizioso e vile, costretta a «ignuda uscir del patrio regno fuore» (iv, 50) e perciò in fuga in cerca d’aiuto. 

Con queste motivazioni, per trarre i soldati in inganno, la «insidiosa» Armida (v, 1) e «mastra d’inganni» (v, 61) fa leva sui nobili valori cavallereschi «dove in pregio è cortesia» (iv, 81), sull’onore, la pietà e la giustizia.

L’arte seduttiva di Armida si muove tra strategie opposte e contraddittorie, generando un alternarsi di paura e speranza negli animi degli spasimanti. Con voce da sirena, lo sguardo ora «pudico» ora «cupido e vagante» (iv, 87), ora allegra ora triste, tremante d’emozione, Armida ricorre a tutte le malizie della femminilità e agli incantesimi della magia per ordire la sua tela: «inebria i sensi» (iv, 92), risveglia i desideri più timidi e pigri, smorza la diffidenza (iv, 88), 

ed infiammando l’amorose voglie.

E allo stesso tempo altera, composta e «quasi dogliosa» (iv, 90), di una bellezza struggente, induce nei soldati un sentimento di timore e reverenza mentre strappa loro l’anima.

Armida rapisce Rinaldo addormentato (Pietro Paoletti, 1833), affresco del Casino Nobile di Villa Torlonia (SimArt Web)

Codice cavalleresco vs guerra santa

Armida fa strage di cuori ma punta a irretire il comandante Goffredo di Buglione, il quale però, intravedendo il pericolo nascosto dietro tanta seduzione, resiste, prende tempo e non concede subito l’aiuto richiesto. Il valore etico della crociata, che ha come obiettivo la conquista di Gerusalemme attraverso la guerra al “pagano”, travalica lo stesso codice cavalleresco. 

Eustazio, che per primo le si era offerto, con coraggio intercede in favore della bella straniera, dando voce al pensiero di tutti. Goffredo non trova alleati nel suo atteggiamento di prudenza e si vede pertanto costretto ad assecondare la pressante richiesta dei cavalieri, concedendo dieci campioni per accompagnare Armida.

Il canto quinto si svolge in tre momenti. Dapprima vengono scelti dieci cavalieri da inviare al seguito di Armida, in un clima teso tra i compagni che si risolve con la fuga di Rinaldo dal campo — vi tornerà solo per la battaglia conclusiva. 

Intanto Armida tenta ancora una volta di far invaghire Goffredo, ma invano.

La seconda sequenza vede Armida partire alla guida di un corteo che sembra un trionfo d’Amore, al quale si aggiungono nottetempo numerosi altri cavalieri, in silenzio, inseguendo «levi sogni erranti» (v, 79), una turba di spasimanti pronti a sacrificare la propria vita per difendere l’amata. 

E per finire un crescendo drammatico che descrive la situazione penosa dell’esercito cristiano, decimato e in preda allo smarrimento.

Il giardino di Armida

Armida torna protagonista nella seconda metà del settimo canto. Con una schiera di cavalieri convertiti alla fede “pagana” e piegati al suo volere, la maga vive in un castello incantato in mezzo al bosco, circondato da una palude e protetto da una rigogliosa vegetazione, reso inespugnabile da barriere naturali e magiche. 

Il giardino di Armida è un regno circolare in una natura in perenne incontrollabile ricrescita, teatro di confusione e perdita d’identità. Un mondo diverso e affascinante che offre soddisfazione al desiderio e all’istinto, alternativo e opposto al mondo dell’educazione cristiana dove invece vige una austera repressione. 

Il cerchio, elemento geometrico femminile per eccellenza, circonda e protegge uno spazio consacrato dove la donna è in posizione dominante, anche qui con un evidente rovesciamento dei principi cristiani.

Smarritosi nel bosco per altre vicende, Tancredi giunge di notte al giardino di Armida e vi rimane irretito, intrappolato dalle arti magiche della maga che lo rinchiude in un luogo oscuro e tetro (vii, 45)

fra l’ombre de la notte e de gli incanti. 

L’ottavo e il nono canto si pongono ancora sotto il segno delle forze demoniache, con le Furie che tentano di fiaccare il morale dell’esercito cristiano disseminando discordia, in particolare Aletto, l’orribile mostro alato che secca i campi al suo passaggio, mentre (ix, 15)

s’odon fremendo errar larve maligne. 

Le streghe al sabba

Nel tredicesimo canto ha luogo un vero e proprio rito di evocazione demoniaca condito di insoliti dettagli, che tradiscono una certa familiarità del Tasso con il dibattito in corso tra i demonologi.

Dal giardino incantato di Armida, il teatro dello scontro magico si sposta in un altro luogo altrettanto spaventoso, la foresta di Saron, antica e folta, un luogo impenetrabile fatto di (xiii, 3)

notte, nube, caligine ed orrore.

In questa cupa foresta, già frequentata da esseri pericolosi ed empi, «s’adunan le streghe» con i loro amanti, chi nella forma «d’un fero drago» chi di un «irco [caprone] informe», consumando banchetti sacrileghi («profani conviti») e celebrando cerimonie oscene («pompe immonde») (xiii, 4). 

Una scena di grande attualità, anche in questo caso, considerato l’imperversare proprio in quegli anni della caccia alle streghe in tutta Europa.

La foresta costituiva tuttavia una risorsa irrinunciabile per l’esercito cristiano, che se ne serviva per rifornirsi della legna necessaria a costruire le macchine da guerra e da difesa. 

Nel cuore della notte un mago

Con l’obiettivo di fiaccare ulteriormente l’esercito crociato, precludendogli l’accesso a una importante risorsa per armarsi e difendersi, il mago Idraote chiama gli spiriti affinché prendano possesso della foresta di Saron rendendola ancora più impraticabile.

Nel cuore della notte, Idraote si reca in un punto stabilito per compiere un rito che segue un codice specifico del linguaggio magico. Il mago pronuncia le sue formule

Al suon de’ mormoranti canti (ii, 1),

attraverso la suggestione della parola sussurrata, impercettibile come un soffio di vento, mentre traccia un cerchio sul terreno e vi imprime simboli magici («segni»). Poi, senza cintura e con un piede nudo, entra nel cerchio magico (xiii, 6):

Girò tre volte a l’oriente il volto,
tre volte a i regni ove dechina il sole,
e tre scosse la verga ond’uom sepolto
trar de la tomba e dargli il moto sòle,
e tre co ’l piede scalzo il suol percosse.

Alla preparazione delle rito segue l’invocazione, espressa questa volta con «terribil grido» anziché con parole appena mormorate (xiii, 7):

Udite, udite, o voi che da le stelle
precipitàr giù i folgori tonanti:
sì voi che le tempeste e le procelle
movete, abitator de l’aria erranti,
come voi che a le inique anime felle
ministri sète de li eterni pianti;
cittadini d’Averno, or qui v’invoco,
e te, signor de’ regni empi del foco.

Tutti gli spiriti demoniaci accorrono al richiamo e invadono la foresta, già cupa e spettrale, tramutata ora in un vero e proprio inferno in terra che amplifica le paure e le inquietudini di chi vi si inoltra, spaventoso teatro della propria coscienza dove prende forma il mondo umbratile dell’inconscio

Uno scenario magico

Abbandonato il campo in seguito a scompigli interni all’esercito cristiano, Rinaldo si era smarrito nella selva interiore dei propri errori. Fino a quando il suo destino non si intreccia con quello di Armida.

Quando Rinaldo libera i compagni, tenuti in ostaggio nel giardino incantato, scatena le furie dell’orgogliosa e vendicativa ragazza che lo irretisce con potenti incantesimi, lo attira su un’isola magica fatta di «antri ed acque e fiori ed erbe e piante» (xiv, 59) e con magici canti lo fa addormentare. 

Ed è qui che interviene l’imprevisto colpo di fulmine. Abbandonato in un sonno profondo, illuminato da giovanile bellezza, Rinaldo accende la passione amorosa di Armida, fino ad allora sconosciuta in lei.

Deposti tutti i propositi di vendetta, la giovane maga è intenzionata a vivere la sua passione fino in fondo, lontano da tutto e tutti, in un luogo segreto e protetto entro il quale non si dovrà mai vergognare del suo amore. 

E così trasporta sé stessa e l’amato ancora più lontano, nelle esotiche isole Fortunate, in mezzo all’immenso Oceano. Qui, in cima a una montagna, costruisce un castello magico dalle porte d’argento su cardini d’oro cinto da mura inestricabili, una prigione incantata dove le regole della natura sono sovvertite. 

In questo nuovo scenario magico ricorrono ancora una volta i temi della circolarità e della folta vegetazione, simboli di femminilità: l’edificio è tondo (xvi, 1) e circondato da un rigoglioso giardino.

Amore dispensa miele e assenzio

Intanto Carlo e Ubaldo vengono incaricati di trovare Rinaldo e riportarlo nel campo, al fianco dei compagni. Senza di lui, infatti, l’esito della battaglia finale è fortemente compromesso. 

Prima di partire, i due cavalieri vengono istruiti dal mago di Ascalona che li rende immuni agli incantesimi di Armida e dello zio Idraote, proprio come Odisseo riesce a scampare agli intrighi di Circe non per ferrea volontà, ma grazie all’aiuto di Hermes. 

Giunti alle isole Fortunate, Carlo e Ubaldo dovranno affrontare una schiera di mostri tra cui un serpente dalle squame d’oro e gli occhi ardenti d’ira (xv, 48), un leone feroce e altre belve, nonché resistere alle mille tentazioni che il paradisiaco luogo offre: il «fonte del riso», il dolce canto delle sirene, un gruppetto di «donzellette garrule e lascive» che si mostrano «ignude e belle» e inducono i cavalieri ad abbandonare le armi, poiché quello è un luogo dove domina solo l’Amore (xv, 57-59). 

Questa volta, però, nessun artificio riesce a distogliere gli eroi dal loro obiettivo, nemmeno il fascino di un luogo dove sboccia eternamente la primavera, con il suo carico di amore e seduzione, in un tempo eternamente sospeso. 

Il giardino di Armida, Édouard Muller, 1854 (Philadelphia Museum of Art)

Il canto sedicesimo è un’esplosione di sensualità. Il giardino incantato si svela in tutto il suo splendore: ruscelli d’acqua cristallina, colline soleggiate e valli ombrose, alberi eternamente fioriti e al tempo stesso carichi di frutti succosi, e tutto attorno il canto di «vezzosi augelli» (xvi, 12). Tra cui un pappagallo dalle piume multicolori e il becco rosso che intona un vero e proprio inno alla vita, un invito a cogliere l’attimo prima che il fiore della giovinezza appassisca per sempre (xvi, 15):

cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando.

Immuni a ogni tentazione, Carlo e Ubaldo vincono tutti gli ostacoli, superano il tortuoso labirinto e arrivano al palazzo al centro del recinto incantato, dove Armida e Rinaldo vivono indisturbati la loro passione.

Non appena liberato dal languore che lo opprimeva, Rinaldo si rende conto di essere stato stregato e subito se ne vergogna, sfugge lo sguardo dell’amata ed è pronto a tornare in campo al fianco dei compagni. Armida invece, amante abbandonata, comprende di essere stata sconfitta: «negletta e schernita» (xvi, 40), sgomenta, forsennata, «anelante e lagrimosa» (xvi, 42) e ancora tanto bella quanto addolorata

Quante mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca immonda (xvi, 37)

Per antonomasia, la maga è «tessala» perché dalla regione greca della Tessaglia si riteneva provenissero le maghe più potenti, come Eritto, la strega protagonista di un rituale di evocazione necromantica nella Pharsalia di Lucano.

La ragione spegne per sempre la fiamma dell’amore, il mondo della passione è definitivamente sconfitto. Per Rinaldo, ormai, Armida è un ricordo del passato, relegata «fra le care memorie» (xvi, 54).

Dalle rive del Mar Morto 

Rimasta sola, la maga richiama a sé gli spiriti delle tenebre, «trecento / con lingua orrenda deità d’Averno» (xvi, 68), e avvolge il palazzo in un’ombra profonda come caligine, dentro la quale la dimora incantata, insieme al giardino che la circonda, si dissolve in fumo e nebbia

Spiccando il volo sul suo carro, Armida si dirige verso le acque infeconde del Mar Morto, dove si erge la sua dimora. Turbata da mille pensieri, amareggiata dal dolore e dal tradimento, medita vendetta: armata di tutte le sue capacità seduttive, è decisa a raggiungere di nuovo l’esercito crociato.

Mentre il poema va verso la conclusione, con il ritorno di Rinaldo in campo dopo aver scontato il “peccato amoroso”, le forze del male si avviano verso la sconfitta.

Armida torna nel canto ventesimo, l’ultimo, nel quale si consuma lo scontro finale. Rinaldo la incontra proprio al centro del campo di battaglia, nel cupo clima guerresco, quando l’esito è ancora incerto. 

Lei, in abiti militari, intende colpirlo, alternando un disperato sentimento d’amore al desiderio di vendetta, mentre nel suo animo si consuma un complesso dramma psicologico.

Armida scocca contro Rinaldo numerose frecce ma la dura corazza dell’eroe viene solo sfiorata: né l’amore, né il ferro riescono a scalfirlo. Armida, invece, è sconfitta sia come amante, sia come arciera.

«E sia la morte medicina al core»

E ancora non basta, l’umiliazione di Armida deve essere totale. Le sue armi seduttive, per un tragico rovesciamento, colpiscono non più l'eroe cristiano, ormai redento, ma si ritorcono contro l’esercito alleato, come accade a Altamoro, attratto dalle lusinghe d’amore proprio mentre sta fronteggiando Goffredo, che abbandona il combattimento per raggiungerla compromettendo così il risultato della battaglia. Che ormai volge completamente a favore dei crociati, mentre i nemici sono sbaragliati e vinti. 

Le sorti di Armida dovevano concludersi così, con la sconfitta in campo e la fuga. Tutta la sequenza della riconciliazione tra Armida e Rinaldo, che occupa l’ultima parte del ventesimo canto, doveva essere espunta secondo le intenzioni dell’autore, deciso a non dare ulteriore spazio alle “lascivie amorose” dell’eroina pagana — sequenza poi reintrodotta in maniera “furtiva” nell’edizione Bonnà, «con aggiunta di quanto manca nell’altre edittioni». 

Ecco allora riaffiorare, per l’ultima volta, uno scenario velato di erotismo. Ormai vittorioso, Rinaldo rincorre Armida «che fuggia sola e dolente» intenzionata a darsi «solitaria morte» (xx, 121-122). Il cavaliere la trova così, deposte le armi, con il «feminil seno» che gli sta «nudo avante», «tenero ai colpi», cioè pronto a ricevere la morte (xx, 124).

Come un fiore reciso

Armida muore così, con la punta della lancia a trafiggerle il petto, il collo delicatamente piegato tra le forti braccia dell’amato che non fa in tempo a fermarla. 

Rinaldo le slaccia la veste per farla respirare meglio, calde e pietose lacrime bagnano «’il bel volto e ’l bel seno» di lei, mentre la abbraccia in una dolce stretta. 

È l’ultimo dialogo, che nelle intenzioni del Tasso non doveva avere luogo, quello del ricongiungimento sentimentale tra i due e che, forse, nasconde un tentativo di conversione di Armida alla religione cristiana. Ambigua appare, infatti, l’allusione al passo evangelico «ecce ancilla Domini / fiat mihi secundum tuum» nelle parole pronunciate da Rinaldo (xx, 136):  

Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno dispon.

Così si compie l’ultima metamorfosi del personaggio di Armida, all’interno di una vicenda che presenta molti degli elementi compositivi ricorrenti del repertorio fiabesco e in particolare dei racconti di magia: l’allontanamento dell’eroe e la prova a lui imposta (la perdita dei sensi nel giardino incantato), l’inganno del cattivo con l’uso del mezzo magico (Idraote e la nipote), la descrizione di un reame in capo al mondo (quello che Armida inventa e realizza per sé e per l’amato), la foresta cupa e selvaggia, il ritorno, l’inseguimento, infine lo scontro e la sconfitta del nemico.

Ora intrepida corruttrice e orditrice di inganni, ora fragile creatura sottomessa a un volere più grande di lei, vittima della sua stessa bellezza e di un amore che non riesce a padroneggiare, tratteggiata talvolta sotto un segno apertamente “demoniaco” — «empia Armida», «albergatrice infida», «maga rea» (xiv, 50-51) —, talvolta in toni pietosi, disperati e drammatici, la “pagana” Armida è destinata a precipitare in una sconfitta senza ritorno, e con lei una folla di donne senza nome

Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Le Monnier, Firenze 1853; Id., Gerusalemme liberata, a cura di F. Tomasi, Bur, Milano 2009. Cfr. anche L. Benedetti, La sconfitta di Diana. Un percorso per la Gerusalemme liberata, Longo Editore, Ravenna 1996; F. Giunta, Il susurrus magicus nella Gerusalemme liberata, in “Intersezioni”, XXV, 3, 2005;  V. J. Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 2004.

In copertina: Paul Baudry, The Pearl and the Wave (Wiki Commons)

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