Passa ai contenuti principali

Figlia del Sole su sfondo di tenebra

Un’incantatrice “ai margini” del mondo e della ragione. Circe dea, Circe maga, Circe donna; queste condizioni si sommano senza escludersi, tratteggiando un profilo di personalità femminile della quale, dalle lontane distanze omeriche, ancora sorprendono la forza, la ricchezza e la dignità. Figlia primogenita del Sole e di una dea sconosciuta, contraddittoria, una seduttrice che utilizza i filtri non come strumento d’amore, ma di potenza: «vi è qui attorno a Circe un incantesimo malvagio», ma come è possibile che una tale crudele ingannatrice appartenga alla stirpe solare? Eppure Helios, a livello mitico, non ha una connotazione astronomica: non ha la funzione propria di illuminare ma, piuttosto, di delimitare il mondo degli uomini, essendone il centro, e ha attorno a sé il buio...

Alphonse Mucha (1860-1939), The Enchantress, via Wiki commons

Due figlie del Sole custodiscono nell’Odissea gli armenti di Helios: Phaethusa, forma femminile di Phaethon (quel Fetonte che Esiodo conosce come custode del tempio di Afrodite), e Lampetie “la splendente” (se si esclude ora una terza sorella, Aigle “la lucente”, che compare in versioni più tarde). Sono le Heliadi, che per piangere la morte di un fratello si trasformarono in «alberi di luce sulla corrente solare» stillanti lacrime d’ambra.

Esse incarnanerebbero la funzione “soccorritrice” che è propria delle consorellanze femminili senza nulla togliere alla “mascolinità” paterna dell’elemento solare; ma interrogarsi sul sesso del Sole è come indagare su quello degli angeli, inutile e, al fine di una comprensione storico-religiosa, oziosa: molte divinità “precosmiche”, anteriori alla fondazione di un vivere ordinato, umano, e che ad essa hanno contribuito presentano delle ambiguità che di quel “disordine” primitivo sono traccia, come la bisessualità/ermafroditismo, il tema del doppio e dei gemelli, il teriomorfismo (dal Phanes orfico ai due volti di Giano: leggi Ianus pater il più antico degli dei).

Donne solari

Il carattere “solare” della donna va preso con molta serietà, anche se è popolarissima la stretta relazione, nella religione greca, tra le dee lunari, le fasi dell’astro notturno e quelle che scandiscono la vita femminile: attraverso di esse si svolge il tema mitologico della giovane kore rapita o uccisa che ciclicamente ritorna; la madre stessa delle Heliadi porta un nome riconducibile alla sfera lunare perché si chiama Nearia “la nuova”, la giovane luna, gettando un “lato d’ombra” di umana mortalità nella raggiante regalità solare.

Tuttavia, non è possibile ridurre la funzione delle figlie di Helios all’esigenza razionale di differenziare i generi. Non possiamo, ad esempio, ignorare il carattere specificamente femminile di una parte delle funzioni, seppur “paterne”, del Sole, che nel mito si chiariscono meglio considerandole anche in rapporto con coloro che sono state le sue compagne e le madri dei suoi figli.

L’esistenza delle figlie del Sole presuppone quella di una madre primordiale che le abbia procreate e che fino ad ora rimane misteriosa: non un’oceanina qualsiasi, bensì la regina «nella quale il dio Sole entra per diventare ancor più intimamente se stesso»; per sua qualità “lunare”, Nearia tende a sfuggire nell’ombra; ma nell’Odissea viene indicata un’altra sposa del Sole, una dea di cui non si sa nient’altro, Perse «figlia di Oceano», che ha dato al re Helios la sua prima figlia, Circe.

La regina deve morire

Diventare regina è una possibilità dell’essere femminile, tanto quanto la verginità o la maternità. La regina non è una semplice controparte o una “costola” mancante nella virilità solare, ma è colei che porta a compimento la perfezione stessa del Sole; tuttavia non è una dea: la stessa nozione di “regina” è profondamente umana, e in lei è connaturata l’idea della morte.

Lo scandalo di Circe consiste nell’essere, terribile e malvagia, la primogenita del Sole. Sappiamo di lei attraverso Omero (Odissea, canto X), ma la conosciamo veramente? Era capace di modulare dei canti che ammaliavano più per un particolare timbro della voce, riconoscibilmente umana, persino un po’ stridula, che per la sonorità della melodia.

La storia di una dea dalle belle trecce

Il luogo in cui abita Circe è la “selvaggia” isola di Aiaie (Eea), che Omero situa al di là dell’oriente e dell’occidente,
dove di Eos sono la casa e le danze e di Helios la splendida aurora,
davanti alla costa occidentale d’Italia, sul monte Circeo, dove un tempo c’era un corridoio paludoso che univa quell’isola selvatica alla terraferma.

Qui, nella fitta boscaglia, dimora la divina ammaliatrice insieme a «lupi selvaggi e leoni», fiere dall’aspetto terribile che, sapremo poi, un tempo erano stati uomini e sono ora imprigionati nella rete incantata e crudele della figlia del Sole; la forte connotazione di “pótnia theron” e la pratica della magia, soprattutto d’amore, rivelerebbero in Circe l’eredità del modello «di una dea ancora più grande», che è forse possibile individuare nella dea Cipride, come suggerisce questo inno omerico ad Afrodite dove la connotazione di “signora degli animali”, oltre a quella erotica, appare molto spiccata
A lei dietro scodinzolando grigi lupi e leoni dagli occhi brillanti, orsi, pantere veloci di caprioli mai sazie [...] Nel vederli gioì la dea [...]: insieme giacquero tutti a coppie dentro le grotte ombrose.
Nel suo palazzo di pietra levigata Circe abita, inoltre, con quattro ancelle che sono
ninfe dei boschi, delle fonti, dei sacri fiumi che scendono al mare. Una poneva sui seggi splendidi drappi di porpora, sotto ai quali stendeva dei panni sottili; davanti ai seggi un’altra disponeva i tavoli d’argento e sopra vi collocava canestri d’oro; nella grande coppa d’argento mescolava la terza il vino profumato, dolcissimo, e distribuiva i calici d’oro; portava l’acqua la quarta e sotto un tripode enorme accendeva un gran fuoco.

Il cerchio magico

L’incantesimo di Circe è delimitato all’interno di un circulus al centro del quale c’è il suo palazzo, e chiunque vi capiti ne viene irretito. La simbologia del cerchio è particolarmente appropriata nel caso di Circe in quanto figlia del Sole, come circolare è il moto dell’astro diurno. Questo destino lo porta nel nome stesso: Kirke è il femminile di kirkos (circus in latino), il volteggiare di un uccello predatore – o anche il lupo che gira intorno alla vittima prima di colpire, o per Omero un falco; l’incantesimo d’amore trae forza da questo “potere accerchiante” che stordisce e trasporta in una spirale senza tempo e senza scampo.

La tela e il canto

In tutte le sue azioni, però, Circe rimane umana. Non è propriamente lei a volteggiare sulla preda, magari in forma di “dea alata”; lo fa attraverso gli strumenti magici che sono le pozioni e poi una potente bacchetta che usa ad esempio per trasformare in porci i compagni di Odisseo.
Su troni e seggi li fece sedere e per loro nel vino [...]  mescolò del formaggio e biondo miele e farina di orzo; ma al cibo unì anche dei filtri magici perché scordassero la patria, per sempre. E quando l’ebbe offerto loro ed essi ne bevvero, subito con una bacchetta li toccò e nei porcili li chiuse.
È umano il suo canto, quando vi si intrattiene intenta alla sua tela; è umano il suo attendere alla tessitura, occupazione svolta dalle donne all’interno di una “dimensione domestica” che per Circe, però, è solo apparente: è pur sempre la figlia del Sole, possiede un lato celestiale che non può essere ignorato anche se non è facile da individuare. Un indizio possono fornirlo, ancora una volta, le parentele: Omero nomina un fratello Aiete definendolo “feroce”, connesso con gli Inferi, la cui “metà chiara” andrebbe ricercata (figlio del Sole anche lui, deve averne una) proprio in Circe. Ma dove trovare nella “malvagia” e terrestre Circe un pezzo di cielo?
Circe che dentro cantava con la sua bella voce mentre tesseva una tela grande, divina, come sono quelle che fanno le dee, sottili, splendenti di grazia, perfette. 
Il cerchio che avvolge, la tela che metaforicamente avvinghia; sono due facoltà che Circe usa per irretire e sono perciò associate al suo lato “negativo” e pericoloso. Ma l’attività del tessere nasconderebbe, agli occhi di chi non la sa leggere, anche una funzione creatrice che ha a che fare, più che con l’Helios corrispondente al giorno astronomico, con il Sole come vita che anch’essa viene filata e tessuta, «una vita aurea, argentea, piena di luce»³.

La comparazione con la mitologia scandinava può fornire un sostegno a questa ipotesi, in alcuni brani dove si fa riferimento all’attività di tessitura che impegna la discendenza della dea solare⁴, come nel Kalevala: 
Donna Sole sedette su una nuda pietra / e filò sulla sua conocchia dorata 
e in alcune canzoni lettoni:
un abito d’oro tessuto alla Luna, un velo fulgido al Sole... 
Anche le Moire filano ma, sebbene pur sempre “celesti” e associate ora alla giustizia di Temi, ora alla Notte, ora all’ineluttabilità di Zeus, producono un tessuto che non è né solare né lunare, ma «di misura e di morte». Così come la tessitrice umana per eccellenza nell’Odissea è Penelope che fila e disfa, e perciò maggiormente correlata alla sfera d’azione delle Moire che non a quella della “rivale” che utilizza ogni mezzo, anche i più sleali per trattenere Odisseo con sé.

Circe può dunque avere a che fare con un “mondo di luce” che traspare dal filato e dal canto, e allo stesso tempo essere terrena, persino viscerale. Come se, ogni volta che tentassimo di coglierne il lato luminoso, ci fosse un “peso” che la tira giù nelle sue spire dorate. Il canto, d’altronde, lo ha in comune con le Sirene, che allo stesso modo sanno avvolgere le vittime nelle loro trame fino al completo smarrimento. 

La strada per il regno dei morti

Circe conosce la strada per il regno dei morti, e la indica all’eroe che dovrà percorrerla per arrivare a interrogare l’anima di Tiresia: «una dea che tesse e di nuovo scioglie nascite e morti», anche se Circe, almeno quella omerica, non ha a che fare in alcun modo con la maternità; è una «lupa aggirante», «etéra mortale che procura il piacere e divora gli uomini». Ἐταίρα è letteralmente compagna, amica, anche in senso figurato; con significato più specifico anche cortigiana (cfr. vocabolario Rocci, ad vocem), riferito a donne di condizioni sociali e culturali superiori che usano intrattenere con gli uomini rapporti liberi e alla pari.

Circe conosce la via ma non varca la soglia degli Inferi, non accompagna personalmente Odisseo nell’avventura che sarà argomento dell’XI canto; allo stesso modo non “scende” nella condizione porcina, altrettanto infernale, dei compagni dell’eroe: lei non si trasforma, ma opera una trasformazione fisica che lascia intatta la ragione e, per questo, si situa non del tutto fuori dal reale, ma “ai margini” – come la sua dimora, raggiungibile sì ma “a un giorno di viaggio” dai luoghi più estremi della terra: il regno di Oceano, di Notte, di Ade...
Dei porci avevano [...] l’aspetto, ma non la mente.
L’essere etéra, certamente in un modo tutto suo, come declinazione personale di una delle tante “possibilità” dell’essere femminile, si accompagna al tempo stesso all’immagine della “lupa che divora” ma le due condizioni non si contraddicono: come in lei si possono trovare la terra e gli Inferi e insieme la luce del cielo, così può arrivare a provocare sia la distruzione che il piacere.

L’abbandono

Rispetto all’uomo che ha di fronte, riconosciuto come «Odisseo l’eroe del lungo viaggio» che non viene stregato dal suo filtro, chiarisce fin da subito le sue intenzioni:
E quindi
saliamo sul mio letto, affinché mescolati
in amplesso d’amore, ci diamo fiducia.
La fiducia di cui parla la dea è, in senso greco, «supremo abbandono in un’aperta dedizione di se stessi» che in Circe non si traduce mai nei confronti di Odisseo in servilismo pietoso, in richiesta o preghiera, ma nella pretesa intellettualmente onesta di un rapporto sincero, alla pari.

Beninteso, Odisseo era scampato agli intrighi di Circe non per la sua ferrea volontà ma per via di una certa erba portentosa che gli dèi chiamano μῶλυ, dalle radici nere e i fiori candidi, che avrebbe annullato gli incantesimi della maga e che gli era stata ‒ letteralmente ‒ strappata da terra e consegnata da Hermes in persona, fatto sta che l’eroe ne è immune (leggi anche Sugli amuleti nell’antichità greco romana).

Con la mente lucida, egli non può sottrarsi al dolore per la condizione dei suoi uomini e darsi spensieratamente ai piaceri. Dopo aver strappato la promessa che, se lui l’avesse raggiunta nel suo letto, lei avrebbe liberato i compagni, essersi fatto lavare e ungere e vestire e servire dolci pasti da ancelle e vivandiere e condurre su un trono d’oro come un re, di nuovo Odisseo si schermisce di fronte a Circe rifiutandola, umiliato come uomo, annientato, smascherato di fronte alla capacità di lei di lasciarsi andare «oltre la [sua] misura umana». Non può far altro che affidarsi senza difese, supplicandola tra le lacrime.

E Circe sempre lo accontenta, e mentre lo accompagna, dandogli le ultime preziose indicazioni per raggiungere la terra delle ombre, si prende ancora cura di lui facendogli indossare mantello e tunica. Lei, nello splendore che le si addice,
vestì un grande manto d’argento, leggero, bello, e mise ai fianchi una fascia d’oro, stupenda, avvolse la testa nel velo.
*

K. Kerényi, Figlie del Sole, prefazione di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 1991 (ed. or. 1944), pp. 62-3 ss., 71-2, 75, 77 et passim.
La traduzione italiana dei brani del canto X dell’Odissea è di M. G. Ciani, Marsilio, Venezia 1994.
L’inno ad Afrodite è riportato in Kerényi, p. 68.

in [ religione_greca ]

Commenti

Articoli correlati