Dalle antiche e oscure forme di devozione della Venere Calva alla Victrix venerata da Pompeo fino alla Genetrix, madre divina di Enea e progenitrice della stirpe romana, il culto di Venere a Roma si attesta in una serie di templi che costellavano la città. Sinonimo di bellezza, di seduzione e del potere del fascino femminile, la Venere latina deve molto del suo carattere all’Afrodite venerata presso il santuario di Erice, frequentato fin dall’epoca arcaica e presso cui i Romani sostarono a lungo durante la campagna di Sicilia. Una dea nella quale confluivano caratteri semitici oltre che greci, e la cui tonalità predominante era quella del piacere e della fecondità.
La venia degli dei
Il nome della latina Venere è probabilmente riconducibile a un antico neutro astratto, venus, da cui anche il verbo venerari, che nel periodo più antico era usato per esprimere un atteggiamento dell’uomo verso gli dei, uno sforzo per accattivarsi la loro benevolenza, cercare di piacere, sperando di ricevere in cambio dal dio la sua benevolenza, ossia la venia divina.
Corrispettivo della veneratio umana verso il dio, la venia designa il moto benevolo del dio verso verso l’uomo, il suo favore, che, sollecitato dall’orante, ma senza costrizione, concede la sua pax e apporta benefici.
Nelle formule, l’uso religioso del verbo veneror aggiunge una sfumatura accattivante, che vuol essere seducente, alla quale il destinatario divino non può resistere. In altre parole derivate, invece, assume un carattere magico, più costrittivo, come in venenum (venes-no), che traduce il φίλτρον greco, o profano, designando anche il potere del fascino femminile messo in opera nei confronti dell’altro sesso.
Santuari di Venere a Roma
Prima del III secolo aev a Roma è conosciuta solo un’antica e oscura forma di devozione della dea, riferita a una Venere Calva, ovvero “delle Calve”, chiamata così forse per commemorare il gesto delle matrone che sacrificavano i loro capelli, incontestato strumento del fascino femminile.
Mentre le evidenze archeologiche suggeriscono che i santuari di Venere a Roma sono tutti posteriori. Tra i più antichi, i templi di Venere Ossequente, Obsequens, cioè propizia, che esaudisce le preghiere (295 aev), e quello di Venere Verticordia (“che volge i cuori”, venerata dalle donne sposate), nei pressi del Circo Massimo verso l’Aventino, dove sorgevano luoghi di culto di grande antichità, dei quali non resta traccia.
E poi il tempio di Venere Cloacina, nella parte occidentale del Foro Romano, piccolo sacello a cielo aperto costituito da un basso recinto circolare in cui erano posizionate due statue, situato in un luogo in cui si sarebbero svolti due importanti episodi della storia mitica delle origini (la purificazione con rami di mirto degli eserciti romano e sabino, dopo la guerra scatenata dal celebre ratto, e l’uccisione di Virginia da parte del padre, per salvarne la virtù).
Un probabile tempio a Venere Felix fu invece eretto da Silla intorno all’82 aev, al suo ritorno trionfante dalla Grecia dopo la presa di Atene nell’86. Egli stesso si attribuì l’epiteto felix, riconoscendo di aver avuto una buona sorte, traducendolo in greco ἐπαφρόδιτος.
Con Pompeo, che nutriva una particolare devozione verso la dea, Venere diviene Victrix, Vincitrice, in ricordo della vittoria contro Mitridate. Nel 55 le dedica un tempio, presso il teatro da lui stesso fatto costruire a Campo Marzio, forse identificabile con un tempio della Vittoria citato da Aulo Gellio nelle Notti attiche (X, 1, 6 ss.).
Cesare, dal canto suo, che si riteneva diretto discendente dalla stirpe di Enea, dopo la vittoriosa battaglia contro Pompeo a Farsalo (48 aev) corresse l’epiteto in Genitrix, Genitrice, e le innalzò nel Foro un sontuoso tempio di marmo e d’oro, che fu poi totalmente rifatto per volontà di Traiano con una nuova inaugurazione, nel 113 ev.
— Leggi anche l’Invocazione a Venere nel De rerum natura di Lucrezio.
E infine, tra i più recenti, il tempio di Venere e Roma, grandioso edificio che occupava tutto lo spazio tra la basilica di Massenzio e la valle del Colosseo, uno dei più grandi edifici di culto di Roma antica, costruito da Adriano, dedicato nel 135 ev e restaurato da Massenzio nel IV secolo.
Bellezza, lusso, voluttà
Un discorso a parte merita il tempio di Venere Ericina (di Erice), poi compreso entro i famosi giardini di Sallustio (Horti Sallustiani), costruito tra il 184 e il 181 aev, forse da identificare con un edificio rotondo, visibile ancora nel Cinquecento, che aveva la stessa forma del santuario di Cnido dove era custodita la celebre statua di Afrodite di Prassitele, mentre un altro tempio a Venus Erycina, su un percorso che conduceva all’attuale palazzo del Quirinale, fu dedicato alla dea ancora prima, nel 215 aev.
Ma per raccontare questa storia, occorre andare indietro nel tempo e ritrovare traccia della più antica Venere trasmessa ai Latini dagli Etruschi, a sua volta conosciuta attraverso un culto comune fondato direttamente da Enea, appena giunto nel Lazio.
Il monte Erice, nella Sicilia abitata dal popolo degli Elimi (di cui Segesta era la capitale), era sede illustre di un culto ad Afrodite. Qui i Romani sostarono a lungo, durante la campagna di Sicilia, fino a stringere una forte alleanza con gli Elimi, i quali si consideravano discendenti degli antichi immigrati troiani: i Troiani di Segesta e i Troiani di Roma si erano insomma riconosciuti fratelli, nella comune lotta contro i Cartaginesi, e Venere, divina madre di Enea, era la loro antenata.
Se Erice si è strutturata come polis nel V secolo aev, come testimonia Tucidide nella Guerra del Peloponneso, citando anche il tempio di Afrodite (τὸ Ἔρυκι ἱερὸν τῆς Ἀφροδίτης) (6, 46, 3), è probabile che il santuario fosse ben più antico e possa risalire all’epoca arcaica, e che attorno ad esso, grazie alla sua frequentazione, si fosse costituita la città. Ma è nella Sicilia divenuta provincia romana che il tempio assume un ruolo centrale e, con esso, il culto di Venere.
A fornirci le più cospicue notizie sul culto di Venere nel santuario di Erice e sul suo funzionamento in epoca repubblicana è Cicerone nelle Verrine (In Verrem), come, ad esempio, il fatto che il tempio poteva contare su un vasto insieme di personale alle proprie dipendenze, i servi Venerii (2, 3, 143).
Nella Venere Ericina confluivano elementi semitici (le spighe di grano e le colombe raffigurate sulle monete la collegano alle dee orientali, nonché la presenza di prostitute sacre) oltre che greci, e la sua tonalità predominante era quella del piacere e della fecondità. Per i Romani invece, in ricordo della lunga difesa del monte Erice, Venere diveniva soprattutto elargitrice di vittoria.
I lavacri di Venere
A Roma, il culto di questa Venere Ericina fu infatti decisamente “romanizzato”: non vennero accolte né la prostituzione sacra né altre e più “piacevoli” pratiche siciliane, ma fu istituito un nuovo rito di effusione del vino — con enormi quantità di vino versate in un ruscello nelle vicinanze del tempio.
Diversamente, il secondo tempio votato alla Venere di Erice, costruito nel 184 aev in occasione della guerra contro i Liguri e dedicato tre anni dopo, era sede di un culto molto più vicino al modello siciliano, e molto più spettacolare. Era una splendida costruzione che ospitava una ricca statua della dea ed era situata fuori dalla città, extra pomerium, secondo una regola religiosa, che si dice di origine etrusca, per cui le passioni suscitate dalla dea devono essere tenute lontane dagli adolescenti e dalle madri di famiglia. Riporta infatti Vitruvio (De Architectura, 1, 7, 1):
è inoltre dimostrato dagli indovini etruschi [Etruscis haruspicibus disciplinarum] nei trattati sulla loro scienza, che i templi di Venere, Vulcano e Marte dovrebbero essere situati fuori dalle mura [extra murum Veneris, Volcani, Martis fana ideo conlocari], affinché i giovani e le madri di famiglia [adulescentibus seu matribus familiarum] non si abituino alle tentazioni inerenti il culto di Venere [veneria libido], e affinché gli edifici siano liberi dal pericolo di incendi dovuti ai riti religiosi e ai sacrifici [religionibus et sacrificiis] che richiamano la forza di Vulcano. Quanto a Marte, quando la divinità è custodita oltre le mura, i cittadini non prenderanno mai le armi gli uni contro gli altri, ed egli difenderà la città dai nemici e la salverà dal pericolo della guerra.
La Venere Ericina venerata in questo secondo santuario ricorda la greca Afrodite e la semitica Astarte, e qui confluiscono le “donne leggere della capitale”, le volgares puellae (Fasti, IV, 895 ss.), le ragazze comuni che chiedono alla dea, tra offerte di incenso (poscite ture), menta (sisymbrium, timo selvatico), mirto e ghirlande di rose, la bellezza, il favore del popolo, l'arte delle carezze e le parole che più convengono ai giochi d'amore.
E se il primo mese del calendario arcaico era dedicato a Marte, padre di Romolo, il secondo mese, aprile, sembra derivare dal nome greco di Venere, madre di Enea.
— Sull’antico calendario romano di dieci mesi, da martius a december, leggi Februarius, il mese che non c’era.
A Venere, quindi, Ovidio dedica il IV libro dei Fasti, che apre con l’enigmatico saluto
Alma, fave, geminorum mater Amorum
forse a indicare la coppia Eros e Anteros (amore vendicatore), forse a indicare l’altro nome di Amore, Cupido.
— Sull’esistenza, per Platone, di due dee, Afrodite Pandemos, popolare, e Afrodite Ourania, celeste, e quindi di due tipi di Eros, leggi: La verità, vi prego, sull’Amore.
Così, il dies natalis di questo antico tempio di Venere Ericina, dedicato da Quinto Fabio Massimo il 23 aprile del 215, il giorno dei Vinalia di primavera, Ovidio invita le donne a recarsi al santuario per la lavatio della statua della dea (Fasti, IV, vv. 133 ss.):
Madri del Lazio, e voi, giovani spose [nurus], e voi, che non potete portare la vitta e l’abito lungo, onorate la dea secondo il rito [rite deam colitis], togliete i collari d’oro dal suo collo di marmo, toglietele le sue ricchezze, dovete lavarla tutta [tota lavanda dea est]. Quando il suo collo sarà asciutto, restituitele le catene d’oro. Si rechino alla dea altri fiori, nuove rose; voi stesse, secondo il suo comando, lavate i vostri corpi sotto i verdi mirti [sub viridi myrto]...