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L’incantatrice. Un legamento d’amore

Considerato l’iniziatore della poesia bucolica, esponente del “polimorfismo ellenistico”, di Teocrito (Siracusa, 310/300 aev-260?) rimangono una trentina di carmi, componimenti diversi per tema e struttura raccolti sotto il nome generico di “idilli”, di cui tre “mimi”, dove cioè sono rappresentate, a imitazione della realtà, figure di gente comune nel concreto delle situazioni quotidiane e dei sentimenti che le animano. A caratterizzare la poetica di Teocrito è l’intensità psicologica dei personaggi, tracciata con tono realistico cui si si associa una intensa componente immaginaria ed emotiva. L’incantatrice è la protagonista dell’Idillio II, di cui proponiamo il testo completo e la traduzione, descritta nell’atto di compiere un incantesimo d’amore.

Franz Von Stuck, Tilla Durieux as Circe, 1913 ca. (via Wiki Commons)

La seduzione e l’abbandono / Dee, donne, streghe / Gli strumenti della magia / Le azioni della magia / Idillio II

La seduzione e l’abbandono

I personaggi dell’idillio sono Simeta, l’amato Delfi, giovane atleta dalla barba bionda, e l’ancella Testili

Simeta è una “canefora”, vergine di buona famiglia che portava i sacri arredi nelle processioni. L’allusione al suo stato sociale è al v. 66, nel racconto su come è iniziato l’amore per Delfi: la nutrice le chiese un giorno di recarsi ad assistere alla processione di Artemide, e lì lo incontrò, impazzendo subito d’amore per lui. 

Simeta appartiene a quel ceto “borghese” che si sta consolidando, nel primo Ellenismo, sia a livello sociale sia letterario, e che ha reso le donne autonome nelle proprie scelte e nei propri desideri. L’occasione è anche utile ad indicare lo stato di verginità in cui si trovava Simeta prima di incontrare Delfi.

Una lacerante passione si impossessa all’istante della giovane, precipitando il suo corpo in uno stato simile a un ardente morbo e riducendola pelle e ossa. Il ricordo di un’estasi consumata e poi la consapevolezza dell’abbandono, dopo essere stata illusa e ingannata, la gettano in una condizione psicologica ossessiva dalla quale scaturisce questo tormentato monologo interiore, in cui gli interlocutori sono, oltre all’ancella, le divinità preposte alla magia e i suoi strumenti magici.

Simeta è, infatti, anche una φαρμακεύτρια, tradotto con “incantatrice”, arte che dice di aver appreso da uno straniero assiro (v. 162). Il φάρμακον, corrispondente al latino venenum, può essere un qualsiasi oggetto, un liquido o una sostanza che potenzialmente altera o produce cambiamenti in un corpo. Ha un significato ambivalente. Se, da una parte, ha il potere di curare, in senso negativo può essere toxicum, cioè distruggere le vite. 

Per estensione, significa la pozione magica, droga e incantesimo, anche di seduzione. Così Afrodite istruisce suo figlio Enea prima che questi, esule e naufrago in cerca di aiuto, entri nella reggia di Didone a Cartagine: le soffierai nel cuore un fuoco velenoso (Virgilio, Eneide, 1, 688):

occultum inspires ignem fallasque veneno [sott. amoris, d’amore].

L’incantatrice (venefica) è quindi l’agente, colei che compie l’azione. 

Dee, donne, streghe

Diverse divinità femminili sono invocate nell’incantesimo d’amore. Colei a cui Simeta si rivolge in prima persona, raccontandole come in un lungo monologo interiore la sua triste storia d’amore, è Selene, la Luna, che sovrintende ai riti magici in quanto tipicamente notturni. 

Ecate infera è la notturna signora, regina oscura degli spiriti inquieti, patrona per eccellenza della stregoneria e protettrice di chi la esercita. Associata a Persefone, dea delle potenze sotterranee e quindi insieme a lei preposta agli incantesimi, Ecate è identificata anche con Artemide (invocata al v. 33). Ecate è la divinità che ha il potere di conferire alla pozione l’efficacia magica richiesta.

— Sulla figura e i poteri di Ecate e la sua l’associazione con Persefone leggi: Prodromi di una dea.

Ai vv. 15-16 sono nominate tre maghe famose nel mito e nella letteratura: Medea, Circe e Perimede, quest’ultima forse identificata con la «bionda Agamede, che conosceva tutte le erbe che crescono sulla vasta terra», nominata nell’Iliade (XI, vv. 740-741).

— Sulla vicenda di Medea narrata da Euripide leggi: Medea gelosa, Medea in lutto
— Sulla dea Circe maga e incantatrice leggi: Figlia del Sole su sfondo di tenebra.

Alle divinità vengono offerte libagioni per tre volte (come tre sono le volte in cui viene ripetuta la formula, il desiderio di Simeta che l’amato torni). Le offerte sono costituite da crusca di grano (al plurale τὰ πίτυρα, v. 33) e farina d’orzo (ἄλφιτά, v. 18) da bruciare, sciogliere nel fuoco. 

Gli strumenti della magia

Teocrito tratteggia con pennellate di estremo realismo le azioni compiute da Simeta, mentre svolge l’incantesimo d’amore finalizzato a legare l’amato Delfi che l’ha abbandonata, e così conosciamo i suoi gesti, gli strumenti utilizzati, le erbe, le offerte ed anche gli animali, vivi o morti, che accompagnano o prendono parte al rituale. 

L’atto magico è una forza che, grazie alla proprietà della simpatia universale per cui ogni parte del cosmo interferisce sulle altre parti e sul tutto, trasferisce il proprio effetto sugli esseri sovrannaturali che le dominano. 

Sulla base del comune principio dell’analogia, sono tre le categorie fondamentali secondo cui si svolgono le operazioni magiche: la formula verbale, l’azione mimetica, l’oggetto iconico

L’azione, la parola, lo sguardo, oltre agli strumenti e ai materiali quali pietre, piante, animali e prodotti della terra, sono veicoli cui è affidata la trasmissione dell’effetto magico, che può avere diversi obiettivi, la ricchezza, la salute, l’annientamento di un nemico, ma soprattutto l’amore.

— Sul significato di pietre, piante, metalli e animali leggi: Sugli amuleti nell’antichità greco romana: materiali e forme.

Tra gli strumenti, la coppa (κελέβη, v. 2) è nominata per prima; è il contenitore, il recipiente entro cui si mischiano e bruciano gli elementi.

— Sull’utilizzo delle coppe magiche in ambito giudaico e sulle analogie con la magia greca leggi: La magia in una coppa. Incantesimi per la buona e la cattiva sorte

La coppa è incoronata con «purpureo fiore di lana», decorata con un fiocco pregiato, simbolo di vita, saggezza, bellezza e giovinezza. Il filo di lana, secondo un principio di analogia caratteristico della magia, serve a legare, avvincere l’amato.

Dentro la coppa, l’incantatrice getta diversi elementi. Tra le erbe, sono citati in primo luogo l’alloro, che al v. 1 apre il componimento, e l’ippomane (v. 48), un’erba che cresce sui monti d’Arcadia che ha la capacità rendere furiose le cavalle e le puledre; l’analogia magica serve a richiamare l’amato, che possa tornare forsennatamente da Simeta come un cavallo imbizzarrito.

Un altro strumento è il rombo (ῥόμβος, v. 30), un attrezzo circolare di bronzo, una ruota magica simile a una trottola che viene fatta girare grazie alla torsione di due corde passate attraverso due fori al suo interno, usata anche come amuleto d’amore.

Sempre di bronzo è un altro oggetto (v. 36) indicato semplicemente come τὸ χαλκίον (v. 36, il bronzo, rame), una sorta di gong che manda un suono prolungato simile a un’eco. 

La torquilla (ἶυγξ), nominata molte volte nella reiterazione della formula magica, è un uccello appartenente alla famiglia dei picchi, comunemente chiamato “torcicollo” poiché la sua testa, molto mobile sul collo, può compiere una torsione completa. Veniva impiegato nella magia d’amore per far girare una ruota magica, anch’essa chiamata ἶυγξ.

Tra gli animali che hanno un ruolo nel rituale, oltre alle cagne di Ecate che indicano la presenza della dea, viene nominata anche la lucertola (σαύρα) come ingrediente della pozione, la “mala bevanda” (v. 58) che Simeta è intenzionata a somministrare all’amato per indurlo a tornare da lei.

Le azioni della magia

Il fuoco ha un ruolo centrale nel rituale d’amore. Dentro la coppa bruciano gli ingredienti, come la farina d’orzo che si “strugge” nel fuoco, o l’alloro che, ardendo, crepita forte e poi divampa, così anche l’amato possa consumarsi nel fuoco della passione. Nel “fuoco selvaggio” Simeta lacera e scaglia anche un lembo del mantello di Delfi (v. 54).

L’utilizzo della cera ha la stessa finalità: sciogliere, struggere d’amore, con l’aiuto di Ecate, l’uomo che l’ha abbandonata (v. 28).

E così vediamo, attraverso i versi di Teocrito, tutti i gesti compiuti da Simeta nella preparazione rituale della pozione: bruciare, roteare, spargere, impastare, pestare

La pozione viene poi cosparsa (vv. 18, 21, 59), con l’aiuto dell’ancella, durante la notte, sulla soglia dell’uomo amato, ripetendo la formula “Di Delfi impasto le ossa” (v. 61) o “spargo le ossa” (v. 21).

Teocrito, Idillio II

πᾷ μοι ταὶ δάφναι; φέρε Θεστυλί: πᾷ δὲ τὰ φίλτρα;
στέψον τὰν κελέβαν φοινικέῳ οἰὸς ἀώτῳ,
ὡς τὸν ἐμὸν βαρὺν εὖντα φίλον καταθύσομαι ἄνδρα,
ὅς μοι δωδεκαταῖος ἀφ᾽ ὧ τάλας οὐδέποθ᾽ ἵκει,
[5] οὐδ᾽ ἔγνω πότερον τεθνάκαμες ἢ ζοοὶ εἰμές.
οὐδὲ θύρας ἄραξεν ἀνάρσιος. ἦ ῥά οἱ ἀλλᾷ
ᾤχετ᾽ ἔχων ὅ τ᾽ ῎Ερως ταχινὰς φρένας ἅ τ᾽ ᾿Αφροδίτα;
βασεῦμαι ποτὶ τὰν Τιμαγήτοιο παλαίστραν
αὔριον, ὥς νιν ἴδω, καὶ μέμψομαι οἷά με ποιεῖ.
[10] νῦν δέ νιν ἐκ θυέων καταθύσομαι. ἀλλὰ Σελάνα,
φαῖνε καλόν: τὶν γὰρ ποταείσομαι ἅσυχα, δαῖμον,
τᾷ χθονίᾳ θ᾽ ῾Εκάτα, τὰν καὶ σκύλακες τρομέοντι
ἐρχομέναν νεκύων ἀνά τ᾽ ἠρία καὶ μέλαν αἷμα.
χαῖρ᾽ ῾Εκάτα δασπλῆτι, καὶ ἐς τέλος ἄμμιν ὀπάδει.
[15] φάρμακα ταῦτ᾽ ἔρδοισα χερείονα μήτέ τι Κίρκης
μήτέ τι Μηδείας μήτε ξανθᾶς Περιμήδας.
 
Dov’è l’alloro? Dammi, Testili. E dove i filtri?
Incorona la coppa con purpureo fiore di lana,
onde il mio amato, che ora mi è grave pena, io avvinca:
sono dodici giorni, povera me!, dacché neppure viene
[5] e neppure sa se sono morta o viva,
né alla porta bussa, crudele! Certamente altrove 
se ne andò Eros con le volubili brame di lui, e Afrodite.
Mi recherò alla palestra di Timageto
domani, per vederlo, e gli rinfaccerò come mi tratta.
[10] Ma ora con sacrifici voglio legarlo. Orsù, Selene,
splendi di bella luce: a te, o dea, dirò sommessi incantesimi,
e ad Ecate infera, di cui tremano fino i cani
quando s’avanza dei morti tra le tombe e il nero sangue.
Salve, Ecate tremenda, e fino alla fine sii mia compagna;
[15] e fa’ questi farmaci non più deboli di quelli di Circe,
né di quelli di Medea o della bionda Perimede.
 
 ῏Ιυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
ἄλφιτά τοι πρᾶτον πυρὶ τάκεται: ἀλλ᾽ ἐπίπασσε
Θεστυλί. δειλαία, πᾷ τὰς φρένας ἐκπεπότασαι;
[20] ἦ ῥά γε τρισμυσαρὰ καὶ τὶν ἐπίχαρμα τέτυγμαι;
πάσσ᾽ ἅμα καὶ λέγε ταῦτα: ‘τὰ Δέλφιδος ὀστία πάσσω.’
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
Δέλφις ἔμ᾽ ἀνίασεν: ἐγὼ δ᾽ ἐπὶ Δέλφιδι δάφναν
αἴθω: χὡς αὕτα λακεῖ μέγα καππυρίσασα
[25] κἠξαπίνας ἅφθη, κοὐδὲ σποδὸν εἴδομες αὐτᾶς,
οὕτω τοι καὶ Δέλφις ἐνὶ φλογὶ σάρκ᾽ ἀμαθύνοι.
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
ὡς τοῦτον τὸν κηρὸν ἐγὼ σὺν δαίμονι τάκω,
ὣς τάκοιθ᾽ ὑπ᾽ ἔρωτος ὁ Μύνδιος αὐτίκα Δέλφις.
[30] χὡς δινεῖθ᾽ ὅδε ῥόμβος ὁ χάλκεος ἐξ ᾿Αφροδίτας,
ὣς τῆνος δινοῖτο ποθ᾽ ἁμετέραισι θύραισιν.
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
νῦν θυσῶ τὰ πίτυρα. τὺ δ᾽ ῎Αρτεμι καὶ τὸν ἐν ῞Αιδα
κινήσαις ἀδάμαντα καὶ εἴ τί περ ἀσφαλὲς ἄλλο.
[35] Θεστυλί, ταὶ κύνες ἄμμιν ἀνὰ πτόλιν ὠρύονται.
ἁ θεὸς ἐν τριόδοισι: τὸ χαλκίον ὡς τάχος ἄχει.
 
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Farina d’orzo prima si strugge nel fuoco. Orsù, spargi,
Testili. Sciagurata, cove sei volata col pensiero?
[20] O forse, disgraziata, anche a te son divenuta scherno?
Spargi, e insieme di’ questo: «Le ossa di Delfi spargo».
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Delfi mi tormenta: e io per Delfi l’alloro
brucio; e come questo crepita forte ardendo
[25] e ad un tratto divampa e neanche più la cenere ne vediamo,
così anche Delfi nella fiamma il corpo consumi.
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Come questa cera io struggo con l’aiuto della dea,
così subito si strugga d’amore Delfi di Mindo.
[30] E come rotea questo bronzo rombo per potere di Afrodite,
così quello s’aggiri presso la nostra porta.
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Ora offrirò la crusca. Tu, Artemide, anche di Ade 
l’acciaio smoveresti, e ‒ se esiste ‒ ogni cosa più salda.
[35] Testili, le cagne, ecco, abbaiano per la città:
la dea è nei trivi; il bronzo subito fa’ echeggiare.
 
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
ἠνίδε σιγῇ μὲν πόντος, σιγῶντι δ᾽ ἀῆται:
ἁ δ᾽ ἐμὰ οὐ σιγῇ στέρνων ἔντοσθεν ἀνία,
[40] ἀλλ᾽ ἐπὶ τήνῳ πᾶσα καταίθομαι, ὅς με τάλαιναν
ἀντὶ γυναικὸς ἔθηκε κακὰν καὶ ἀπάρθενον ἦμεν.
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
ἐς τρὶς ἀποσπένδω καὶ τρὶς τάδε πότνια φωνέω:
εἴτε γυνὰ τήνῳ παρακέκλιται εἴτε καὶ ἀνήρ,
[45] τόσσον ἔχοι λάθας, ὅσσόν ποκα Θησέα φαντὶ
ἐν Δίᾳ λασθῆμεν ἐυπλοκάμω ᾿Αριάδνας.
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
ἱππομανὲς φυτόν ἐστι παρ᾽ ᾿Αρκάσι: τῷ δ᾽ ἐπὶ πᾶσαι
καὶ πῶλοι μαίνονται ἀν᾽ ὤρεα καὶ θοαὶ ἵπποι.
[50] ὣς καὶ Δέλφιν ἴδοιμι, καὶ ἐς τόδε δῶμα περάσαι
μαινομένῳ ἴκελος λιπαρᾶς ἔκτοσθε παλαίστρας.
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
τοῦτ᾽ ἀπὸ τᾶς χλαίνας τὸ κράσπεδον ὤλεσε Δέλφις,
ὡγὼ νῦν τίλλοισα κατ᾽ ἀγρίῳ ἐν πυρὶ βάλλω.
[55] αἰαῖ ῎Ερως ἀνιηρέ, τί μευ μέλαν ἐκ χροὸς αἷμα
ἐμφὺς ὡς λιμνᾶτις ἅπαν ἐκ βδέλλα πέπωκας;
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
σαύραν τοι τρίψασα ποτὸν κακὸν αὔριον οἰσῶ.
Θεστυλί, νῦν δὲ λαβοῖσα τὺ τὰ θρόνα ταῦθ᾽ ὑπόμαξον
[60] τᾶς τήνω φλιᾶς καθ᾽ ὑπέρτερον, ἇς ἔτι καὶ νύξ,
καὶ λέγ᾽ ἐπιφθύζοισα: ‘τὰ Δέλφιδος ὀστία μάσσω.’
 ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.
 
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Guarda, il mare tace e tacciono i venti:
ma la mia pena non tace dentro nel petto,
[40] e tutta ardo per lui, che me misera,
invece che moglie, fece spregevole e non più vergine.
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Per tre volte libo e tre volte, o Signora, questo dico:
Sia che una donna giace con lui, sia anche un uomo,
[45] tanto ne abbia oblio quanto una volta dicono che Teseo
in Dia si dimenticasse di Arianna dalla bella chioma.
 Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Ippomane è un’erba d’Arcadia, per cui tutte
le puledre sui monti infuriano e le veloci cavalle;
[50] così anche Delfi io vegga, e a questa casa venga
simile a forsennato, dalla nitida palestra.
 󠀠Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo. 
Questa frangia dal mantello Delfi ha perduto,
che io ora dilacero e scaglio nel fuoco selvaggio.
[55] Ahimè, Eros crudele, perché il nero mio sangue dal corpo,
confitto come palustre sanguisuga, tutto bevesti?
 󠀠Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
Una lucertola pesta, mala bevanda, domani ti porterò.
Testili, ora prendi questi farmachi e cospargili 
[60] sopra la sua soglia finché è ancora notte,
e di’ bisbigliando: «Di Delfi impasto le ossa».
 󠀠Torquilla, e tu trascina alla mia casa quell’uomo.
 
νῦν δὴ μώνα ἐοῖσα πόθεν τὸν ἔρωτα δακρύσω;
[65] ἐκ τίνος ἄρξωμαι; τίς μοι κακὸν ἄγαγε τοῦτο;
ἦνθ᾽ ἁ τῶὐβούλοιο κανηφόρος ἄμμιν ᾿Αναξὼ
ἄλσος ἐς ᾿Αρτέμιδος, τᾷ δὴ τόκα πολλὰ μὲν ἄλλα
θηρία πομπεύεσκε περισταδόν, ἐν δὲ λέαινα.
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
[70] καί μ᾽ ἁ Θευχαρίδα Θρᾷσσα τροφὸς ἁ μακαρῖτις
ἀγχίθυρος ναίοισα κατεύξατο καὶ λιτάνευσε
τὰν πομπὰν θάσασθαι: ἐγὼ δέ οἱ ἁ μεγάλοιτος
ὡμάρτευν βύσσοιο καλὸν σύροισα χιτῶνα,
κἀμφιστειλαμένα τὰν ξυστίδα τὰν Κλεαρίστας.
 󠀠[75] φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
ἤδη δ᾽ εὖσα μέσον κατ᾽ ἀμαξιτόν, ᾇ τὰ Λύκωνος,
εἶδον ὁμοῦ Δέλφιν τε καὶ Εὐδάμιππον ἰόντας.
τοῖς δ᾽ ἦν ξανθοτέρα μὲν ἑλιχρύσοιο γενειάς,
στήθεα δὲ στίλβοντα πολὺ πλέον ἢ τὺ Σελάνα,
[80] ὡς ἀπὸ γυμνασίοιο καλὸν πόνον ἄρτι λιπόντων.
 󠀠φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
χὡς ἴδον, ὡς ἐμάνην, ὥς μευ πέρι θυμὸς ἰάφθη
δειλαίας: τὸ δὲ κάλλος ἐτάκετο, κοὔτέ τι πομπᾶς
τήνας ἐφρασάμαν, οὐδ᾽ ὡς πάλιν οἴκαδ᾽ ἀπῆνθον
[85] ἔγνων: ἀλλά μέ τις καπυρὰ νόσος ἐξεσάλαξε,
κείμαν δ᾽ ἐν κλιντῆρι δέκ᾽ ἄματα καὶ δέκα νύκτας.
 󠀠φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
καί μευ χρὼς μὲν ὁμοῖος ἐγίνετο πολλάκι θάψῳ,
ἔρρευν δ᾽ ἐκ κεφαλᾶς πᾶσαι τρίχες, αὐτὰ δὲ λοιπὰ
[90] ὀστί᾽ ἔτ᾽ ἦς καὶ δέρμα. καὶ ἐς τίνος οὐκ ἐπέρασα
ἢ ποίας ἔλιπον γραίας δόμον, ἅτις ἐπᾷδεν;
ἀλλ᾽ ἦς οὐδὲν ἐλαφρόν: ὁ δέ χρόνος ἄνυτο φεύγων.
 󠀠φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
χοὕτω τᾷ δούλᾳ τὸν ἀλαθέα μῦθον ἔλεξα:
[95] ‘εἰ δ᾽ ἄγε Θεστυλί μοι χαλεπᾶς νόσω εὑρέ τι μῆχος.
πᾶσαν ἔχει με τάλαιναν ὁ Μύνδιος: ἀλλὰ μολοῖσα
τήρησον ποτὶ τὰν Τιμαγήτοιο παλαίστραν:
τηνεῖ γὰρ φοιτῇ, τηνεῖ δέ οἱ ἁδὺ καθῆσθαι.’
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
[100] ‘κἠπεί κά νιν ἐόντα μάθῃς μόνον, ἅσυχα νεῦσον,
κεἴφ᾽ ὅτι Σιμαίθα τυ καλεῖ, καὶ ὑφαγέο τᾷδε.’
ὣς ἐφάμαν: ἁ δ᾽ ἦνθε καὶ ἄγαγε τὸν λιπαρόχρων
εἰς ἐμὰ δώματα Δέλφιν: ἐγὼ δέ νιν ὡς ἐνόησα
ἄρτι θύρας ὑπὲρ οὐδὸν ἀμειβόμενον ποδὶ κούφῳ 
 [105] φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα 
πᾶσα μὲν ἐψύχθην χιόνος πλέον, ἐν δὲ μετώπῳ
ἱδρώς μευ κοχύδεσκεν ἴσον νοτίαισιν ἐέρσαις,
οὐδέ τι φωνᾶσαι δυνάμαν, οὐδ᾽ ὅσσον ἐν ὕπνῳ
κνυζεῦνται φωνεῦντα φίλαν ποτὶ ματέρα τέκνα:
[110] ἀλλ᾽ ἐπάγην δαγῦδι καλὸν χρόα πάντοθεν ἴσα.
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
καί μ᾽ ἐσιδὼν ὥστοργος, ἐπὶ χθονὸς ὄμματα πήξας
ἕξετ᾽ ἐπὶ κλιντῆρι καὶ ἑζόμενος φάτο μῦθον:
ἦ ῥά με Σιμαίθα τόσον ἔφθασας, ὅσσον ἐγώ θην
[115] πρᾶν ποκα τὸν χαρίεντα τρέχων ἔφθασσα Φιλῖνον,
ἐς τὸ τεὸν καλέσασα τόδε στέγος ἤ με παρῆμεν.
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
ἦνθον γάρ κεν ἐγώ, ναὶ τὸν γλυκὺν ἦνθον ῎Ερωτα,
ἢ τρίτος ἠὲ τέταρτος ἐὼν φίλος αὐτίκα νυκτός,
[120] μᾶλα μὲν ἐν κόλποισι Διωνύσοιο φυλάσσων,
κρατὶ δ᾽ ἔχων λεύκαν, ῾Ηρακλέος ἱερὸν ἔρνος,
πάντοθε πορφυρέαισι περὶ ζώστραισιν ἑλικτάν.
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
καί μ᾽ εἰ μέν κ᾽ ἐδέχεσθε, τάδ᾽ ἦς φίλα: καὶ γὰρ ἐλαφρὸς
[125] καὶ καλὸς πάντεσσι μετ᾽ ἠιθέοισι καλεῦμαι:
εὗδόν τ᾽, εἴ κε μόνον τὸ καλὸν στόμα τεῦς ἐφίλασα:
εἰ δ᾽ ἀλλᾷ μ᾽ ὠθεῖτε καὶ ἁ θύρα εἴχετο μοχλῷ,
πάντως καὶ πελέκεις καὶ λαμπάδες ἦνθον ἐφ᾽ ὑμέας.
 
Ora, rimasta sola, da dove piangerò il mio amore?
[65] Da che cominciare? Chi mi ha recato questo male?
Venne a me la canefora Anassò figlia di Eubulo
al santuario di Artemide, cui allora molte fiere
venivano condotte attorno in processione, e anche una leonessa.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
[75] E la nutrice Tracia di Teomarida, la buonanima,
che abitava alla mia porta, mi pregò e mi supplicò
di assistere alla processione; e io, sventuratissima, 
l’accompagnai, vestendo un lungo chitone di bisso
e tutta avvolta nel mantello di Cleariste.
 [75] Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
E già ero a mezzo del cammino, alle case di Licone,
e vidi Delfi ed Eudamippo che insieme andavano;
bionda più dell’elicriso avevano la barba,
e il petto splendente molto più di te, o Selene,
[85] poiché del ginnasio la bella fatica appena lasciavano.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
Come lo vidi, subito impazzii, il cuore fu preda del fuoco
a me misera, e la bellezza si struggeva! E di quella processione
non più mi curai, e come di nuovo tornai a casa
[85] neppure so, ma un ardente morbo mi squassava
e giacqui nel mio letto dieci giorni e dieci notti.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
E il mio corpo diveniva spesso del colore del tapso,
e mi cadevano dal capo tutti i capelli, e solo mi restavano
[90] ancora ossa e pelle. E di chi non andai alla casa,
quale mai vecchia trascurai, che facesse incantesimi?
Ma nulla mi sollevava; e il tempo si compiva fuggendo.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
E così alla schiava questo sincero discorso feci:
[95] «Orsù, Testili, del grave morbo trovami qualche rimedio.
Tutta me misera possiede il giovane di Mindo: tu va’
e tieni d’occhio la palestra di Timageto;
là infatti va di frequente, là egli ama fermarsi ‒
 senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene ‒
[100] e appena tu lo vedi solo, fagli un cenno lieve
e digli “Simeta ti chiama”, e guidalo qui».
Così dissi; ed ella andò e condusse alla mia casa
Delfi dal corpo splendente; e io, come lo sentii
che oltrepassava la soglia della porta con piede leggero ‒
 [105] senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene ‒
tutta gelai più che a neve, e dalla fronte
il sudore mi stillava come umida rugiada,
e non potevo parlare, neppure quanto nel sonno
balbettano chiamando la cara madre i bambini;
[110] ma tutta nel bel corpo mi irrigidii come una bambola.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
E lui, cattivo, mi guardò e gli occhi a terra fissando
sedette sul letto, e sedutosi queste parole disse:
«Certo, o Simeta, tanto mi hai preceduto quanto io stesso
[115] prima nella corsa ho preceduto il grazioso Filino,
alla tua casa chiamandomi prima che passassi io.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
Ma sarei venuto io, sì, per il dolce Eros, sarei venuto
con due o tre amici subito, questa notte,
[120] i pomi di Dioniso in seno con cura serbando,
cinto il capo di pioppo bianco, sacra pianta di Eracle,
tutto all’intorno di purpurei nastri avvolto.
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
E se mi avesse accolto, piacere ne avrei avuto (ché svelto
[125] e bello tra i coetanei tutti son detto),
contento anche soltanto di baciare la bella tua bocca;
ma se mi aveste respinto e la sbarra fosse rimasta alla porta,
certamente scuri e fiaccole volavano contro di voi.
 
 φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
[130] νῦν δὲ χάριν μὲν ἔφαν τᾷ Κύπριδι πρᾶτον ὀφείλειν,
καὶ μετὰ τὰν Κύπριν τύ με δευτέρα ἐκ πυρὸς εἵλευ
ὦ γύναι ἐσκαλέσασα τεὸν ποτὶ τοῦτο μέλαθρον
αὔτως ἡμίφλεκτον: ῎Ερως δ᾽ ἄρα καὶ Λιπαραίω
πολλάκις ῾Ηφαίστοιο σέλας φλογερώτερον αἴθει.
 [135] φράζεό μευ τὸν ἔρωθ᾽ ὅθεν ἵκετο, πότνα Σελάνα.
‘σὺν δὲ κακαῖς μανίαις καὶ παρθένον ἐκ θαλάμοιο
καὶ νύμφαν ἐφόβησ᾽ ἔτι δέμνια θερμὰ λιποῖσαν
ἀνέρος.’ ὣς ὁ μὲν εἶπεν: ἐγὼ δέ οἱ ἁ ταχυπειθὴς
χειρὸς ἐφαψαμένα μαλακῶν ἔκλιν᾽ ἐπὶ λέκτρων.
[140] καὶ ταχὺ χρὼς ἐπὶ χρωτὶ πεπαίνετο, καὶ τὰ πρόσωπα
θερμότερ᾽ ἦς ἢ πρόσθε, καὶ ἐψιθυρίσδομες ἁδύ:
χὥς κά τοι μὴ μακρὰ φίλα θρυλέοιμι Σελάνα,
ἐπράχθη τὰ μέγιστα, καὶ ἐς πόθον ἤνθομες ἄμφω.
κοὔτέ τι τῆνος ἐμὶν ἐπεμέμψατο μέσφα τό γ᾽ ἐχθές,
[145] οὔτ᾽ ἐγὼ αὖ τήνῳ. ἀλλ᾽ ἦνθέ μοι ἅ τε Φιλίστας
μάτηρ τᾶς ἀλαᾶς αὐλητρίδος ἅ τε Μελιξοῦς
σάμερον, ἁνίκα πέρ τε ποτ᾽ ὠρανὸν ἔτρεχον ἵπποι
᾿Αῶ τὰν ῥοδόπαχυν ἀπ᾽ ᾿Ωκεανοῖο φέροισαι.
κεἶπέ μοι ἄλλά τε πολλὰ καὶ ὡς ἄρα Δέλφις ἐρᾶται,
[150] κεἴτέ νιν αὖτε γυναικὸς ἔχει πόθος εἴτε καὶ ἀνδρός,
οὐκ ἔφατ᾽ ἀτρεκὲς ἴδμεν, ἀτὰρ τόσον: αἰὲν ῎Ερωτος
ἀκράτω ἐπεχεῖτο καὶ ἐς τέλος ᾤχετο φεύγων,
καὶ φάτο οἱ στεφάνοισι τὰ δώματα τῆνα πυκάσδειν.
ταῦτά μοι ἁ ξείνα μυθήσατο: ἔστι δ᾽ ἀλαθής:
[155] ἦ γάρ μοι καὶ τρὶς καὶ τετράκις ἄλλοκ᾽ ἐφοίτη,
καὶ παρ᾽ ἐμὶν ἐτίθει τὰν Δωρίδα πολλάκις ὄλπαν:
νῦν δέ τε δωδεκαταῖος ἀφ᾽ ὧτέ νιν οὐδὲ ποτεῖδον.
ἦ ῥ᾽ οὐκ ἄλλό τι τερπνὸν ἔχει, ἁμῶν δὲ λέλασται;
 
 Senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene.
[130] E ora dico di dovere in primo luogo grazie a Cipride;
e dopo Cipride tu per seconda mi hai tratto dal fuoco,
o donna, chiamandomi a questo tuo tetto,
così a metà bruciato: Eros invero una fiamma
spesso più ardente di Efesto Lipareo accende ‒
 [135] senti questo mio amore da dove venne, augusta Selene ‒
e con funeste follie la vergine dal talamo
e la sposa allontana, che abbandona il letto ancora caldo
del marito». Così egli disse; e io, pronta a credere,
lo presi per mano e lo piegai sul soffice letto;
[140] ed ecco il corpo si scaldava al corpo, e i volti
più ardenti erano che prima, e mormoravamo dolcemente.
E per non farti lunghi discorsi, cara Selene,
il più fu fatto e al desiderio giungemmo entrambi.
Ed egli non ebbe a lamentarsi per nulla di me fino a ieri,
[145] né io di lui. Ma venne a me di Filista,
nostra sonatrice di flauto, la madre, e di Melisso,
stamane, quando verso il cielo correvano le cavalle,
la rosea Aurora su dall’oceano portando,
e fra molte altre cose mi disse che Delfi è innamorato.
[150] E se di donna desiderio lo tenga ovvero di uomo,
disse di non sapere con certezza, ma questo solo: che in onore di Eros
sempre vino puro si fa mescere e infine se ne andò di corsa,
e disse che quella casa avrebbe ornato di corone.
Questo mi raccontò l’amica, ed è veritiera.
[155] Infatti da me tre e quattro volte un tempo veniva,
e presso di me lasciava spesso l’ampolla dorica;
ma ora sono dodici giorni dacché neppure l’ho visto.
Non ha dunque qualche altro diletto, e di me si è dimenticato?
 
νῦν μὲν τοῖς φίλτροις καταθύσομαι: αἰ δ᾽ ἔτι κἠμὲ
[160] λυπῇ, τὰν ᾿Αίδαο πύλαν ναὶ Μοίρας ἀραξεῖ.
τοῖά οἱ ἐν κίστᾳ κακὰ φάρμακα φαμὶ φυλάσσειν,
᾿Ασσυρίω δέσποινα παρὰ ξείνοιο μαθοῖσα.
ἀλλὰ τὺ μὲν χαίροισα ποτ᾽ ᾿Ωκεανὸν τρέπε πώλους,
πότνι᾽: ἐγὼ δ᾽ οἰσῶ τὸν ἐμὸν πόνον ὥσπερ ὑπέσταν.
[165] χαῖρε Σελαναία λιπαρόχροε, χαίρετε δ᾽ ἄλλοι
ἀστέρες, εὐκήλοιο κατ᾽ ἄντυγα Νυκτὸς ὀπαδοί.
 
E ora con questi filtri lo legherò; e se mai ancora
[160] mi tormenta, la porta d’Ade, sì per le Moire, batterà:
tali per lui nella cesta conservo tristi veleni,
che da uno straniero assiro, Regina, ho appreso.
E tu, serena, all’oceano rivolgi i destrieri,
Signora; sopporterò questa mia passione come ho sopportato.
[165] Salve, Selene, fulgida, e salve anche voi,
astri al carro della placida Notte.

(Traduzione, commento e note in D. Del Corno, Antologia della letteratura greca, vol. 3: L’età ellenistica, Principato, Milano 1991, pp. 104-22.)

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