Passa ai contenuti principali

In deorum Matrem. Inno alla Madre degli dei

Il breve regno di Flavio Claudio Giuliano (361-363) si situa proprio al centro dell’ultima fase della civiltà ellenistico-romana che chiamiamo la tarda antichità. Figlio del tetrarca Costanzo I e nipote di Costantino, di cui il padre era fratellastro, fu detto “l’Apostata” perché rinnegò con forza un cristianesimo che gli fu imposto dalla tradizione familiare, pur non avendovi mai aderito. Ma il suo tentativo appassionato di decristianizzare l’imperò, a circa cinquant’anni dalla conversione di Costantino, ha incontrato la resistenza passiva degli stessi “pagani”, per lo più indifferenti al suo approccio filosofico e moralizzante fino al rigorismo, al suo disegno politico estremo di mettere in atto una sorta di “neopaganesimo” sincretico che superasse entrambe le religioni, popolato da dei e miti di cui si cominciava a perdere la memoria. Oltre a diversi discorsi, opuscoli, lettere e trattati, fu autore di due inni in prosa, Alla Madre degli dei e A Helios re, vere e proprie omelie liturgiche dove mito e allegorie filosofiche si fondono in estatica professione di fede.

Jean Alaux, Cibele, 1834 ca. (via Louvre Collections)

Il sogno di Giuliano / Teosofia, teurgia, telestica / Madre degli dei e degli uomini / La Signora Nera / Drammaturgia misterica per un nuovo politeismo / Alla Madre degli dei, testo e traduzione

Nato a Costantinopoli nel 331, a soli sei anni scampò, insieme al fratello maggiore Gallo, al massacro della sua famiglia perpetrato da Costanzo, Costantino II e Costante, attraverso cui i tre si assicurarono la spartizione dell’impero dopo la morte del padre Costantino, nel 337. Un trauma che lo accompagnò per tutta la giovane vita, e infatti, sia dagli amici che dai detrattori, è sempre descritto come ansioso, inquieto, dagli occhi mobili, ardenti e magnetici, con una personalità problematica fino alla nevrosi. 

Nell’attesa che la sua posizione fosse più sicura, fino ai dodici anni visse nell’irrealtà di una “prigione dorata” in una lontana tenuta in Cappadocia, nel castello di Macellum, nutrito di lettere greche e latine dall’eunuco Mardonio, suo precettore, facendosi iniziare con passione a un ampio millennio di ellenismo religioso

Gli fu poi permesso di continuare gli studi ad Atene, a Nicomedia e in alcune città dell’Asia Minore, fino a che, elevato al rango di Cesare nel 355, con sorpresa di tutti fece prova di sé come buon soldato nelle campagne contro i Franchi e gli Alemanni. Alla morte di Costanzo, salì pacificamente al trono facendo trionfalmente ingresso a Costantinopoli nel 361.

Le fonti principali sull’imperatore Giuliano provengono, oltre che dai suoi stessi scritti, dalle Orationes ed Epistulae di Libanio di Antiochia, di cui Giuliano fu ammiratore e mecenate, e dalle Rerum Gestarum di Ammiano Marcellino (i cui primi 13 libri sono perduti), entrambi rappresentanti di quel paganesimo colto e liberale del IV secolo che visse con sofferenza il declino delle antiche religioni, dalla chiusura dei templi alla rimozione delle statue e alla proibizione dei culti.

— Sul breve regno di Giuliano, leggi anche Aristocrazia senatoria e reazione pagana nel Tardo impero, in La fine di un mondo. Ultimi tentativi di restaurazione pagana a Roma.

Il percorso di circolazione e diffusione del Corpus Iulianaeus è stato per molto tempo contrastato dagli ambienti di fede cristiana, soprattutto monastici, entro i quali si riproducevano le opere antiche, anche se è difficile dimostrare che la scarsità di manoscritti nel periodo bizantino sia dovuta a deliberata sottrazione o distruzione da parte di fanatici cristiani. Gli opuscoli superstiti di Giuliano sono contenuti nel codice Vossianus gr. 77 del XIII secolo, conservato presso l’Università di Leiden, il più completo e significativo nonché il più antico, che riflette le singole edizioni principi curate dallo stesso autore.

Cibele, la dea frigia (illustrazione da The Syrian Goddess di Luciano di Samosata)

Il sogno di Giuliano

In un terreno occupato ormai da un secolo dal cristianesimo in piena espansione, il grande progetto dell’imperatore era quello di instaurare una sorta di ellenismo anticristiano dove far confluire il complesso delle religioni antiche tradizionali ormai in declino, fondato sul neoplatonismo fuso con la teosofia e la teurgia di Giamblico; all’allievo del “divino Porfirio” Giuliano si ispirò con vera e propria devozione, riproducendone il modello anche nell’oscurità del linguaggio, soprattutto nei due Inni. Il suo incontro con il platonismo è così descritto in una pagina di Libanio:

finì per incontrare uomini tutti presi dalle dottrine di Platone, e li ascoltò parlare degli dei, dei demoni, dei creatori e dei veri salvatori di tutto questo universo; della natura dell’anima, della sua origine e del suo destino; delle cause della sua discesa e della sua ascesa, della sua attrazione qui in basso e del suo risalire; di quanto per lei è un legame, di ciò che è la sua libertà; come può accadere che essa sfugga all’uno e che ottenga l’altra. Purificò l’amarezza di quell’insegnamento con la dolcezza di questo discorso e, respingendo tutte le assurdità precedenti, le sostituì nel suo animo con la bellezza delle verità che egli vi immise, come si accolgono in un vasto tempio statue divine rimaste a lungo fra la melma di un pantano (Libanio, Orationes, XVIII 18).

Con acceso fervore e devozione, Giuliano mirava alla restaurazione di un paganesimo “riformato”, quintessenza della spiritualità, una sorta di contro-Chiesa pagana. Ma dalla proclamazione a imperatore fino alla morte in battaglia, durante la ritirata dell’esercito romano dalla Persia, passano appena tre anni, troppo pochi per riuscire a mettere in atto il suo ambizioso piano di sradicamento completo del cristianesimo.

Fu chiamato “Apostata” ma non aderì mai al cristianesimo, e pertanto è improprio dire che se ne distaccò. Piuttosto, la sua fede è sempre stata rivolta alle antiche divinità pagane:

Pregava di nascosto Mercurio [occulte Mercurio supplicabat], che l’insegnamento dei teologi rappresenta come l’intelligenza dell’universo, quella che, più pronta degli altri spiriti, risveglia la loro attività (Ammiano, XVI 5, 5).

Teosofia, teurgia, telestica

Insoddisfatti di una semplice adesione ai culti collettivi, gli individui di quest’epoca cercano la salvezza personale grazie a un rapporto più diretto e intimo con le divinità introdotte nell’impero romano dalle lontane province, dai riti e misteri di Iside, ad Attis e Atargatis, l’“Afrodite siriana”, al persiano Mithra, e che fin dal II secolo affiorano nella letteratura. 

— Su Atargatis venerata a Roma come Dea Syria leggi Atargatis, la dea pesce.

La salvezza passa attraverso la rivelazione, ma non si tratta solo di un metodo spirituale: è anche un metodo pratico di iniziazione ad alcuni riti che permettono di realizzare l’opera divina (θεουργία), in particolare l’esercizio dell’arte telestica (lett. “compiere”), che consente la purificazione dell’anima e del corpo, consistente nella consacrazione delle statue divine. La “vivificazione” di queste statue era resa possibile grazie a implorazioni, che servivano ad aiutare la divinità a entrare in esse per pronunciarvi oracoli. (Sull’argomento, leggi gli articoli pubblicati con l’etichetta Statue viventi.)

Misticismo, magia e platonismo sono combinati assieme in questa teosofia misterica e misteriosa, che comprendeva una liturgia segretamente riservata agli iniziati.

Statuetta romana in bronzo con Cibele su un carro trainato da leoni, seconda metà del II secolo ev (via Jstor)

Madre degli dei e degli uomini

Come Grande Madre, o Madre degli dei (μήτηρ θεῶν) nell'antica religione greca veniva invocata Rhea, una delle figlie di Gea e Urano, madre dei tre sovrani del mondo: Zeus, Posidone e Ade, nonché di Hera, Demetra ed Hestia, cioè tutta la giovane generazione degli dei olimpi. 

Venerata nell’Asia Minore come Mater oreia, “madre montana”, identificata quasi sempre da nomi di monti (Berecinzia, Dindimene, Idea, dal monte Ida) a indicare la sua origine in regioni montuose, il paese nel quale il suo culto fu più diffuso è stata la Frigia, dove era chiamata Matar Kubile, da cui Cibele.

Connessa con la sfera della fecondità e della generazione, aveva tratti in comune con Demetra e, in una dimensione più figurale, con Afrodite e Artemide, in particolare nella rappresentazione di dea montana e silvestre, circondata da un corteggio di fiere, come quella che viene data nell’Inno omerico XIV:

Musa canora, figlia del grande Zeus, cantami
la madre di tutti gli dei e di tutti gli uomini, 
ella s’allieta al grido dei crotali e dei timpani,
lo strepito dei flauti, l’urlo dei lupi e dei torvi leoni,
i monti echeggianti e le valli selvose.
saluto te con il mio canto, e anche tutte le altre dee.

Rhea-Cibele è chiamata “madre degli uomini” anche in Aristofane (μήτηρ θεῶν καὶ ἀνθρώπων, Gli uccelli, v. 874) nonché nell’innografia orfica, denominazione che può derivare da un sincretismo tra la Grande Madre e la Terra, genitrice universale.

Da te nacque la stirpe degli immortali e dei mortali (inno XXVII, Alla Madre degli dei)

(Cfr. K. Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 75; Inni omerici, a cura di G. Zanetto, Bur, Milano 2000, pp. 191, 299; Inni orfici, a cura di E. Faggin, Asram Vidya, Palermo 1986.)

La Signora Nera

Il culto di Cibele è stato solennemente introdotto a Roma sin dal 204 aev. Nel 207, la città stava affrontando, in un clima di pubblico nervosismo, il pericolo cartaginese, mentre Asdrubale, attraversata la Gallia, conduceva i rinforzi che Annibale attendeva da tempo. 

Tra una serie di prodigi che vengono interpretati come segni funesti, si fa sempre più chiara la gravità della situazione. La battaglia sul Metauro sancisce la vittoria dei Romani e tuttavia Annibale non si decide a lasciare l’Italia meridionale, al punto che il Senato si vede costretto a chiedere una particolare protezione al regno di Pergamo in Asia Minore, in virtù di un’antica amicizia che li aveva resi alleati contro i Macedoni di re Filippo, pur non essendo stato stretto alcun trattato ufficiale di alleanza.

Nel 205, mentre Annibale si ostinava a prolungare il suo soggiorno nella Penisola, i decemviri, dopo aver consultato i Libri Sibillini, chiesero l’introduzione ufficiale del culto della Grande Madre, cioè di Cibele, avendovi letto un carmen singolarmente chiaro:

Quando lo straniero avrà portato la guerra sulla terra italica, potrà essere scacciato e vinto solo se la Madre Idea [mater Idaea] sarà stata trasportata da Pressinunte a Roma (Tito Livio, Ab urbe condita, 29, 10, 4-6).

A Pressinunte, vicino al confine della Galazia, verso la Frigia, a circa 80 miglia a sud-ovest di Ancyra (Ankara), su cinque grandi navi, fu inviata un’ambasceria composta da tre membri di antiche famiglie patrizie e due della nobiltà plebea, accompagnati da un sacerdote e una sacerdotessa e dal loro seguito. Fecero dapprima tappa a Delfi per consultare l’oracolo di Apollo, ricevendone un responso positivo, a patto che, una volta giunta a Roma, la dea fosse stata accolta in modo ospitale.

Attalo, re di Pergamo, ricevette amichevolmente gli ambasciatori e 

deduxit sacrumque iis lapidem, quam matrem deum esse incolae dicebant 
donò loro la pietra sacra che gli abitanti dicevano fosse la Madre degli dei (29, 11, 7),

cioè la pietra nera che rappresentava la dea (forse un aerolito, un meteorite), oggetto di un culto molto antico, verosimilmente abbastanza piccola da poter essere usata in seguito come volto della statua.

Ad accogliere la nave giunta all’imboccatura del Tevere, a Ostia, c’erano un optimus, il giovane Cornelio Scipione Nasica, cugino di un generale della repubblica, e una castissima, Claudia Quinta, figlia di consoli, che ricevettero la pietra e la condussero a terra. Fu quindi consegnata alle donne di più alto rango che, passandosi di mano in mano la dea in successione ininterrotta, a sua volta la condussero in carrozza in città, con una marcia trionfale.

Tutta la città era venuta loro incontro. Dinanzi alle porte delle case, lungo il percorso della processione, l’incenso suonava nei turiboli. Si pregava la dea di entrare ben disposta nella città e di esserle propizia. Venne portata al tempio della Vittoria [in aedem Victoriae], sul Palatino, la vigilia delle Idi di aprile, e questa data divenne giorno di festa. Il popolo accorse numeroso al Palatino con offerte. Ci furono un lectisternio e dei giochi, chiamati Megalensia (29, 14, 13-14).

Successivamente, la festa fu spostata al pridie nonas, il 4 aprile invece del 12, e prevedeva il sacrificio di una giovenca. Il nome deriva da Megalesion, il santuario da cui la pietra fu tratta per essere portata a Roma. Così racconta anche Varrone (De lingua latina, VI, 3): «Megalesia dicta a Graecis, quod ex Libris Sibyllinis arcessita ab Attalo rege Pergama; ibi prope murum Megalesion, id est templum eius deae, unde advecta Romam». Dopo essere stata provvisoriamente ospitata nel tempio della Vittoria, la dea ebbe un tempio per sé sul Palatino, votato nel 204 e terminato nel 191. 

Al culto della Magna Mater furono incaricati un sacerdote e una sacerdotessa frigi, ma con rigorose limitazioni nella pratica e nelle manifestazioni rispetto all’originale asiatico. A Roma, infatti, la castrazione, operata sui sacerdoti eunuchi, era considerata un attentato contro la patria. I sacerdoti di Cibele erano chiamati Galli e indossavano un particolare copricapo di foggia orientale detto mitra. Questi personaggi, sebbene rivestissero un ruolo consacrato, erano oggetto a Roma di salace ironia, come quella che Marziale riserva loro nei suoi Epigrammi

Sempre da lui sappiamo che galliambi erano chiamati i versi poetici caratterizzati da uno stile particolarmente voluttuoso e molle (mollem debilitate galliambon, II, LXXXVI). 

Per lo stesso motivo, i riti e i sacrifici erano confinati all’interno della cinta del santuario, tranne che per un giorno all’anno, nel mese di marzo, quando la processione conduceva la dea al bagno in un ruscello, vicino alla porta Capena, una delle porte principali di Roma attraverso la quale passava la via Appia.  In queste vicinanze scorreva l’Almone, affluente del Tevere, e nelle sue acque i sacerdoti di Cibele lavavano la statua della dea ed i coltelli usati nei sacrifici:  

Capena grandi porta qua pluit gutta Phnygiumque Matris Almo qua lavat ferrum

là dove la porta Capena manda giù grosse gocce e l’Almone lava i coltelli della gran Madre frigia (Marziale, Epigrammi, III, XLVII).

Era comunque proibito ad ogni romano sacrificare a Cibele secondo il rito anatolico. 

A partire dal 204 furono costituite delle sodalità della Grande Madre, una sorta di gentes che comprendevano esclusivamente membri dell’aristocrazia, la cui funzione principale sembra essere consistita nell’onorare Cibele con banchetti tenuti a turno nelle case di ciascun confratello, detti mutitationes o dominia

(Cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Bur, Milano 2001, pp. 415 ss.) 

Cibele su un carro trainato da leoni con un sacerdote che si autoevira, manoscritto del XV secolo (via Europeana)

Drammaturgia misterica per un nuovo politeismo

Giuliano nutriva una particolare devozione per Cibele, la Magna Mater, ed è per questo che l’ha scelta come “manifesto” propagandistico in favore di un paganesimo rinnovato, perché rappresenta la continuità tra l’Oriente più remoto, la più antica tradizione ateniese e la religione romana fin dalla seconda guerra punica. 

Nel sangue di Giuliano, per parte di madre e di sua nonna Teodora, principessa siriaca, scorreva d’altronde anche sangue orientale. L’antica convergenza tra religione e filosofia trova compimento in rapporto allo spazio sempre più ampio occupato dalle religioni orientali, arrivate a Roma attraverso il filtro di una civiltà greca che aveva ellenizzato l’Oriente grazie a un processo di lenta osmosi. 

Composto durante una notte tra il 22 e il 25 marzo del 362, in congiuntura con l’equinozio di primavera nel ciclo festivo di Attis, nel silenzio propizio al raccoglimento, frutto di un sentimento di ispirazione esaltato ed esaltante, il discorso Alla Madre degli dei è una professione di fede, un’omelia liturgica solenne e fervente per un nuovo “credo pagano” universale. 

Nella speculazione mistico-filosofica, la vicenda di Attis e degli altri dei misterici è stata posta in rapporto con la vicenda di genesis e apogennesis delle anime, sostanza divina compromessa nel mondo corporeo e quindi integrata nel mondo divino, identificato con questa solenne figura femminile tratteggiata nell’inno di Giuliano: mondo dell’eterno e dello spirito che però non dimentica le sue radici naturistico-erotiche

— Sul carattere cosmico del culto di Attis, a cui si rivolgono attributi come omnipotens, leggi Gli dei ora spenti ora luminosi, in Le religioni del mistero. Un’introduzione.

Cibele diviene qui paredra di Helios, cioè una dea urania, l’amante divina verso la cui sede celeste l’anima ritorna dopo la sua contaminazione con il mondo del divenire. 

Il discorso si apre con la storia del culto e della sua introduzione a Roma, proseguendo con l’interpretazione del mito di Attis e della sua simbologia cosmica, alla luce dello svolgimento del ciclo festivo, per concludersi con un’orazione dedicata ai riti catartici e alle varie prescrizioni alimentari: una volta purificata, l’anima umana può nuovamente partecipare alla comunione con il divino. In chiusura, una lode e una preghiera alla Magna Mater, affinché conceda a lui e a tutti gli uomini di pervenire a questo stato di perfetta felicità.

Alla Madre degli dei, testo e traduzione

ΕΙΣ ΤῊΝ ΜΗΤΕΡΑ ΤΩΝ ΘΕΩΝ

1. [158d] Ἆρά γε χρὴ φάναι καὶ ὑπὲρ τούτων; καὶ ὑπὲρ τῶν ἀρρήτων γράψομεν καὶ τὰ ἀνέξοιστα ἐξοίσομεν [159a] καὶ τὰ ἀνεκλάλητα ἐκλαλήσομεν; τίς μὲν ὁ Ἄττις ἤτοι Γάλλος, τίς δὲ ἡ τῶν θεῶν Μήτηρ, καὶ ὁ τῆς ἁγνείας ταυτησὶ τρόπος ὁποῖος, καὶ προσέτι τοῦ χάριν οὑτοσὶ τοιοῦτος ἡμῖν ἐξ ἀρχῆς κατεδείχθη, παραδοθεὶς μὲν ὑπὸ τῶν ἀρχαιοτάτων Φρυγῶν, παραδεχθεὶς δὲ πρῶτον ὑφ̓ Ἑλλήνων, καὶ τούτων οὐ τῶν τυχόντων, ἀλλ̓ Ἀθηναίων, ἔργοις διδαχθέντων, ὅτι μὴ καλῶς ἐτώθασαν ἐπὶ τῷ τελοῦντι τὰ ὄργια τῆς Μητρός; λέγονται γὰρ [159b] οὗτοι περιυβρίσαι καὶ ἀπελάσαι τὸν Γάλλον ὡς τὰ θεῖα καινοτομοῦντα, οὐ ξυνέντες ὁποῖόν τι τῆς θεοῦ τὸ χρῆμα καὶ ὡς ἡ παῤ αὐτοῖς τιμωμένη Δηὼ καὶ Ῥέα καὶ Δημήτηρ. εἶτα μῆνις τὸ ἐντεῦθεν τῆς θεοῦ καὶ θεραπεία τῆς μήνιδος. ἡ γὰρ ἐν πᾶσι τοῖς καλοῖς ἡγεμὼν γενομένη τοῖς Ἕλλησιν, ἡ τοῦ Πυθίου πρόμαντις θεοῦ, τὴν τῆς Μητρὸς τῶν θεῶν μῆνιν ἐκέλευσεν ἱλάσκεσθαι: καὶ ἀνέστη, φασίν, ἐπὶ τούτῳ τὸ μητρῷον, οὗ τοῖς Ἀθηναίοις δημοσίᾳ πάντα ἐφυλάττετο τὰ γραμματεῖα. [159c] μετὰ δὴ τοὺς Ἕλληνας αὐτὰ Ῥωμαῖοι παρεδέξαντο, συμβουλεύσαντος καὶ αὐτοῖς τοῦ Πυθίου ἐπὶ τὸν πρὸς Καρχηδονίους πόλεμον ἄγειν ἐκ Φρυγίας τὴν θεὸν σύμμαχον. καὶ οὐδὲν ἴσως κωλύει προσθεῖναι μικρὰν ἱστορίαν ἐνταῦθα

1. Dobbiamo dunque parlare anche di questo? Scriveremo anche delle verità indicibili e divulgheremo quanto non deve essere rivelato e divulgato? Chi è, dunque, Attis o Gallo, chi la Madre degli dei, e qual è il rituale di questa purificazione? E ancora: perché dalle origini ci fu rivelato in questa forma, dopo essere stato trasmesso dai più antichi Frigi e accolto in primo luogo dai Greci, e non da Greci qualunque ma dagli Ateniesi, che avevano appreso per esperienza di aver mal fatto a dileggiare chi celebrava i misteri della Madre? Raccontano, infatti, che essi recassero offesa a Gallo e lo cacciassero perché innovava in materia religiosa, senza comprendere di quale dea si trattasse, e che non era altri che Deo, che loro adoravano, e anche Rea e Demetra. Ne derivò, quindi, la collera della dea e la propiziazione della collera. Fu infatti la sacerdotessa del dio pitico, guida dei Greci in tutte le nobili imprese, che ordinò loro di placare la collera della Madre degli dei: per questo, si narra, fu costruito il Metroon, dove gli Ateniesi custodivano per cura della città tutti i documenti. Dopo i Greci, furono i Romani ad accogliere il culto, quando il dio pitico consigliò anche a loro di trasportare la dea dalla Frigia, come alleata per la guerra contro i Cartaginesi. Credo, anzi, che nulla vieti di inserire un breve racconto di questo avvenimento.

2. Μαθόντες γὰρ τὸν χρησμὸν στέλλουσιν οἱ τῆς θεοφιλοῦς οἰκήτορες Ῥώμης πρεσβείαν αἰτήσουσαν παρὰ τῶν Περγάμου βασιλέων, οἳ τότε ἐκράτουν τῆς Φρυγίας, καὶ παῤ αὐτῶν δὲ τῶν [159d] Φρυγῶν τῆς θεοῦ τὸ ἁγιώτατον ἄγαλμα. λαβόντες δὲ ἦγον τὸν ἱερὸν φόρτον ἐνθέντες εὐρείᾳ φορτίδι πλεῖν εὐπετῶς δυναμένῃ τὰ τοσαῦτα πελάγη. περαιωθεῖσα δὲ Αἴγαιόν τε καὶ Ἰόνιον, εἶτα περιπλεύσασα Σικελίαν τε καὶ τὸ Τυρρηνὸν πέλαγος ἐπὶ τὰς ἐκβολὰς τοῦ Τύβριδος κατήγετο: καὶ δῆμος ἐξεχεῖτο τῆς πόλεως σὺν τῇ γερουσίᾳ, ὑπήντων γε μὴν πρὸ τῶν ἄλλων ἱερεῖς τε καὶ ἱέρειαι πᾶσαι καὶ πάντες ἐν κόσμῳ τῷ πρέποντι [160a] κατὰ τὰ πάτρια, μετέωροι πρὸς τὴν ναῦν οὐριοδρομοῦσαν ἀποβλέποντες, καὶ περὶ τὴν τρόπιν ἀπεσκόπουν τὸ ῥόθιον σχιζομένων τῶν κυμάτων: εἶτα εἰσπλέουσαν ἐδεξιοῦντο τὴν ναῦν προσκυνοῦντες ἕκαστος ὡς ἔτυχε προσεστὼς πόρρωθεν. ἡ δὲ ὥσπερ ἐνδείξασθαι τῷ Ῥωμαίων ἐθέλουσα δήμῳ, ὅτι μὴ ξόανον ἄγουσιν ἀπὸ τῆς Φρυγίας ἄψυχον, ἔχει δὲ ἄρα δύναμίν τινα μείζω καὶ θειοτέραν ὃ δὴ παρὰ τῶν Φρυγῶν λαβόντες [160b] ἔφερον, ἐπειδὴ τοῦ Τύβριδος ἥψατο, τὴν ναῦν ἵστησιν ὥσπερ ῥιζωθεῖσαν ἐξαίφνης κατὰ τοῦ Τύβριδος. εἷλκον δὴ οὖν πρὸς ἀντίον τὸν ῥοῦν, ἡ δὲ οὐχ εἵπετο. ὡς βραχέσι δὲ ἐντετυχηκότες ὠθεῖν ἐπειρῶντο τὴν ναῦν, ἡ δὲ οὐκ εἶκεν ὠθούντων. πᾶσα δὲ μηχανὴ προσήγετο τὸ ἐντεῦθεν, ἡ δὲ οὐχ ἧττον ἀμετακίνητος ἦν: ὥστε ἐμπίπτει κατὰ τῆς ἱερωμένης τὴν παναγεστάτην ἱερωσύνην παρθένου δεινὴ καὶ ἄδικος ὑποψία, καὶ [160c] τὴν Κλωδίαν ᾐτιῶντο: τοῦτο γὰρ ὄνομα ἦν τῇ σεμνῇ παρθένῳ: μὴ παντάπασιν ἄχραντον μηδὲ καθαρὰν φυλάττειν ἑαυτὴν τῇ θεῷ: ὀργίζεσθαι οὖν αὐτὴν καὶ μηνίειν ἐμφανῶς: ἐδόκει γὰρ ἤδη τοῖς πᾶσιν εἶναι τὸ χρῆμα δαιμονιώτερον. ἡ δὲ τὸ μὲν πρῶτον αἰδοῦς ὑπεπίμηπλατο πρός τε τὸ ὄνομα καὶ τὴν ὑποψίαν: οὕτω πάνυ πόρρω ἐτύγχανε τῆς αἰσχρᾶς καὶ παρανόμου πράξεως. ἐπεὶ δὲ ἑώρα τὴν αἰτίαν ἤδη καθ̓ ἑαυτῆς ἐξισχύουσαν, [160d] περιελοῦσα τὴν ζώνην καὶ περιθεῖσα τῆς νεὼς τοῖς ἄκροις, ὥσπερ ἐξ ἐπιπνοίας τινὸς ἀποχωρεῖν ἐκέλευεν ἅπαντας, εἶτα ἐδεῖτο τῆς θεοῦ μὴ περιιδεῖν αὐτὴν ἀδίκοις ἐνεχομένην βλασφημίαις. βοῶσα δὲ ὥσπερ τι κέλευσμα, φασί, ναυτικόν, Δέσποινα Μῆτερ εἴπερ εἰμὶ σώφρων, ἕπου μοι, ἔφη. καὶ δὴ τὴν ναῦν οὐκ ἐκίνησε μόνον, ἀλλὰ καὶ εἵλκυσεν ἐπὶ πολὺ πρὸς τὸν ῥοῦν: καὶ δύο ταῦτα Ῥωμαίοις ἔδειξεν ἡ θεὸς οἶμαι κατ̓ ἐκείνην [161a] τὴν ἡμέραν. ὡς οὔτε μικροῦ τινος τίμιον ἀπὸ τῆς Φρυγίας ἐπήγοντο φόρτον, ἀλλὰ τοῦ παντὸς ἄξιον, οὔτε ὡς ἀνθρώπινον τοῦτον, ἀλλὰ ὄντως θεῖον, οὔτε ἄψυχον γῆν, ἀλλὰ ἔμπνουν τι χρῆμα καὶ δαιμόνιον. ἓν μὲν δὴ τοιοῦτον ἔδειξεν αὐτοῖς ἡ θεός: ἕτερον δέ, ὡς τῶν πολιτῶν οὐδὲ εἷς λάθοι ἂν αὐτὴν χρηστὸς ἢ φαῦλος ὤν. κατωρθώθη μέντοι καὶ ὁ πόλεμος αὐτίκα Ῥωμαίοις πρὸς Καρχηδονίους, ὥστε τὸν τρίτον ὑπὲρ τῶν τειχῶν αὐτῆς μόνον Καρχηδόνος γενέσθαι. [161b] Τὰ μὲν οὖν τῆς ἱστορίας, εἰ καί τισιν ἀπίθανα δόξει καὶ φιλοσόφῳ προσήκειν οὐδὲν οὐδὲ θεολόγῳ, λεγέσθω μὴ μεῖον, κοινῇ μὲν ὑπὸ πλείστων ἱστοριογράφων ἀναγραφόμενα, σωζόμενα δὲ καὶ ἐπὶ χαλκῶν εἰκόνων ἐν τῇ κρατίστῃ καὶ θεοφιλεῖ Ῥώμῃ. καίτοι με οὐ λέληθεν ὅτι φήσουσιν αὐτά τινες τῶν λίαν σοφῶν ὕθλους εἶναι γρᾳδίων οὐκ ἀνεκτούς. ἐμοὶ δὲ δοκεῖ ταῖς πόλεσι πιστεύειν μᾶλλον τὰ τοιαῦτα ἢ τουτοισὶ τοῖς κομψοῖς, ὧν τὸ ψυχάριον δριμὺ μέν, ὑγιὲς δὲ οὐδὲ ἓν βλέπει

2. Dopo il responso, gli abitanti di Roma, città cara agli dei, inviarono un’ambasceria per chiedere ai re di Pergamo, che allora regnavano sulla Frigia, e agli stessi Frigi la santissima statua della dea. Una volta che l’ebbero ricevuta, trasportarono il loro santo carico imbarcandolo su una grande nave, capace di navigare agevolmente attraverso mari tanto vasti. Così la dea attraversò il mare Egeo, lo Ionio e, costeggiata la Sicilia, percorse il Tirreno, per imboccare quindi la foce del Tevere. Allora popolo e senato si riversarono dalla città, ma naturalmente in prima fila, nel venirle incontro, c’erano tutti i sacerdoti e le sacerdotesse, nelle vesti adatte secondo le tradizioni patrie: erano estasiati nella contemplazione della nave che avanzava, sospinta da un vento favorevole, e potevano scorgere il frangersi delle onde intorno alla chiglia. Tutti salutavano la nave che entrava in porto, prosternandosi da lontano, così come ognuno si trovava. Allora la dea sembrò voler dimostrare ai Romani che quello che recavano dalla Frigia non era un simulacro inanimato ma che il dono che stavano trasportando, ricevuto dai Frigi, conteneva davvero una potenza superiore e più divina. Infatti, quando ebbe toccato il Tevere, la dea arrestò la nave, come se improvvisamente avesse piantato radici nel fiume. Tentarono allora di trascinarla contro corrente, ma l’imbarcazione non si muoveva. Cercarono quindi di spingerla, pensando di essere finiti su una secca; ma, malgrado tutti gli sforzi, non si spostava. Benché fossero escogitati espedienti di ogni genere, la nave rimaneva immobile. Allora un terribile e iniquo sospetto sorse sulla vergine consacrata al più santo dei sacerdozi; alcuni presero ad accusare Claudia (questo infatti era il nome di quella nobile fanciulla) di non essersi mantenuta completamente immacolata e pura per la dea. La dea dunque era in collera e manifestava così il suo sdegno. Ormai l’accaduto sembrava a tutti soprannaturale. In un primo tempo, la fanciulla fu colta da vergogna, solo a sentire di cosa fosse sospettata, tanto era lontana da una condotta così turpe e illecita. Ma quando vide che l’accusa contro di lei diveniva più consistente, si tolse la cintura e la avvolse attorno alla prua della nave. Come per divina ispirazione, ordinò a tutti di scostarsi e pregò quindi la dea di non permettere che fosse ingiustamente diffamata. Poi, a gran voce, come se si trattasse di un comando marinaresco, gridò: «O Madre sovrana, se sono casta, seguimi!», e non solo riuscì a smuovere la nave, ma la trascinò addirittura contro corrente. Due, mi sembra, sono le cose che la dea quel giorno volle mostrare ai Romani: in primo luogo che il carico, che stavano trasportando dalla Frigia, non era di poco valore ma inestimabile, e che esso non era opera di uomini, ma qualcosa di veramente divino, non terra inanimata, ma entità dotata di vita e di poteri soprannaturali. Questo fu, dunque, il primo degli avvertimenti che la dea rivolse loro. L’altro fu che nessun cittadino poteva nascondere all’occhio della dea il suo comportamento, buono o cattivo che fosse. Subito comunque, il conflitto dei Romani con i Cartaginesi prese un corso favorevole, così che la terza guerra punica fu combattuta avendo come unica posta le mura della stessa Cartagine. Questi elementi del racconto, per quanto inverosimili e per nulla degni di un filosofo e di un teologo, è giusto comunque che siano riferiti. Infatti, oltre a essere concordamente raccontati dalla maggior parte degli storici, sono conservati in bronzo nella potentissima Roma, cara agli dei. Non mi sfugge, peraltro, che taluni sapientoni sosterranno che si tratta di intollerabili chiacchiere da vecchiette: io ritengo, però, che sia cosa migliore nutrir fiducia nelle tradizioni delle città piuttosto che in quegli spiriti sottili, di cui l’animuccia ha lo sguardo penetrante, ma i quali non vedono mai nulla di sano.

3. [161c] Ὑπὲρ δὲ ὧν εἰπεῖν ἐπῆλθέ μοι παῤ αὐτὸν ἄρτι τὸν τῆς ἁγιστείας καιρόν, ἀκούω μὲν ἔγωγε καὶ Πορφυρίῳ τινὰ πεφιλοσοφῆσθαι περὶ αὐτῶν, οὐ μὴν οἶδά γε, οὐ γὰρ ἐνέτυχον, εἰ καὶ συνενεχθῆναί που συμβαίη τῷ λόγῳ. τὸν Γάλλον δὲ ἐγὼ τουτονὶ καὶ τὸν Ἄττιν αὐτὸς οἴκοθεν ἐπινοῶ τοῦ γονίμου καὶ δημιουργικοῦ νοῦ τὴν ἄχρι τῆς ἐσχάτης ὕλης ἅπαντα γεννῶσαν οὐσίαν εἶναι, ἔχουσάν τε ἐν ἑαυτῇ πάντας τοὺς λόγους καὶ τὰς [161d] αἰτίας τῶν ἐνύλων εἰδῶν: οὐ γὰρ δὴ πάντων ἐν πᾶσι τὰ εἴδη, οὐδὲ ἐν τοῖς ἀνωτάτω καὶ πρώτοις αἰτίοις τὰ τῶν ἐσχάτων καὶ τελευταίων, μεθ̓ ἃ οὐδέν ἐστιν ἢ τὸ τῆς στερήσεως ὄνομα μετὰ ἀμυδρᾶς ἐπινοίας. οὐσῶν δὴ πολλῶν οὐσιῶν καὶ πολλῶν πάνυ δημιουργῶν τοῦ τρίτου δημιουργοῦ, ὃς τῶν ἐνύλων εἰδῶν τοὺς λόγους ἐξῃρημένους ἔχει καὶ συνεχεῖς τὰς αἰτίας, ἡ τελευταία καὶ μέχρι γῆς [162a] ὑπὸ περιουσίας τοῦ γονίμου διὰ τῆς ἄνωθεν παρὰ τῶν ἄστρων καθήκουσα φύσις ὁ ζητούμενός ἐστιν Αττις. ἴσως δὲ ὑπὲρ οὗ λέγω χρὴ διαλαβεῖν σαφέστερον. εἶναί τι λέγομεν ὕλην, ἀλλὰ καὶ ἔνυλον εἶδος. ἀλλὰ τούτων εἰ μή τις αἰτία προτέτακται, λανθάνοιμεν ἂν ἑαυτοὺς εἰσάγοντες τὴν Ἐπικούρειον δόξαν. ἀρχαῖν γὰρ δυοῖν εἰ μηδέν ἐστι πρεσβύτερον, αὐτόματός τις αὐτὰς φορὰ καὶ τύχη συνεκλήρωσεν. ἀλλ̓ ὁρῶμεν, [162b] φησὶ Περιπατητικός τις ἀγχίνους ὥσπερ ὁ Ξέναρχος, τούτων αἴτιον ὂν τὸ πέμπτον καὶ κυκλικὸν σῶμα. γελοῖος δὲ καὶ Ἀριστοτέλης ὑπὲρ τούτων ζητῶν τε καὶ πολυπραγμονῶν, ὁμοίως δὲ καὶ Θεόφραστος: ἠγνόησε γοῦν τὴν ἑαυτοῦ φωνήν. ὥσπερ γὰρ εἰς τὴν ἀσώματον οὐσίαν ἐλθὼν καὶ νοητὴν ἔστη μὴ πολυπραγμονῶν τὴν αἰτίαν, ἀλλὰ φὰς οὕτω ταῦτα πεφυκέναι: χρῆν δὲ δήπουθεν καὶ ἐπὶ τοῦ πέμπτου σώματος τὸ πεφυκέναι ταύτῃ λαμβάνοντα μηκέτι ζητεῖν τὰς αἰτίας, ἵστασθαι δὲ ἐπὶ αὐτῶν καὶ μὴ πρὸς τὸ νοητὸν [162c] ἐκπίπτειν ὂν μὲν οὐδὲν φύσει καθ̓ ἑαυτό, ἔχον δὲ ἄλλως κενὴν ὑπόνοιαν. τοιαῦτα γὰρ ἐγὼ μέμνημαι τοῦ Ξενάρχου λέγοντος ἀκηκοώς. εἰ μὲν οὖν. ὀρθῶς ἢ μὴ ταῦτα ἐκεῖνος ἔφη, τοῖς ἄγαν ἐφείσθω Περιπατητικοῖς ὀνυχίζειν, ὅτι δὲ οὐ προσηνῶς ἐμοὶ παντί που δῆλον, ὅπου γε καὶ τὰς Ἀριστοτελικὰς ὑποθέσεις ἐνδεεστέρως ἔχειν ὑπολαμβάνω, εἰ μή τις αὐτὰς ἐς ταὐτὸ τοῖς Πλάτωνος [162d] ἄγοι, μᾶλλον δὲ καὶ ταῦτα ταῖς ἐκ θεῶν δεδομέναις προφητείαις.

3. A quanto mi si dice, anche Porfirio ha scritto un trattato filosofico su un simile argomento, di cui sono indotto a parlare proprio per l’occasione di queste sacre cerimonie. Poiché, però, non l’ho mai letto, non so se il mio discorso si accordi con esso. Personalmente, sono convinto che questo Gallo e questo Attis sono la sostanza dell’intelligenza feconda e creatrice, la quale genera ogni cosa fino all’ultimo livello della materia e racchiude in sé tutte le ragioni e le cause delle forme materiali. Infatti, non in tutti gli esseri sono contenute le forme di tutte le cose, e nelle cause superiori e primarie non si trovano le forme delle più basse ed ultime, oltre le quali non c’è nulla se non il nome della privazione, associato con un’idea confusa. Certo, le sostanze sono numerose e molteplici, in particolare i demiurghi, ma quella che cerchiamo è la natura del terzo creatore, che contiene in sé le ragioni astratte delle cause materiali e le cause connesse, che è ultima e che discende dagli astri attraverso le regioni superiori fin sulla terra per effetto della sovrabbondanza di potere generativo, la natura insomma di Attis. Forse è opportuno, però, che chiarisca meglio quanto intendo dire. Diciamo che la materia esiste, ma ammettiamo anche una forma materiale per cui, se non si presuppone una causa preordinata ricadremmo inconsciamente nella dottrina epicurea. Infatti, se non ci fosse un principio anteriore a questi due, ne scaturirebbe di conseguenza che sono stati un movimento spontaneo e il caso a unirli insieme. «Tuttavia», osserverà qualche acuto peripatetico, come Senarco, «noi vediamo che la loro causa è il quinto corpo, quello circolare. È assurdo anche Aristotele quando investiga e si interessa di questi argomenti, e così anche Teofrasto, che non aveva chiaro il senso del suo proprio nome. Quando arrivò di fronte alla sostanza incorporea e intellegibile, si arrestò senza indagarne la causa, ma limitandosi ad affermare che si trattava di una condizione naturale. Allora avrebbe dovuto presupporre questa condizione anche nel caso del quinto corpo, invece di proseguire nella ricerca di cause prime; si sarebbe dovuto fermare a quel punto, senza ricorrere all’intelligibile, che non ha di per sé esistenza autonoma e che rappresenta comunque una mera supposizione». Ecco quanto mi ricordo di aver appreso leggendo Senarco. Lasciamo pure ai peripatetici più consumati di stabilire con sottigliezza se quanto dice sia giusto o no; tuttavia è chiaro a chiunque che le sue idee non mi stanno bene, poiché io ritengo che le teorie dello stesso Aristotele siano incomplete, se non si integrano con quelle di Platone e, ancora di più, con gli oracoli resi dagli dei.

4. Ἐκεῖνο δὲ ἴσως ἄξιον πυθέσθαι, πῶς τὸ κυκλικὸν σῶμα δύναται τὰς ἀσωμάτους ἔχειν αἰτίας τῶν ἐνύλων εἰδῶν. ὅτι μὲν γὰρ δίχα τούτων ὑποστῆναι τὴν γένεσιν οὐκ ἐνδέχεται, πρόδηλόν ἐστί που καὶ σαφές. τοῦ χάριν γάρ ἐστι τοσαῦτα τὰ γιγνόμενα; πόθεν δὲ ἄρρεν καὶ θῆλυ; πόθεν δὲ ἡ κατὰ γένος τῶν ὄντων ἐν ὡρισμένοις [163a] εἴδεσι διαφορά, εἰ μή τινες εἶεν προϋπάρχοντες καὶ προϋφεστῶτες λόγοι αἰτίαι τε ἐν παραδείγματος λόγῳ προϋφεστῶσαι; πρὸς ἃς εἴπερ ἀμβλυώττομεν, ἔτι καθαιρώμεθα τὰ ὄμματα τῆς ψυχῆς. κάθαρσις δὲ ὀρθὴ στραφῆναι πρὸς ἑαυτὸν καὶ κατανοῆσαι, πῶς μὲν ἡ ψυχὴ καὶ ὁ ἔνυλος νοῦς ὥσπερ ἐκμαγεῖόν τι τῶν ἐνύλων εἰδῶν καὶ εἰκών ἐστιν. ἓν γὰρ οὐδέν ἐστι τῶν [163b] σωμάτων ἢ τῶν περὶ τὰ σώματα γινομένων τε καὶ θεωρουμένων ἀσωμάτων, οὗ τὴν φαντασίαν ὁ νοῦς οὐ δύναται λαβεῖν ἀσωμάτως, ὅπερ οὔποτ̓ ἂν ἐποίησεν, εἰ μή τι ξυγγενὲς εἶχεν αὐτοῖς φύσει. ταῦτά τοι καὶ Ἀριστοτέλης τὴν ψυχὴν τόπον εἰδῶν ἔφη, πλὴν οὐκ ἐνεργείᾳ, ἀλλὰ δυνάμει. τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ψυχὴν καὶ τὴν ἐπεστραμμένην πρὸς τὸ σῶμα δυνάμει ταῦτα ἔχειν ἀναγκαῖον: εἰ δέ τις ἄσχετος εἴη καὶ ἀμιγὴς [163c] ταύτῃ, τοὺς λόγους οὐκέτι δυνάμει, πάντας δὲ ὑπάρχειν ἐνεργείᾳ νομιστέον. λάβωμεν δὲ αὐτὰ σαφέστερον διὰ τοῦ παραδείγματος, ᾧ καὶ Πλάτων ἐν τῷ Σοφιστῇ πρὸς ἕτερον μὲν λόγον, ἐχρήσατο δ̓ οὖν ὅμως. τὸ παράδειγμα δὲ οὐκ εἰς ἀπόδειξιν φέρω τοῦ λόγου: καὶ γὰρ οὐδὲ ἀποδείξει χρὴ λαβεῖν αὐτόν, ἀλλ̓ ἐπιβολῇ μόνῃ, περὶ γὰρ τῶν πρώτων αἰτιῶν ἐστιν ἢ τῶν γε ὁμοστοίχων τοῖς πρώτοις, εἴπερ ἡμῖν ἐστιν, ὥσπερ [163d] οὖν ἄξιον νομίζειν, καὶ ὁ Ἄττις θεός. τί δὲ καὶ ποῖόν ἐστι τὸ παράδειγμα; φησί που Πλάτων, τῶν περὶ τὴν μίμησιν διατριβόντων εἰ μὲν ἐθέλοι τις μιμεῖσθαι, ὥστε καθυφεστάναι τὰ μιμητά, ἐργώδη τε εἶναι καὶ χαλεπὴν καὶ νὴ Δία γε τοῦ ἀδυνάτου πλησίον μᾶλλον, εὔκολον δὲ καὶ ῥᾳδίαν καὶ σφόδρα δυνατὴν τὴν διὰ τοῦ δοκεῖν τὰ ὄντα μιμουμένην. ὅταν οὖν τὸ κάτοπτρον λαβόντες περιφέρωμεν ἐκ πάντων τῶν ὄντων [164a] ῥᾳδίως ἀπομαξάμενοι, δείκνυμεν ἑκάστου τοὺς τύπους. ἐκ τούτου τοῦ παραδείγματος ἐπὶ τὸ εἰρημένον μεταβιβάσωμεν τὸ ὁμοίωμα, ἵν̓ ᾖ τὸ μὲν κάτοπτρον ὁ λεγόμενος ὑπὸ Ἀριστοτέλους δυνάμει τόπος εἰδῶν. Αὐτὰ δὲ χρὴ τὰ εἴδη πρότερον ὑφεστάναι πάντως ἐνεργείᾳ τοῦ δυνάμει. τῆς τοίνυν ἐν ἡμῖν ψυχῆς, ὡς καὶ Ἀριστοτέλει δοκεῖ, δυνάμει τῶν ὄντων ἐχούσης τὰ εἴδη, ποῦ πρῶτον ἐνεργείᾳ [164b] θησόμεθα ταῦτα; πότερον ἐν τοῖς ἐνύλοις; ἀλλ̓ ἔστι γε ταῦτα φανερῶς τὰ τελευταῖα. λείπεται δὴ λοιπὸν ἀύλους αἰτίας ζητεῖν ἐνεργείᾳ προτεταγμένας τῶν ἐνύλων, αἷς παρυποστᾶσαν καὶ συμπροελθοῦσαν ἡμῶν τὴν ψυχὴν δέχεσθαι μὲν ἐκεῖθεν, ὥσπερ ἐξ ὄντων τινῶν τὰ ἔσοπτρα, τοὺς τῶν εἰδῶν ἀναγκαῖον λόγους, ἐνδιδόναι δὲ διὰ τῆς φύσεως τῇ τε ὕλῃ καὶ τοῖς ἐνύλοις τουτοισὶ σώμασιν. ὅτι μὲν γὰρ ἡ φύσις ἐστὶ δημιουργὸς τῶν σωμάτων ἴσμεν, ὡς ὅλη τις οὖσα τοῦ παντός, [164c] ἡ δὲ καθ̓ ἕκαστον ἑνὸς ἑκάστου τῶν ἐν μέρει, πρόδηλόν ἐστί που καὶ σαφές, ἀλλ̓ ἡ φύσις ἐνεργείᾳ δίχα φαντασίας ἐν ἡμῖν, ἡ δὲ ὑπὲρ ταύτης ψυχὴ καὶ τὴν φαντασίαν προσείληφεν. εἰ τοίνυν ἡ φύσις καὶ ὧν οὐκ ἔχει τὴν φαντασίαν ἔχειν ὅμως ὁμολογεῖται τὴν αἰτίαν, ἀνθ̓ ὅτου πρὸς θεῶν οὐχὶ τοῦτο αὐτὸ μᾶλλον ἔτι καὶ πρεσβύτερον τῇ ψυχῇ δώσομεν, ὅπου καὶ φανταστικῶς [164d] αὐτὸ γιγνώσκομεν ἤδη καὶ λόγῳ καταλαμβάνομεν; εἶτα τίς οὕτως ἐστὶ φιλόνεικος, ὡς τῇ φύσει μὲν ὑπάρχειν ὁμολογεῖν τοὺς ἐνύλους λόγους, εἰ καὶ μὴ πάντας καὶ κατὰ τὸ αὐτὸ ἐνεργείᾳ, ἀλλὰ δυνάμει γε πάντας, τῇ ψυχῇ δὲ μὴ δοῦναι τοῦτο αὐτό; οὐκοῦν εἰ δυνάμει μὲν ἐν τῇ φύσει καὶ οὐκ ἐνεργείᾳ τὰ εἴδη, δυνάμει δὲ ἔτι καὶ ἐν τῇ ψυχῇ καθαρώτερον καὶ διακεκριμένως μᾶλλον, ὥστε δὴ καὶ καταλαμβάνεσθαι καὶ γινώσκεσθαι, ἐνεργείᾳ δὲ οὐδαμοῦ: πόθεν ἀναρτήσομεν τῆς ἀειγενεσίας τὰ πείσματα; [165a] ποῦ δὲ ἑδράσομεν τοὺς ὑπὲρ τῆς ἀιδιότητος κόσμου λόγους; τὸ γάρ τοι κυκλικὸν σῶμα ἐξ ὑποκειμένου καὶ εἴδους ἐστίν. ἀνάγκη δὴ οὖν, εἰ καὶ μήποτε ἐνεργείᾳ ταῦτα δίχα ἀλλήλων, ἀλλὰ ταῖς γε ἐπινοίαις ἐκεῖνα πρῶτα ὑπάρχοντα εἶναί τε καὶ νομίζεσθαι πρεσβύτερα.

4. Vale forse la pena di indagare come il corpo circolare possa contenere le cause incorporee delle forme materiali. Infatti, è chiaro ed è evidente di per sé che, prescindendo da queste cause, la generazione non può sussistere. Perché, infatti, c'è una tale molteplicità di cose soggette al divenire? Quale origine ha la differenziazione del sesso maschile da quello femminile? Da dove proverrebbe il carattere distintivo degli esseri secondo forme determinate, se non vi fossero ragioni preesistenti e prestabilite e cause predeterminate a fungere da modello? Se noi le percepiamo solo con difficoltà, cerchiamo di purificare ulteriormente gli occhi dell’anima. La vera purificazione consiste nel ripiegarsi su sé stessi, e nel riflettere come l’anima e l’intelletto materiale siano una sorta di calco e di modello delle forme materiali. Infatti, non esiste nulla di corporeo, o un solo fenomeno riguardante i corpi, che sia concepito come incorporeo, di cui l’intelligenza non possa farsi una rappresentazione incorporea: questo non potrebbe avvenire se non possedesse qualche elemento naturalmente connesso con le forme incorporee. È appunto per questa ragione che lo stesso Aristotele chiamò l’anima «il luogo delle forme» se non in atto, almeno in potenza. Un’anima simile, che è rivolta al corpo, deve necessariamente possedere queste forme in potenza: ma, se un’anima è indipendente e immune da mescolanza, dobbiamo ritenere che contenga tutte le ragioni non in potenza, ma in atto. Cerchiamo di chiarire queste considerazioni con l’esempio utilizzato dallo stesso Platone nel Sofista benché per un altro fine. D’altra parte, non adduco l’esempio come prova del mio ragionamento: infatti, non lo si deve prendere come dimostrazione ma solo come un progetto, poiché tratta delle cause prime o, almeno, di quelle assimilabili alle prime, se davvero per noi, come è giusto credere, anche Attis è un dio. Dunque qual è quest’esempio e di che tipo? Platone a un certo punto osserva che, se qualcuno che si occupi di imitazione desidera imitare l’originale così che questo sia riprodotto esattamente, un simile tentativo gli riesce faticoso e difficile e giunge, per Zeus, ai limiti dell’impossibile, mentre l’imitazione, che si limita a riprodurre l’apparenza della realtà, è piacevole, facile e certamente conseguibile. Così, dunque, quando prendiamo uno specchio e lo facciamo ruotare, cogliamo facilmente le immagini di tutti gli oggetti e mettiamo in evidenza i contorni di ciascuno. Da quest’esempio risaliamo all’analogia di cui dicevo, e lo specchio stia per quello che Aristotele chiama luogo delle forme in potenza. Certo, le forme stesse debbono sussistere in atto prima che in potenza. Perciò, se l’anima che è in noi contiene in potenza, come pensa Aristotele, le forme degli esseri, dove collocheremo queste forme nel loro stato primario di attualità? Forse negli esseri materiali? Certo no, poiché si tratta manifestamente di esseri di infimo ordine. Non resta che ricercare cause immateriali in atto e prestabilite agli esseri materiali. La nostra anima, coesistendo e procedendo con loro, ne riceve necessariamente le ragioni delle forme, come gli specchi le immagini degli oggetti, e quindi grazie alla natura li trasmette alla materia e a questi corpi materiali. Noi, in effetti, sappiamo che la natura è creatrice dei corpi poiché, nella sua totalità, è creatrice dell’universo, mentre è assolutamente evidente che la natura individuale di ciascuno è creatrice degli esseri particolari. Tuttavia, mentre la natura esiste in noi in atto senza rappresentazione, l’anima, che è superiore ad essa, ha ricevuto anche la capacità di rappresentazione. Se ammettiamo dunque che la natura contiene in sé le cause di cose, di cui peraltro non ha rappresentazione, perché, in nome degli dei, non attribuiremo questo stesso privilegio all’anima, e in un grado più alto e prioritario, dal momento che lo concepiamo con la rappresentazione e lo comprendiamo con la ragione? Chi poi sarà così amante delle controversie, da ammettere che le ragioni materiali esistono per natura, anche se non tutte ugualmente in atto, almeno in potenza, e da non accordare d’altra parte questo stesso privilegio all’anima? Se perciò le forme esistono per natura in potenza ma non in atto e anche nell’anima in potenza, ma a un livello più alto di purezza e di separazione, in modo tale che appunto si possono comprendere e riconoscere ma in atto da nessuna parte, a che cosa attaccheremo la catena dell’eterna generazione? Su che cosa fonderemo le nostre teorie sull’eternità del mondo? Infatti anche il corpo circolare è composto da materia e forma. Ne consegue di necessità che, sebbene in atto questi due fattori non sussistano mai separati l’uno dall’altro, tuttavia per la nostra mente le forme debbono sussistere in precedenza ed essere considerate anteriori.

5. οὐκοῦν ἐπειδὴ δέδοταί τις καὶ τῶν ἐνύλων εἰδῶν αἰτία προηγουμένη παντελῶς ἄυλος ὑπὸ τὸν τρίτον δημιουργόν, ὃς ἡμῖν οὐ τούτων μόνον ἐστίν, ἀλλὰ καὶ τοῦ φαινομένου καὶ πέμπτου σώματος πατὴρ [165b] καὶ δεσπότης: ἀποδιελόντες ἐκείνου τὸν Ἄττιν, τὴν ἄχρι τῆς ὕλης καταβαίνουσαν αἰτίαν, καὶ θεὸν γόνιμον Ἄττιν εἶναι καὶ Γάλλον πεπιστεύκαμεν, ὃν δή φησιν ὁ μῦθος ἀνθῆσαι μὲν ἐκτεθέντα παρὰ Γάλλου ποταμοῦ ταῖς δίναις, εἶτα καλὸν φανέντα καὶ μέγαν ἀγαπηθῆναι παρὰ τῆς Μητρὸς τῶν θεῶν. τὴν δὲ τά τε ἄλλα πάντα ἐπιτρέψαι αὐτῷ καὶ τὸν ἀστερωτὸν περιθεῖναι [165c] πῖλον. ἀλλ̓ εἰ τὴν κορυφὴν σκέπει τοῦ Ἄττιδος ὁ φαινόμενος οὐρανὸς οὑτοσί, τὸν Γάλλον ποταμὸν ἄρα μή ποτε χρὴ τὸν γαλαξίαν αἰνίττεσθαι κύκλον; ἐνταῦθα γάρ φασι μίγνυσθαι τὸ παθητὸν σῶμα πρὸς τὴν ἀπαθῆ τοῦ πέμπτου κυκλοφορίαν. ἄχρι τοι τούτων ἐπέτρεψεν ἡ Μήτηρ τῶν θεῶν σκιρτᾶν τε καὶ χορεύειν τῷ καλῷ τούτῳ καὶ ταῖς ἡλιακαῖς ἀκτῖσιν ἐμφερεῖ τῷ νοερῷ θεῷ, τῷ Ἄττιδι. ὁ δὲ ἐπειδὴ προϊὼν ἦλθεν ἄχρι τῶν ἐσχάτων, ὁ μῦθος αὐτὸν εἰς τὸ ἄντρον κατελθεῖν ἔφη καὶ συγγενέσθαι τῇ [165d] νύμφῃ, τὸ δίυγρον αἰνιττόμενος τῆς ὕλης: καὶ οὐδὲ τὴν ὕλην αὐτὴν νῦν ἔφη, τὴν τελευταίαν δὲ αἰτίαν ἀσώματον, ἣ τῆς ὕλης προϋφέστηκε. λέγεταί τοι καὶ πρὸς Ἡρακλείτου 

ψυχῇσιν θάνατος ὑγρῇσι γενέσθαι: 

τοῦτον οὖν τὸν Γάλλον, τὸν νοερὸν θεόν, τὸν τῶν ἐνύλων καὶ ὑπὸ σελήνην εἰδῶν συνοχέα, τῇ προτεταγμένῃ τῆς ὕλης αἰτίᾳ συνιόντα, συνιόντα δὲ οὐχ [166a] ὡς ἄλλον ἄλλῃ, ἀλλ̓ οἷον αὐτὸ εἰς ἑαυτὸ λέγομεν ὑποφερόμενον.

5. Poiché quindi è stata attribuita una causa assolutamente immateriale anche per le forme materiali, che precede subordinata al terzo demiurgo (che non è solo per noi il padre e il signore di queste, ma anche del quinto corpo visibile), da esso distinguiamo Attis, la causa che discende fino alla materia, e crediamo che Attis, oppure Gallo, sia una divinità generatrice. Il mito racconta di lui che, dopo essere stato esposto presso i gorghi del fiume Gallo, cresceva qui come un fiore e che, divenuto grande e bello, fu amato dalla Madre degli dei. Ella, dopo avergli concesso ogni cosa, gli pose sul capo il berretto stellato. Tuttavia, se il nostro cielo che vediamo copre il capo di Attis, non si deve forse interpretare il fiume Gallo come la Galassia? Là, infatti, si dice che avvenga la mescolanza del corpo passibile con il movimento circolare del quinto corpo impassibile. Fino a questo limite la Madre degli dei permise di saltare e di ballare a questo bellissimo dio intelligente, simile ai raggi del sole, Attis. Essendo giunto però nella sua progressione fino alle estreme regioni inferiori, racconta il mito che discese nella grotta e giacque con la ninfa, con allusione al principio umido della materia: qui, comunque, il mito non vuole indicare la materia in sé, ma la causa immateriale ultima, che presiede alla materia. Dice appunto Eraclito

per le anime diventar umide significa morire;

così questo Gallo, il dio intelligente che contiene le forme materiali e sublunari, si unisce alla causa preordinata alla materia, non come elementi diversi si uniscono tra di loro, ma come un principio che si accosti ad altro identico.

6. Τίς οὖν ἡ Μήτηρ τῶν θεῶν; ἡ τῶν κυβερνώντων τοὺς ἐμφανεῖς νοερῶν καὶ δημιουργικῶν θεῶν πηγή, ἡ καὶ τεκοῦσα καὶ συνοικοῦσα τῷ μεγάλῳ Διὶ θεὸς ὑποστᾶσα μεγάλη μετὰ τὸν μέγαν καὶ σὺν τῷ μεγάλῳ δημιουργῷ, ἡ πάσης μὲν κυρία ζωῆς, πάσης δὲ γενέσεως αἰτία, ἡ ῥᾷστα μὲν ἐπιτελοῦσα τὰ ποιούμενα, γεννῶσα δὲ δίχα πάθους καὶ δημιουργοῦσα τὰ ὄντα μετὰ τοῦ πατρός: [166b] αὕτη καὶ παρθένος ἀμήτωρ καὶ Διὸς σύνθωκος καὶ μήτηρ θεῶν ὄντως οὖσα πάντων. τῶν γὰρ νοητῶν ὑπερκοσμίων τε θεῶν δεξαμένη πάντων τὰς αἰτίας ἐν ἑαυτῇ πηγὴ τοῖς νοεροῖς ἐγένετο. ταύτην δὲ τὴν θεὸν οὖσαν καὶ πρόνοιαν ἔρως μὲν ὑπῆλθεν ἀπαθὴς Ἄττιδος: ἐθελούσια γὰρ αὐτῇ καὶ κατὰ γνώμην ἐστὶν οὐ τὰ ἔνυλα μόνον εἴδη, πολὺ δὲ πλέον τὰ τούτων αἴτια. τὴν δὴ τὰ γινόμενα καὶ [166c] φθειρόμενα σώζουσαν προμήθειαν ἐρᾶν ὁ μῦθος ἔφη τῆς δημιουργικῆς τούτων αἰτίας καὶ γονίμου, καὶ κελεύειν μὲν αὐτὴν ἐν τῷ νοητῷ τίκτειν μᾶλλον καὶ βούλεσθαι μὲν πρὸς ἑαυτὴν ἐπεστράφθαι καὶ συνοικεῖν, ἐπίταγμα δὲ ποιεῖσθαι, μηδενὶ τῶν ἄλλων, ἅμα μὲν τὸ ἑνοειδὲς σωτήριον διώκουσαν, ἅμα δὲ φεύγουσαν τὸ πρὸς τὴν ὕλην νεῦσαν: πρὸς ἑαυτήν τε βλέπειν ἐκέλευσεν, οὖσαν πηγὴν μὲν τῶν δημιουργικῶν θεῶν, οὐ καθελκομένην [166d] δὲ εἰς τὴν γένεσιν οὐδὲ θελγομένην: οὕτω γὰρ ἔμελλεν ὁ μέγας Ἄττις καὶ κρείττων εἶναι δημιουργός, ἐπείπερ ἐν πᾶσιν ἡ πρὸς τὸ κρεῖττον ἐπιστροφὴ μᾶλλόν ἐστι δραστήριος τῆς πρὸς τὸ χεῖρον νεύσεως. ἐπεὶ καὶ τὸ πέμπτον σῶμα τούτῳ δημιουργικώτερόν ἐστι τῶν τῇδε καὶ θειότερον, τῷ μᾶλλον ἐστράφθαι πρὸς τοὺς θεούς, ἐπεί τοι τὸ σῶμα, κἂν αἰθέρος ᾖ τοῦ καθαρωτάτου, ψυχῆς ἀχράντου καὶ καθαρᾶς, ὁποίαν τὴν Ἡρακλέους ὁ δημιουργὸς ἐξέπεμψεν, οὐδεὶς ἂν εἰπεῖν κρεῖττον [167a] τολμήσειε. τότε μέντοι ἦν τε καὶ ἐδόκει μᾶλλον δραστήριος, ἢ ὅτε αὑτὴν ἔδωκεν ἐκείνη σώματι. ἐπεὶ καὶ αὐτῷ νῦν Ἡρακλεῖ ὅλῳ πρὸς ὅλον κεχωρηκότι τὸν πατέρα ῥᾴων ἡ τούτων ἐπιμέλεια καθέστηκεν ἢ πρότερον ἦν, ὅτε ἐν τοῖς ἀνθρώποις σαρκία φορῶν ἐστρέφετο. οὕτως ἐν πᾶσι δραστήριος μᾶλλον ἡ πρὸς τὸ κρεῖττον ἀπόστασις τῆς ἐπὶ τὸ χεῖρον στροφῆς. ὃ δὴ βουλόμενος ὁ μῦθος διδάξαι παραινέσαι φησὶ τὴν Μητέρα τῶν θεῶν τῷ Ἄττιδι θεραπεύειν αὑτὴν καὶ μήτε [167b] ἀποχωρεῖν μήτε ἐρᾶν ἄλλης.

6. Chi è dunque la Madre degli dei? È la sorgente degli dei intelligenti e demiurghi, che governano gli dei visibili, la madre e allo stesso tempo la sposa del grande Zeus, grande dea venuta all’esistenza subito dopo ed insieme al grande creatore. È la signora di tutta la vita, la causa di ogni generazione che porta con estrema facilità a compimento ciò che è fatto, partorisce senza dolore e crea quanto esiste insieme al padre; è la vergine senza madre, il cui trono si trova accanto a quello di Zeus e che è in verità la Madre di tutti gli dei. Infatti, avendo ricevuto in sé le cause di tutti gli dei intellegibili sovracosmici, divenne la fonte degli dei intelligenti. Questa dea, che è anche provvidenza, fu presa per Attis da un amore senza passione, perché non solo le forme materiali, ma più ancora le cause di queste, corrispondono al suo volere ed al suo pensiero. Il mito vuol dire che essa, la quale in quanto Provvidenza conserva ogni cosa soggetta a nascita e a distruzione, ne ama la causa demiurgica e generatrice, e le ordina di generare preferibilmente nel mondo intelligibile: volendo che si volga a lei e che abiti con lei, le impone di stare lontano da ogni altro essere, sia per perseguire l’unità della salvezza, sia per evitare la propensione verso la materia. A questa causa ingiunse anche di guardare verso di lei, che è fonte degli dei creatori, senza lasciarsi trascinare e allettare verso il mondo della generazione: così il grande Attis era destinato a essere un creatore ancora più potente, poiché in tutte le cose è più efficace la conversione al meglio che l’inclinazione al peggio. Infatti anche il quinto corpo ha un potere creativo maggiore ed è più divino degli elementi di quaggiù, per la sua maggiore attrazione verso gli dei: certamente, però, nessuno si azzarderebbe a dire che il corpo, sebbene costituito dal più puro etere, è superiore all’anima immacolata e pura, come era quella di Eracle, quando il demiurgo lo inviò sulla terra. Certo, allora era e sembrava più operante di quando si era concessa ad un corpo. Infatti, nel momento in cui Eracle ritornò tutto intero nella totalità del padre, il suo compito divenne più facile di prima quando, rivestito di un involucro carnale, era nutrito tra gli uomini. Così, in tutte le cose, la conversione al meglio è più attiva dell’attrazione al peggio: il mito vuole insegnare questo, raccontando che la Madre degli dei esorta Attis a servirla, a non staccarsene e a non amare un’altra.

7. Ὁ δὲ προῆλθεν ἄχρι τῶν ἐσχάτων τῆς ὕλης κατελθών. ἐπεὶ δὲ ἐχρῆν παύσασθαί ποτε καὶ στῆναι τὴν ἀπειρίαν, Κορύβας μὲν ὁ μέγας Ἥλιος, ὁ σύνθρονος τῇ Μητρὶ καὶ συνδημιουργῶν αὐτῇ τὰ πάντα καὶ συμπρομηθούμενος καὶ οὐδὲν πράττων αὐτῆς δίχα, πείθει τὸν λέοντα μηνυτὴν γενέσθαι. τίς δὲ ὁ λέων; αἴθωνα δήπουθεν ἀκούομεν αὐτόν, αἰτίαν τοίνυν τὴν προϋφεστῶσαν τοῦ [167c] θερμοῦ καὶ πυρώδους, ἣ πολεμήσειν ἔμελλε τῇ νύμφῃ καὶ ζηλοτυπήσειν αὐτὴν τῆς πρὸς τὸν Ἄττιν κοινωνίας: εἴρηται δὲ ἡμῖν τίς ἡ νύμφη: τῇ δὲ δημιουργικῇ προμηθείᾳ τῶν ὄντων ὑπουργῆσαί φησιν ὁ μῦθος, δηλαδὴ τῇ Μητρὶ τῶν θεῶν: εἶτα φωράσαντα καὶ μηνυτὴν γενόμενον αἴτιον γενέσθαι τῷ νεανίσκῳ τῆς ἐκτομῆς. ἡ δὲ ἐκτομὴ τίς; ἐποχὴ τῆς ἀπειρίας: ἔστη γὰρ δὴ τὰ τῆς γενέσεως ἐν ὡρισμένοις τοῖς εἴδεσιν ὑπὸ τῆς [167d] δημιουργικῆς ἐπισχεθέντα προμηθείας, οὐκ ἄνευ τῆς τοῦ Ἄττιδος λεγομένης παραφροσύνης, ἣ τὸ μέτριον ἐξισταμένη καὶ ὑπερβαίνουσα καὶ διὰ τοῦτο ὥσπερ ἐξασθενοῦσα καὶ οὐκέθ̓ αὑτῆς εἶναι δυναμένη: ὃ δὴ περὶ τὴν τελευταίαν ὑποστῆναι τῶν θεῶν αἰτίαν οὐκ ἄλογον. σκόπει οὖν ἀναλλοίωτον κατὰ πᾶσαν ἀλλοίωσιν τὸ πέμπτον θεώμενος σῶμα περὶ τοὺς φωτισμοὺς τῆς σελήνης, ἵνα λοιπὸν ὁ συνεχῶς γιγνόμενός τε καὶ ἀπολλύμενος [168a] κόσμος γειτνιᾷ τῷ πέμπτῳ σώματι. περὶ τοὺς φωτισμοὺς αὐτῆς ἀλλοίωσίν τινα καὶ πάθη συμπίπτοντα θεωροῦμεν

7. Attis invece proseguì la sua discesa fino agli estremi limiti della materia. Poiché comunque era necessario arrestare e bloccare una buona volta la sua corsa verso l’infinito, Coribante, il Grande Helios, che condivide il trono con la Madre, che crea tutto con lei e provvede a ogni cosa e senza di lei non fa nulla, persuase il Leone a rendersi denunziatore. Chi è dunque il Leone? Sappiamo che ha il calore del fuoco, quale causa che presiede al calore e alla combustione, il cui compito è di combattere contro la ninfa e invidiarle la sua intimità con Attis; chi sia la ninfa già è stato detto. Il mito racconta che il Leone è al servizio della provvidenza creatrice degli esseri, cioè della Madre degli dei, e che fu lui la causa della mutilazione del giovane, dopo che ebbe denunciato quanto aveva scoperto. Che cos’è questa mutilazione? Un freno alla corsa verso l’infinito. La generazione infatti fu contenuta, a opera della provvidenza creatrice, in un delimitato numero di forme, grazie anche alla cosiddetta pazzia di Attis che, avendo superato nei suoi eccessi la giusta misura, arrivò a perdere il suo vigore e il controllo di sé, ciò che non è illogico se si considera che si tratta della causa ultima degli dei. Osserviamo, dunque, come il quinto corpo sia estraneo a qualsiasi variazione nella regione intorno alla luce della luna, là dove, del resto, il nostro mondo di incessante divenire e di corruzione si avvicina al quinto corpo: nella regione della luce lunare, noi percepiamo variazioni e insorgere di influenze esterne.

8. Οὐκ ἄτοπον οὖν καὶ τὸν Ἄττιν τοῦτον ἡμίθεόν τινα εἶναι: βούλεται γὰρ δὴ καὶ ὁ μῦθος τοῦτο: μᾶλλον δὲ θεὸν μὲν τῷ παντί: πρόεισί τε γὰρ ἐκ τοῦ τρίτου δημιουργοῦ καὶ ἐπανάγεται πάλιν ἐπὶ τὴν Μητέρα τῶν θεῶν μετὰ τὴν ἐκτομήν: ἐπεὶ δὲ ὅλως ῥέπειν καὶ νεύειν εἰς τὴν ὕλην δοκεῖ, θεῶν μὲν ἔσχατον, [168b] ἔξαρχον δὲ τῶν θείων γενῶν ἁπάντων οὐκ ἂν ἁμάρτοι τις αὐτὸν ὑπολαβών. ἡμίθεον δὲ διὰ τοῦτο ὁ μῦθός φησι, τὴν πρὸς τοὺς ἀτρέπτους αὐτοῦ θεοὺς ἐνδεικνύμενος διαφοράν. δορυφοροῦσι γὰρ αὐτὸν παρὰ τῆς Μητρὸς δοθέντες οἱ Κορύβαντες, αἱ τρεῖς ἀρχικαὶ τῶν μετὰ θεοὺς κρεισσόνων γενῶν ὑποστάσεις. ἄρχει δὲ καὶ τῶν λεόντων, οἳ τὴν ἔνθερμον οὐσίαν καὶ πυρώδη κατανειμάμενοι μετὰ τοῦ σφῶν ἐξάρχου λέοντος αἴτιοι τῷ πυρὶ μὲν πρώτως, διὰ δὲ τῆς ἐνθένδε [168c] θερμότητος ἐνεργείας τε κινητικῆς αἴτιοι καὶ τοῖς ἄλλοις εἰσὶ σωτηρίας: περίκειται δὲ τὸν οὐρανὸν ἀντὶ τιάρας, ἐκεῖθεν ὥσπερ ἐπὶ γῆν ὁρμώμενος.

8. Dunque non è fuori luogo affermare che anche questo Attis sia una sorta di semidio: così lascia intendere anche il mito o, meglio, fa capire che si tratta di un dio vero e proprio. Procede infatti dal terzo creatore e, dopo la sua mutilazione, è richiamato verso la Madre degli dei. E poiché sembra volgersi e inclinare soprattutto verso la materia, non ci si ingannerebbe a considerarlo come l’ultimo degli dei e come il signore di tutte le stirpi divine. Il mito lo chiama semidio per evidenziare così la sua differenza dagli dei immutabili. Gli fanno scorta i Coribanti, assegnatigli dalla Madre, le tre ipostasi sovrane delle stirpi superiori che vengono dopo gli dei. Attis governa anche sui leoni che, essendosi ripartiti con il Leone loro capo la sostanza calorica e ignea, sono in primo luogo causa di conservazione per il fuoco e poi, per l’energia termica e cinetica che ne deriva, causa di conservazione anche per gli altri esseri. Attis è ricoperto dal cielo a guisa di tiara, come per significare che di lì si lancia sulla terra.

9. Οὗτος ὁ μέγας ἡμῖν θεὸς Ἄττις ἐστίν: αὗται τοῦ βασιλέως Ἄττιδος αἱ θρηνούμεναι τέως φυγαὶ καὶ κρύψεις καὶ ἀφανισμοὶ καὶ αἱ δύσεις αἱ κατὰ τὸ ἄντρον. τεκμήρια δὲ ἔστω μοι τούτου ὁ χρόνος, ἐν ᾧ γίνεται. τέμνεσθαι γάρ φασι τὸ ἱερὸν δένδρον καθ̓ ἣν ἡμέραν ὁ ἥλιος ἐπὶ τὸ ἄκρον τῆς ἰσημερινῆς ἁψῖδος ἔρχεται: εἶθ̓ ἑξῆς περισαλπισμὸς [168d] παραλαμβάνεται: τῇ τρίτῃ δὲ τέμνεται τὸ ἱερὸν καὶ ἀπόρρητον θέρος τοῦ θεοῦ Γάλλου: ἐπὶ τούτοις Ἱλάρια, φασί, καὶ ἑορταί. ὅτι μὲν οὖν στάσις ἐστὶ τῆς ἀπειρίας ἡ θρυλουμένη παρὰ τοῖς πολλοῖς ἐκτομή, πρόδηλον ἐξ ὧν ἡνίκα ὁ μέγας Ἥλιος τοῦ ἰσημερινοῦ ψαύσας κύκλου, ἵνα τὸ μάλιστα ὡρισμένον ἐστί: τὸ μὲν γὰρ ἴσον ὡρισμένον ἐστί, τὸ δὲ ἄνισον ἄπειρόν τε καὶ ἀδιεξίτητον: κατὰ τὸν λόγον αὐτίκα τὸ [169a] δένδρον τέμνεται: εἶθ̓ ἑξῆς γίνεται τὰ λοιπά, τὰ μὲν διὰ τοὺς μυστικοὺς καὶ κρυφίους θεσμούς, τὰ δὲ καὶ διὰ ῥηθῆναι πᾶσι δυναμένους. ἡ δὲ ἐκτομὴ τοῦ δένδρου, τοῦτο δὲ τῇ μὲν ἱστορίᾳ προσήκει τῇ περὶ τὸν Γάλλον, οὐδὲν δὲ τοῖς μυστηρίοις, οἷς παραλαμβάνεται, διδασκόντων ἡμᾶς οἶμαι τῶν θεῶν συμβολικῶς, ὅτι χρὴ τὸ κάλλιστον ἐκ γῆς δρεψαμένους, ἀρετὴν μετὰ εὐσεβείας, ἀπενεγκεῖν τῇ θεῷ, σύμβολον τῆς ἐνταῦθα χρηστῆς πολιτείας ἐσόμενον. τὸ γάρ [169b] τοι δένδρον ἐκ γῆς μὲν φύεται, σπεύδει δὲ ὥσπερ εἰς τὸν αἰθέρα καὶ ἰδεῖν τέ ἐστι καλὸν καὶ σκιὰν παρασχεῖν ἐν πνίγει, ἤδη δὲ καὶ καρπὸν ἐξ ἑαυτοῦ προβαλεῖν καὶ χαρίσασθαι: οὕτως αὐτῷ πολύ τί γε τοῦ γονίμου περίεστιν. ἡμῖν οὖν ὁ θεσμὸς παρακελεύεται, τοῖς φύσει μὲν οὐρανίοις, εἰς γῆν δὲ ἐνεχθεῖσιν, ἀρετὴν μετὰ εὐσεβείας ἀπὸ τῆς ἐν τῇ γῇ πολιτείας ἀμησαμένους [169c] παρὰ τὴν προγονικὴν καὶ ζωογόνον σπεύδειν θεόν. Εὐθὺς οὖν ἡ σάλπιγξ μετὰ τὴν ἐκτομὴν ἐνδίδωσι τὸ ἀνακλητικὸν τῷ Ἄττιδι καὶ τοῖς ὅσοι ποτὲ οὐρανόθεν ἔπτημεν εἰς τὴν γῆν καὶ ἐπέσομεν. μετὰ δὴ τὸ σύμβολον τοῦτο, ὅτε ὁ βασιλεὺς Ἄττις ἵστησι τὴν ἀπειρίαν διὰ τῆς ἐκτομῆς, ἡμῖν οἱ θεοὶ κελεύουσιν ἐκτέμνειν καὶ αὐτοῖς τὴν ἐν ἡμῖν αὐτοῖς ἀπειρίαν καὶ μιμεῖσθαι τοὺς ἡγεμόνας, ἐπὶ δὲ τὸ ὡρισμένον καὶ ἑνοειδὲς καί, [169d] εἴπερ οἷόν τέ ἐστιν, αὐτὸ τὸ ἓν ἀνατρέχειν: οὗπερ γενομένου πάντως ἕπεσθαι χρὴ τὰ Ἱλάρια. τί γὰρ εὐθυμότερον, τί δὲ ἱλαρώτερον γένοιτο ἂν ψυχῆς ἀπειρίαν μὲν καὶ γένεσιν καὶ τὸν ἐν αὐτῇ κλύδωνα διαφυγούσης, ἐπὶ δὲ τοὺς θεοὺς αὐτοὺς ἀναχθείσης; ὧν ἕνα καὶ τὸν Ἄττιν ὄντα περιεῖδεν οὐδαμῶς ἡ τῶν θεῶν Μήτηρ βαδίζοντα πρόσω πλέον ἢ χρῆν, πρὸς ἑαυτὴν δὲ ἐπέστρεψε, στῆσαι τὴν ἀπειρίαν προστάξασα.

9. Questo è per noi il grande dio Attis: ecco cosa sono le fughe del re Attis, per le quali si intonano treni, gli occultamenti, le scomparse, le discese nel fondo dell’antro: mi valga come prova il periodo in cui si svolgono. Così, si dice, il taglio dell’albero sacro avviene nello stesso giorno in cui il sole raggiunge il culmine dell’abside equinoziale; il giorno dopo risuonano le trombe e nel terzo giorno viene recisa la messe sacra ed ineffabile del dio Gallo; quindi, come dicono, ci sono le Ilarie e le feste. Che questa castrazione, di cui si parla tanto, significhi l’arresto della sua corsa verso l’infinito, è chiaro dal fatto che si taglia l’albero subito dopo che il grande Helios si è fermato, toccato il cerchio equinoziale che rappresenta appunto la sua delimitazione: infatti l’uguale è limitato, mentre il disuguale è senza limiti e senza misura. In quel preciso momento, secondo il mito, si recide l’albero. Seguono poi le altre cerimonie, di cui alcune sono celebrate secondo i rituali segreti dei misteri, altre con riti che si possono divulgare. Il taglio dell’albero si collega esclusivamente alla storia di Gallo e non è affatto associato ai misteri. Gli dei, credo, ci vogliono insegnare, attraverso il simbolo, che dobbiamo raccogliere ed offrire alla dea il frutto migliore della terra, la virtù unita alla pietà, allegoria del buon comportamento terreno. L’albero infatti cresce dalla terra, ma, per così dire, tende verso l’etere, ed è bello a vedersi, ci dà ombra nella calura, e poi produce da sé i frutti di cui ci fa dono: tale è l’esuberanza di fecondità da lui posseduta. Il rito, dunque, invita noi che, sebbene di natura celeste, siamo stati precipitati sulla terra mietere la virtù accompagnata dalla pietà nel campo del nostro buon comportamento terreno, e ad affrettarci a raggiungere la dea ancestrale principio di vita. Subito dopo il taglio dell’albero, la tromba fa risuonare il richiamo per Attis e per tutti noi, che un giorno siamo volati dal cielo e caduti sulla terra. Dopo questo segnale, quando il re Attis in seguito alla mutilazione arresta la sua corsa illimitata, anche a noi gli dei comandano di eliminare la spinta verso l’infinito e, imitando i demoni che ci guidano, di risalire verso il delimitato e l’uniforme e, per quanto è possibile, verso lo stesso Uno: una volta che questo abbia avuto luogo, debbono immediatamente seguire le Ilarie. Infatti, cosa ci può essere di più felice e di più lieto di un’anima che, sfuggita alla corsa verso l’infinito, alla generazione e al disordine interiore, viene rapita in alto fino agli stessi dei? Poiché anche Attis era uno di loro, la Madre degli dei non volle assolutamente che avanzasse più del necessario, e lo richiamò a sé, imponendogli di arrestare la sua corsa verso l’infinito.

10. Καὶ μή τις ὑπολάβῃ με λέγειν, ὡς ταῦτα [170a] ἐπράχθη ποτὲ καὶ γέγονεν, ὥσπερ οὐκ εἰδότων τῶν θεῶν αὐτῶν, ὅ, τι ποιήσουσιν, ἢ τὰ σφῶν αὐτῶν ἁμαρτήματα διορθουμένων. ἀλλὰ οἱ παλαιοὶ τῶν ὄντων ἀεὶ τὰς αἰτίας, ἤτοι τῶν θεῶν ὑφηγουμένων ἢ κατὰ σφᾶς αὐτοὺς διερευνώμενοι, βέλτιον δὲ ἴσως εἰπεῖν ζητοῦντες ὑφ̓ ἡγεμόσι τοῖς θεοῖς, ἔπειτα εὑρόντες ἐσκέπασαν αὐτὰς μύθοις παραδόξοις, ἵνα διὰ τοῦ παραδόξου καὶ ἀπεμφαίνοντος τὸ πλάσμα φωραθὲν ἐπὶ τὴν [170b] ζήτησιν ἡμᾶς τῆς ἀληθείας προτρέψῃ, τοῖς μὲν ἰδιώταις ἀρκούσης οἶμαι τῆς ἀλόγου καὶ διὰ τῶν συμβόλων μόνων ὠφελείας, τοῖς δὲ περιττοῖς κατὰ τὴν φρόνησιν οὕτως μόνως ἐσομένης ὠφελίμου τῆς περὶ θεῶν ἀληθείας, εἴ τις ἐξετάζων αὐτὴν ὑφ̓ ἡγεμόσι τοῖς θεοῖς εὕροι καὶ λάβοι, διὰ μὲν τῶν αἰνιγμάτων ὑπομνησθείς, ὅτι χρή τι περὶ αὐτῶν ζητεῖν, ἐς τέλος δὲ καὶ ὥσπερ κορυφὴν τοῦ [170c] πράγματος διὰ τῆς σκέψεως εὑρὼν πορευθείη, οὐκ αἰδοῖ καὶ πίστει μᾶλλον ἀλλοτρίας δόξης ἢ τῇ σφετέρᾳ κατὰ νοῦν ἐνεργείᾳ.

10. Nessuno tuttavia prenda quanto dico come fatti o avvenimenti remoti, come se gli dei non sapessero quel che facevano o correggessero i loro errori. Gli antichi però indagavano le cause degli esseri eterni, sia sotto la guida degli dei, sia per proprio conto o forse, per meglio dire, con la tutela degli dei; quando le ebbero trovate, le ricoprirono di miti paradossali, affinché attraverso il paradosso e l’assurdo si svelasse la finzione e fossimo indotti alla ricerca della verità. Infatti penso che i profani si accontentassero del beneficio del racconto irrazionale, espresso dai soli simboli; invece, a quanti sono più dotati di intelligenza, risulterà utile solo la verità sugli dei, se qualcuno, nella sua indagine sotto la guida degli dei, la scopra e la comprenda e se, avvertito appunto da questi enigmi della necessità di ricercarne il significato, perviene con le sue ricerche e con le sue scoperte al fine e quasi al culmine della dottrina, basandosi più sulla propria capacità speculativa che non sul rispetto e sulla fiducia in opinioni altrui.

11. Τί οὖν εἶναί φαμεν, ὡς ἐν κεφαλαίῳ; κατανοήσαντες ἄχρι τοῦ πέμπτου σώματος οὐ τὸ νοητὸν μόνον, ἀλλὰ καὶ τὰ φαινόμενα ταῦτα σώματα τῆς ἀπαθοῦς ὄντα καὶ θείας μερίδος, ἄχρι τούτου θεοὺς ἐνόμισαν ἀκραιφνεῖς εἶναι: τῇ γονίμῳ δὲ τῶν θεῶν οὐσίᾳ τῶν τῇδε παρυποστάντων, ἐξ ἀιδίου [170d] συμπροελθούσης τῆς ὕλης τοῖς θεοῖς, παῤ αὐτῶν δὲ καὶ δἰ αὐτῶν διὰ τὸ ὑπέρπληρες αὐτῶν τῆς γονίμου καὶ δημιουργικῆς αἰτίας ἡ τῶν ὄντων προμήθεια συνουσιωμένη τοῖς θεοῖς ἐξ ἀιδίου, καὶ σύνθωκος μὲν οὖσα τῷ βασιλεῖ Διί, πηγὴ δὲ τῶν νοερῶν θεῶν, καὶ τὸ δοκοῦν ἄζωον καὶ ἄγονον καὶ σκύβαλον καὶ τῶν ὄντων, οἷον ἂν εἴποι τις, ἀποκάθαρμα καὶ τρύγα καὶ ὑποσταθμὴν διὰ τῆς τελευταίας αἰτίας τῶν θεῶν, εἰς ἣν αἱ πάντων οὐσίαι τῶν θεῶν ἀποτελευτῶσιν, ἐκόσμησέ τε καὶ διωρθώσατο καὶ πρὸς τὸ κρεῖττον μετέστησεν. [171a] Ὁ γὰρ Ἄττις οὗτος ἔχων τὴν κατάστικτον τοῖς ἄστροις τιάραν εὔδηλον ὅτι τὰς πάντων τῶν θεῶν εἰς τὸν ἐμφανῆ κόσμον ὁρωμένας λήξεις ἀρχὰς ἐποιήσατο τῆς ἑαυτοῦ βασιλείας: ἐπ̓ αὐτῷ τὸ μὲν ἀκραιφνὲς καὶ καθαρὸν ἦν ἄχρι γαλαξίου: περὶ τοῦτον δὲ ἤδη τὸν τόπον μιγνυμένου πρὸς τὸ ἀπαθὲς τοῦ παθητοῦ καὶ τῆς ὕλης παρυφισταμένης ἐκεῖθεν, ἡ πρὸς ταύτην κοινωνία κατάβασίς [171b] ἐστιν εἰς τὸ ἄντρον, οὐκ ἀκουσίως μὲν γενομένη τοῖς θεοῖς καὶ τῇ τούτων Μητρί, λεγομένη δὲ ἀκουσίως γενέσθαι. φύσει γὰρ ἐν κρείττονι τοὺς θεοὺς ὄντας οὐκ ἐκεῖθεν ἐπὶ τάδε καθέλκειν ἐθέλει τὰ βελτίω, ἀλλὰ διὰ τῆς τῶν κρειττόνων συγκαταβάσεως καὶ ταῦτα ἀνάγειν ἐπὶ τὴν ἀμείνονα καὶ θεοφιλεστέραν λῆξιν. οὕτω τοι καὶ τὸν Ἄττιν οὐ κατεχθραίνουσα μετὰ τὴν ἐκτομὴν ἡ Μήτηρ λέγεται, ἀλλὰ ἀγανακτεῖ μὲν οὐκέτι, ἀγανακτοῦσα δὲ λέγεται διὰ τὴν συγκατάβασιν, [171c] ὅτι κρείττων ὢν καὶ θεὸς ἔδωκεν ἑαυτὸν τῷ καταδεεστέρῳ: στήσαντα δὲ αὐτὸν τῆς ἀπειρίας τὴν πρόοδον καὶ τὸ ἀκόσμητον τοῦτο κοσμήσαντα διὰ τῆς πρὸς τὸν ἰσημερινὸν κύκλον συμπαθείας, ἵνα ὁ μέγας Ἥλιος τῆς ὡρισμένης κινήσεως τὸ τελειότατον κυβερνᾷ μέτρον, ἐπανάγει πρὸς ἑαυτὴν ἡ θεὸς ἀσμένως, μᾶλλον δὲ ἔχει παῤ ἑαυτῇ. καὶ οὐδέποτε γέγονεν, ὅτε μὴ ταῦτα τοῦτον εἶχε τὸν τρόπον, ὅνπερ νῦν ἔχει, ἀλλ̓ ἀεὶ μὲν Ἄττις ἐστὶν [171d] ὑπουργὸς τῇ Μητρὶ καὶ ἡνίοχος, ἀεὶ δὲ ὀργᾷ εἰς τὴν γένεσιν, ἀεὶ δὲ ἀποτέμνεται τὴν ἀπειρίαν διὰ τῆς ὡρισμένης τῶν εἰδῶν αἰτίας. ἐπαναγόμενος δὲ ὥσπερ ἐκ γῆς τῶν ἀρχαίων αὖθις λέγεται δυναστεύειν σκήπτρων, ἐκπεσὼν μὲν αὐτῶν οὐδαμῶς οὐδὲ ἐκπίπτων, ἐκπεσεῖν δὲ αὐτῶν λεγόμενος διὰ τὴν πρὸς τὸ παθητὸν σύμμιξιν.

11. Cosa diremo dunque come sintesi? Poiché si era osservato che, fino al quinto corpo, non solo il mondo intellegibile, ma anche i corpi visibili del nostro mondo dovevano essere ritenuti impassibili e divini, si pensava che fino al quinto corpo gli dei fossero senza mescolanza; grazie alla sostanza feconda degli dei sussistono anche i corpi di quaggiù, poiché la materia procede dall’eternità con gli dei, da loro e per mezzo di loro, in virtù dell’esuberanza del loro principio vitale e demiurgico. La provvidenza degli esseri, che coesiste con gli dei fin dall’eternità, che condivide il trono con Zeus re, fonte degli dei intelligenti, ha ordinato, corretto e mutato in meglio, attraverso la causa ultima degli dei in cui si risolvono le sostanze di tutti gli esseri divini, ciò che sembrava privo di vita e infecondo, il rifiuto e, per così dire, la feccia, il fondo ed il sedimento delle cose esistenti. È evidente, infatti, che il nostro Attis, il quale porta la tiara trapunta di stelle, fece iniziare il proprio regno a partire dalle sedi di tutti gli dei che sono rivolte al mondo sensibile: a lui appartiene la regione, senza mescolanza e pura, che si estende fino alla via Lattea. Ma poiché la materia scaturisce da lassù, intorno a questa regione, per la mescolanza del passibile con l’impassibile, la comunione con lei è rappresentata dalla discesa nell’antro, che in verità non avvenne contro il volere degli dei e della loro Madre, per quanto si dica che accadde contro la loro volontà. Infatti, gli dei per propria natura abitano in un mondo migliore, e le potenze superiori non vogliono trascinarli di lassù fin sulla terra, ma grazie alla condiscendenza degli esseri più alti desiderano innalzare anche il nostro mondo a una condizione migliore e più gradita agli dei. Così, dunque, il mito non dice che la Madre degli dei dopo la mutilazione fosse sdegnata con Attis, ma narra che, sebbene non fosse più adirata, allora era adirata a causa della sua discesa, poiché, pur essendo di natura superiore e dio, si era dato a ciò che è inferiore. Tuttavia, non appena arrestò la sua progressione verso l’infinito e dette ordine all’inorganizzato grazie alla sua simpatia con il ciclo dell’equinozio, dove il grande Helios regola con perfettissima misura il suo movimento delimitato, allora la dea lo chiamò a sé con gioia o, piuttosto, lo tenne al suo fianco. E questo non avvenne mai in modo diverso da come avviene ora, ma Attis è sempre subordinato alla Madre ed è suo auriga, tende sempre appassionatamente verso la generazione, e tronca sempre la sua corsa verso l’infinito attraverso la causa delimitata delle forme. Tratto dunque su come dalla terra, riprende, si dice, lo scettro del suo antico potere. Benché non l’abbia mai perso o lo perda, a causa della sua commistione con il passibile si racconta che l’abbia perduto.

12. Ἀλλ̓ ἐκεῖνο ἴσως ἄξιον προσαπορῆσαι: διττῆς [172a] γὰρ οὔσης τῆς ἰσημερίας, οὐ τὴν ἐν ταῖς χηλαῖς, τὴν δὲ ἐν τῷ κριῷ προτιμῶσι. τίς οὖν αἰτία τούτου, φανερὸν δήπουθεν. ἐπειδὴ γὰρ ἡμῖν ὁ ἥλιος ἄρχεται τότε πλησιάζειν ἀπὸ τῆς ἰσημερίας, αὐξομένης οἶμαι τῆς ἡμέρας, ἔδοξεν οὗτος ὁ καιρὸς ἁρμοδιώτερος. ἔξω γὰρ τῆς αἰτίας, ἥ φησι τοῖς θεοῖς εἶναι τὸ φῶς σύνδρομον, ἔχειν οἰκείως πιστευτέον τοῖς ἀφεθῆναι τῆς γενέσεως σπεύδουσι [172b] τὰς ἀναγωγοὺς ἀκτῖνας ἡλίου. σκόπει δὲ ἐναργῶς: ἕλκει μὲν ἀπὸ τῆς γῆς πάντα καὶ προκαλεῖται καὶ βλαστάνειν ποιεῖ τῇ ζωπυρίδι καὶ θαυμαστῇ θέρμῃ, διακρίνων οἶμαι πρὸς ἄκραν λεπτότητα τὰ σώματα, καὶ τὰ φύσει φερόμενα κάτω κουφίζει. τὰ δὴ τοιαῦτα τῶν ἀφανῶν αὐτοῦ δυνάμεων ποιητέον τεκμήρια. ὁ γὰρ ἐν τοῖς σώμασι διὰ τῆς σωματοειδοῦς θέρμης οὕτω τοῦτο ἀπεργαζόμενος πῶς οὐ διὰ τῆς ἀφανοῦς καὶ ἀσωμάτου πάντη καὶ θείας καὶ καθαρᾶς ἐν ταῖς ἀκτῖσιν ἱδρυμένης οὐσίας ἕλξει καὶ ἀνάξει τὰς [172c] εὐτυχεῖς ψυχάς; οὐκοῦν ἐπειδὴ πέφηνεν οἰκεῖον μὲν τοῖς θεοῖς τὸ φῶς τοῦτο καὶ τοῖς ἀναχθῆναι σπεύδουσιν, αὔξεται δὲ ἐν τῷ παῤ ἡμῖν κόσμῳ τὸ τοιοῦτον, ὥστε εἶναι τὴν ἡμέραν μείζω τῆς νυκτός, Ἡλίου τοῦ βασιλέως ἐπιπορεύεσθαι τὸν κριὸν ἀρξαμένου: δέδεικται δὴ καὶ ἀναγωγὸν φύσει τὸ τῶν ἀκτίνων τοῦ θεοῦ διά τε τῆς φανερᾶς ἐνεργείας καὶ τῆς ἀφανοῦς, ὑφ̓ ἧς παμπληθεῖς [172d] ἀνήχθησαν ψυχαὶ τῶν αἰσθήσεων ἀκολουθήσασαι τῇ φανοτάτῃ καὶ μάλιστα ἡλιοειδεῖ. τὴν γὰρ τοιαύτην τῶν ὀμμάτων αἴσθησιν οὐκ ἀγαπητὴν μόνον οὐδὲ χρήσιμον εἰς τὸν βίον, ἀλλὰ καὶ πρὸς σοφίαν ὁδηγὸν ὁ δαιμόνιος ἀνύμνησε Πλάτων. εἰ δὲ καὶ τῆς ἀρρήτου μυσταγωγίας ἁψαίμην, ἣν ὁ Χαλδαῖος περὶ τὸν ἑπτάκτινα θεὸν ἐβάκχευσεν, ἀνάγων δἰ αὐτοῦ τὰς ψυχάς, ἄγνωστα ἐρῶ, καὶ [173a] μάλα γε ἄγνωστα τῷ συρφετῷ, θεουργοῖς δὲ τοῖς μακαρίοις γνώριμα: διόπερ αὐτὰ σιωπήσω τανῦν.

12. Ecco, però, ancora un punto che può suscitare dubbi. Gli equinozi sono due, ma si onora di più quello nell’Ariete che quello nello Scorpione. Senza dubbio, la ragione è evidente. Il momento più opportuno sembrava quello in cui il sole comincia a avvicinarsi a noi subito dopo l’equinozio, quando, penso, il giorno si allunga. A prescindere dalla causa che vuole che la luce accompagni gli dei, dobbiamo ritenere che i raggi anagogici del sole hanno uno stretto rapporto con quanti aspirano a liberarsi dalla generazione. Si rifletta attentamente: il sole, con il suo calore vivificante e meraviglioso, trascina ogni cosa dalla terra, la chiama a sé e la fa germogliare, separando — penso — i corpi fino all’estrema sottigliezza e alleggerendo ciò che per natura tende al basso. Questi indizi debbono fornire la prova dei suoi invisibili poteri. Infatti, se riesce a produrre nei corpi simili effetti grazie al calore fisico, come non dovrebbe attrarre e guidare in alto le anime beate grazie alla sostanza invisibile, assolutamente immateriale, divina e pura, che risiede nei suoi raggi? Poiché, dunque, questa luce si è manifestata intimamente affine agli dei e a coloro che aspirano a elevarsi, e per di più nel nostro mondo la luce tende ad aumentare, cosicché il giorno è più lungo della notte, non appena Helios re ha iniziato ad accostarsi all’Ariete, è anche dimostrato che la natura anagogica dei raggi del dio è dovuta alla sua energia visibile e invisibile: grazie a lei un gran numero di anime fu attratto al seguito di quello che tra i sensi è il più chiaro e simile al sole. Questo senso della vista, infatti, quale lo celebra il divino Platone, non è solo grazioso e utile alla vita, ma lo è anche come guida alla sapienza. Se toccassi anche i misteri della mistagogia, di cui nell’ebbrezza ha parlato il Caldeo a proposito del dio dai sette raggi, per mezzo del quale elevava le anime, direi cose ignote, assolutamente sconosciute alla plebe, ma ben familiari ai beati teurgi: perciò, dunque, ora non ne parlerò.

13. Ὅπερ δὲ ἔλεγον, ὅτι καὶ τὸν καιρὸν οὐκ ἀλόγως ὑποληπτέον, ἀλλ̓ ὡς ἔνι μάλιστα μετὰ εἰκότος καὶ ἀληθοῦς λόγου παρὰ τῶν παλαιῶν τῷ θεσμῷ προστεθεῖσθαι, σημεῖον δὴ τούτου, ὅτι τὸν ἰσημερινὸν κύκλον ἡ θεὸς αὐτὴ κατενείματο. τελεῖται γὰρ περὶ τὸν ζυγὸν Δηοῖ καὶ Κόρῃ τὰ σεμνὰ καὶ [173b] ἀπόρρητα μυστήρια. καὶ τοῦτο εἰκότως γίνεται. χρὴ γὰρ καὶ ἀπιόντι τῷ θεῷ τελεσθῆναι πάλιν, ἵνα μηδὲν ὑπὸ τῆς ἀθέου καὶ σκοτεινῆς δυσχερὲς πάθωμεν ἐπικρατούσης δυνάμεως. δὶς γοῦν Ἀθηναῖοι τῇ Δηοῖ τελοῦσι τὰ μυστήρια, ἐν αὐτῷ μὲν τῷ κριῷ τὰ μικρὰ, φασί, μυστήρια, τὰ μεγάλα δὲ περὶ τὰς χηλὰς ὄντος ἡλίου, δἰ ἃς ἔναγχος ἔφην αἰτίας. μεγάλα δὲ ὠνομάσθαι καὶ μικρὰ νομίζω καὶ ἄλλων ἕνεκα, μάλιστα δέ, ὡς εἰκός, τούτου ἀποχωροῦντος τοῦ θεοῦ μᾶλλον ἤπερ [173c] προσιόντος: διόπερ ἐν τούτοις ὅσον εἰς ὑπόμνησιν μόνον. ἅτε δὴ καὶ παρόντος τοῦ σωτῆρος καὶ ἀναγωγοῦ θεοῦ, τὰ προτέλεια κατεβάλλοντο τῆς τελετῆς: εἶτα μικρὸν ὕστερον ἁγνεῖαι συνεχεῖς καὶ τῶν ἱερέων ἁγιστεῖαι. ἀπιόντος δὲ λοιπὸν τοῦ θεοῦ πρὸς τὴν ἀντίχθονα ζώνην, καὶ φυλακῆς ἕνεκα καὶ σωτηρίας αὐτὸ τὸ κεφάλαιον ἐπιτελεῖται τῶν μυστηρίων. ὅρα δέ: ὥσπερ ἐνταῦθα τὸ τῆς γενέσεως αἴτιον ἀποτέμνεται, οὕτω δὲ καὶ παρὰ Ἀθηναίοις οἱ τῶν ἀρρήτων ἁπτόμενοι παναγεῖς [173d] εἰσι, καὶ ὁ τούτων ἐξάρχων ἱεροφάντης ἀπέστραπται πᾶσαν τὴν γένεσιν, ὡς οὐ μετὸν αὐτῷ τῆς ἐπ̓ ἄπειρον προόδου, τῆς ὡρισμένης δὲ καὶ ἀεὶ μενούσης καὶ ἐν τῷ ἑνὶ συνεχομένης οὐσίας ἀκηράτου τε καὶ καθαρᾶς. ὑπὲρ μὲν δὴ τούτων ἀπόχρη τοσαῦτα.

13. Dicevo anche che non si deve supporre che gli antichi abbiano scelto senza ragione il tempo propizio per il rito, poiché anzi lo fissarono con motivi assai plausibili e vicini al vero. Ne è prova che questa dea si attribuì il cerchio equinoziale: infatti, i misteri venerandi e ineffabili di Deo e Core si celebrano sotto la Bilancia. E questo è naturale. Di nuovo dobbiamo celebrare i misteri per il dio che si allontana, così da non patire danno dall’empia e oscura potenza che prende il sopravvento. Gli Ateniesi, comunque, celebrano due volte i misteri di Deo: i piccoli, come li chiamano, quando il sole è nello stesso Ariete, i grandi quando il sole è nello Scorpione, per i motivi cui accennavo poco fa. Penso che questi misteri siano chiamati grandi e piccoli per varie ragioni, ma soprattutto, come è logico, sono chiamati grandi quando il dio si allontana, piuttosto che quando si avvicina: quindi i piccoli hanno solo valore commemorativo, poiché i riti preliminari dell’iniziazione hanno luogo al momento in cui si approssima il dio anagogico e salvatore, mentre poco dopo seguono le purificazioni e le cerimonie religiose. Quando poi il sole parte per gli antipodi, per nostra salvezza e protezione si celebra la parte fondamentale dei misteri. Riflettete: come allora si recide la causa della generazione, allo stesso modo presso gli Ateniesi quanti prendono parte ai sacri riti sono assolutamente puri, mentre lo ierofante che li guida si è sottratto a ogni generazione; così, non può partecipare al progresso verso l’infinito, poiché la sostanza delimitata, sempre permanente e racchiusa nell’uno è allo stesso tempo senza mescolanza e pura. E su questo tanto basti.

14. Λείπεται δὴ λοιπόν, ὡς εἰκός, ὑπέρ τε τῆς ἁγιστείας αὐτῆς καὶ τῆς ἁγνείας διεξελθεῖν, ἵνα καὶ [174a] ἐντεῦθεν λάβωμεν εἰς τὴν ὑπόθεσιν εἴ τι συμβάλλεται. γελοῖον δὲ αὐτίκα τοῖς πᾶσιν ἐκεῖνο φαίνεται: κρεῶν μὲν ἅπτεσθαι δίδωσιν ὁ ἱερὸς νόμος, ἀπαγορεύει δὲ τῶν σπερμάτων. οὐκ ἄψυχα μὲν ἐκεῖνα, ταῦτα δὲ ἔμψυχα; οὐ καθαρὰ μὲν ἐκεῖνα, ταῦτα δὲ αἵματος καὶ πολλῶν ἄλλων οὐκ εὐχερῶν ὄψει τε καὶ ἀκοῇ πεπληρωμένα; οὐ, τὸ μέγιστον, ἐκείνοις μὲν πρόσεστι τὸ μηδένα ἐκ τῆς ἐδωδῆς ἀδικεῖσθαι, τούτοις δὲ τὸ καταθύεσθαι καὶ κατασφάττεσθαι [174b] τὰ ζῷα ἀλγοῦντά γε, ὡς εἰκός, καὶ τρυχόμενα; ταῦτα πολλοὶ καὶ τῶν περιττῶν εἴποιεν ἄν: ἐκεῖνα δὲ ἤδη κωμῳδοῦσι καὶ τῶν ἀνθρώπων οἱ δυσσεβέστατοι. τὰ μὲν ὄρμενά φασιν ἐσθίεσθαι τῶν λαχάνων, παραιτεῖσθαι δὲ τὰς ῥίζας, ὥσπερ γογγυλίδας. καὶ σῦκα μὲν ἐσθίεσθαί φασι, ῥοιὰς δὲ οὐκέτι καὶ μῆλα πρὸς τούτοις. ταῦτα ἀκηκοὼς μινυριζόντων πολλῶν πολλάκις, ἀλλὰ καὶ αὐτὸς εἰρηκὼς πρότερον ἔοικα ἐγὼ μόνος ἐκ πάντων πολλὴν εἴσεσθαι τοῖς δεσπόταις θεοῖς μάλιστα μὲν ἅπασι, πρὸ τῶν [174c] ἄλλων δὲ τῇ Μητρὶ τῶν θεῶν, ὥσπερ ἐν τοῖς ἄλλοις ἅπασιν, οὕτω δὲ καὶ ἐν τούτῳ χάριν, ὅτι με μὴ περιεῖδεν ὥσπερ ὲν σκότῳ πλανώμενον, ἀλλά μοι πρῶτον μὲν ἐκέλευσεν ἀποκόψασθαι οὔτι κατὰ τὸ σῶμα, κατὰ δὲ τὰς ψυχικὰς ἀλόγους ὁρμὰς καὶ κινήσεις τῇ νοερᾷ καὶ προϋφεστώσῃ τῶν ψυχῶν ἡμῶν αἰτίᾳ τὰ περιττὰ καὶ μάταια. ἐπὶ νοῦν δὲ ἔδωκεν αὕτη λόγους τινὰς ἴσως οὐκ [174d] ἀπᾴδοντας πάντη τῆς ὑπὲρ θεῶν ἀληθοῦς ἅμα καὶ εὐαγοῦς ἐπιστήμης. ἀλλ̓ἔοικα γάρ, ὥσπερ οὐκ ἔχων ὅ τι φῶ, κύκλῳ περιτρέχειν. ἐμοὶ δὲ πάρεστι μὲν καὶ καθ̓ἕκαστον ἐπιόντι σαφεῖς καὶ τηλαυγεῖς αἰτίας ἀποδοῦναι, τοῦ χάριν ἡμῖν οὐ θέμις ἐστὶ προσφέρεσθαι ταῦτα, ὧν ὁ θεῖος εἴργει θεσμός: καὶ ποιήσω δὲ αὐτὸ μικρὸν ὕστερον: ἄμεινον δὲ νῦν ὥσπερ τύπους τινὰς προθεῖναι καὶ κανόνας, οἶς ἑπόμενοι, κἄν τι πολλάκις ὑπὸ τῆς σπουδῆς παρέλθῃ τὸν λόγον, ἕξομεν ὑπὲρ τούτων κρῖναι.

14. Come è naturale, non mi resta che trattare del rito stesso e della purificazione, affinché anche di qui ricaviamo qualche elemento per il nostro tema. C’è un particolare, per esempio, che in un primo tempo sembra ridicolo a tutti: la legge sacra permette l’uso delle carni, ma vieta quello dei semi, I semi, però, non sono inanimati, mentre le carni sono di esseri animati? I semi non sono puri, mentre le carni sono piene di sangue e di molte altre sostanze sgradevoli alla vista e al nome? Forse che nutrirsi di semi — ciò che è più importante — non ha il vantaggio di non far male a nessuno, mentre l’uso di carni implica sacrifici e strangolamenti di animali, che naturalmente soffrono e sono tormentati? Queste considerazioni possono farle molti, anche dei più assennati, mentre i più empi degli uomini si permettono scherni di questo tipo: dicono, per esempio, che si possono mangiare i gambi degli ortaggi, ma che le radici sono proibite, come le rape. Dicono che si mangiano i fichi, non le melagrane e, oltre a esse, le mele. Più volte ho sentito mormorare queste critiche, e in passato le ho fatte anch’io, ma di tutti mi sembra di essere il solo profondamente grato agli dei sovrani e soprattutto alla Madre degli dei. Oltre che per tanti altri benefici, le debbo particolare gratitudine per non avermi lasciato vagare come nelle tenebre; invece mi ordinò in primo luogo non qualche amputazione fisica ma, con l’intervento della causa intelligente e primordiale delle nostre anime, di recidere tutto ciò che era superfluo e vano negli impulsi irragionevoli e nei moti della mia anima: ella mi diede alcune convinzioni che forse non sono del tutto in disaccordo con la conoscenza vera e pia degli dei. Comunque, mi sembra di girare in tondo, come se non sapessi cosa dire. Ma posso addurre, per ogni questione, motivi chiari e palesi per cui non ci è consentito consumare quei cibi, che la legge sacra proibisce; lo farò tra poco. Per il momento, è meglio che enunci qualche norma e regola che dobbiamo osservare per poter dare un giudizio in merito, sebbene la fretta possa far sì che spesso la mia argomentazione conosca omissioni.

15. [175a] Προσήκει δὲ πρῶτον ὑπομνῆσαι διὰ βραχέων, τίνα τε ἔφαμεν εἶναι τὸν Ἄττιν καὶ τί τὴν ἐκτομήν, τίνος τε εἶναι σύμβολα τὰ μετὰ τὴν ἐκτομὴν ἄχρι τῶν Ἱλαρίων γινόμενα καὶ τί βούλεσθαι τὴν ἁγνείαν. ὁ μὲν οὖν Ἄττις ἐλέγετο αἰτία τις οὖσα καὶ θεός, ὁ προσεχῶς δημιουργῶν τὸν ἔνυλον κόσμον, ὃς μέχρι τῶν ἐσχάτων κατιὼν ἵσταται ὑπὸ τῆς ἡλίου δημιουργικῆς κινήσεως, [175b] ὅταν ἐπὶ τῆς ἄκρως ὡρισμένης τοῦ παντὸς ὁ θεὸς γένηται περιφερείας, ᾗ τῆς ἰσημερίας τοὔνομά ἐστι κατὰ τὸ ἔργον. ἐκτομὴν δὲ ἐλέγομεν εἶναι τῆς ἀπειρίας τὴν ἐποχήν, ἣν οὐκ ἄλλως ἢ διὰ τῆς ἐπὶ τὰς πρεσβυτέρας καὶ ἀρχηγικωτέρας αἰτίας ἀνακλήσεώς τε καὶ ἀναδύσεως συμβαίνειν. αὐτῆς δὲ τῆς ἁγνείας φαμὲν τὸν σκοπὸν ἄνοδον τῶν ψυχῶν

15. In primo luogo, dobbiamo ricordare brevemente chi sia per noi Attis e cosa sia la sua mutilazione, cosa simboleggino le cerimonie che si svolgono da questa mutilazione fino alle Ilarie, e cosa si intenda con il rito di purificazione. Attis dunque fu definito una causa prima e un dio, il diretto creatore del mondo materiale che, nella sua discesa fino al limite estremo, viene arrestato dal movimento creativo del sole, quando questo dio raggiunge il vertice della circonferenza delimitata dell’universo, il cui nome per via dei suoi effetti è equinozio. Abbiamo detto che la mutilazione significa l’arresto della corsa verso l’infinito, che non può prodursi se non attraverso il richiamo e la resurrezione di Attis alle cause più antiche e originarie. Abbiamo anche detto che lo scopo del rito di purificazione è l’ascesa delle anime.

16. Οὐκοῦν οὐκ ἐᾷ πρῶτον σιτεῖσθαι τὰ κατὰ γῆς δυόμενα σπέρματα: ἔσχατον μὲν γὰρ τῶν ὄντων ἡ γῆ. ἐνταῦθα δέ φησιν ἀπελαθέντα καὶ Πλάτων τὰ κακὰ στρέφεσθαι, καὶ διὰ τῶν λογίων οἱ θεοὶ [175c] σκύβαλον αὐτὸ πολλαχοῦ καλοῦσι, καὶ φεύγειν ἐντεῦθεν παρακελεύονται. πρῶτον οὖν ἡ ζωογόνος καὶ προμηθὴς θεὸς οὐδὲ ἄχρι τῆς τῶν σωμάτων τροφῆς ἐπιτρέπει τοῖς κατὰ γῆς δυομένοις χρῆσθαι, παραινοῦσά γε πρὸς τὸν οὐρανόν, μᾶλλον δὲ καὶ ὑπὲρ τὸν οὐρανὸν βλέπειν. ἑνί τινες κέχρηνται σπέρματι, τοῖς λοβοῖς, οὐ σπέρμα μᾶλλον ἢ [175d] λάχανον αὐτὸ νομίζοντες εἶναι τῷ πεφυκέναι πως ἀνωφερὲς καὶ ὀρθὸν καὶ οὐδὲ ἐρριζῶσθαι κατὰ τῆς γῆς: ἐρρίζωται δὲ ὥσπερ ἐκ δένδρου κιττοῦ τινος ἢ καὶ ἀμπέλου καρπὸς ἤρτηται καὶ καλάμης. ἀπηγόρευται μὲν οὖν ἡμῖν σπέρματι χρῆσθαι διὰ τοῦτο φυτῶν, ἐπιτέτραπται δὲ χρῆσθαι καρποῖς καὶ λαχάνοις, οὐ τοῖς χαμαιζήλοις, ἀλλὰ τοῖς ἐκ γῆς αἰρομένοις ἄνω μετεώροις. ταύτῃ τοι καὶ τῆς γογγυλίδος τὸ μὲν γεωχαρὲς ὡς χθόνιον ἐπιτάττει [176a] παραιτεῖσθαι, τὸ δὲ ἀναδυόμενον ἄνω καὶ εἰς ὕψος αἰρόμενον ὡς αὐτῷ τούτῳ καθαρὸν τυγχάνον δίδωσι προσενέγκασθαι. τῶν γοῦν λαχάνων ὀρμένοις μὲν συγχωρεῖ χρῆσθαι, ῥίζαις δὲ ἀπαγορεύει καὶ μάλιστα ταῖς ἐντρεφομέναις καὶ συμπαθούσαις τῇ γῇ. καὶ μὴν καὶ τῶν δένδρων μῆλα μὲν ὡς ἱερὰ καὶ χρυσᾶ καὶ ἀρρήτων ἄθλων καὶ τελεστικῶν εἰκόνας καταφθείρειν οὐκ ἐπέτρεψε καὶ καταναλίσκειν, ἄξιά γε ὄντα τῶν ἀρχετύπων χάριν τοῦ [176b] σέβεσθαί τε καὶ θεραπεύεσθαι: ῥοιὰς δὲ ὡς φυτὸν χθόνιον παρῃτήσατο, καὶ τοῦ φοίνικος δὲ τὸν καρπὸν ἴσως μὲν ἄν τις εἴποι διὰ τὸ μὴ γίνεσθαι περὶ τὴν Φρυγίαν, ἔνθα πρῶτον ὁ θεσμὸς κατέστη: ἐμοὶ δὲ δοκεῖ μᾶλλον ὡς ἱερὸν ἡλίου τὸ φυτὸν ἀγήρων τε ὂν οὐ συγχωρῆσαι καταναλίσκειν ἐν ταῖς ἁγιστείαις εἰς τροφὴν σώματος. ἐπὶ τούτοις ἀπηγόρευται ἰχθύσιν ἅπασι χρῆσθαι. κοινὸν δέ [176c] ἐστι τοῦτο καὶ πρὸς Αἰγυπτίους τὸ πρόβλημα.

16. Quindi la legge sacra in primo luogo non consente di nutrirsi di quei semi che sono sotto terra: la terra infatti è l’ultimo degli esseri. Anche Platone dice che in essa si muove il male scacciato dagli dei e spesso negli oracoli gli dei chiamano la terra un rifiuto, e ci esortano a fuggirne. Dunque, in primo luogo, la dea, generatrice di vita e provvidenziale, non permette di far uso di quanto si immerge nella terra, neppure come nutrimento dei corpi, esortandoci a guardare il cielo, ed ancora più in là. Alcuni usano un solo seme, i baccelli, poiché lo considerano un legume più che un seme, in quanto per natura cresce in un certo senso all’insù e diritto, e non ha radici sotto terra: le sue radici dunque sono come quelle delle bacche dell’edera, che aderisce a un albero, o dell’uva che è attaccata al ceppo. Per questo a noi è proibito nutrirci dei semi delle piante, ma ci è consentito usare frutti e verdure, non però quelli che tendono verso la terra, ma di quelli che dalla terra si elevano in alto, nell’aria. Ecco perché ci viene imposto di evitare quella parte della rapa che si compiace della terra, in quanto è ctonia, mentre ci è permesso di consumare la parte che fuoriesce e si eleva verso l’alto, poiché questa di per sé è pura. La legge sacra, inoltre, ci consente di far uso dei gambi delle verdure, ma ci proibisce le radici, soprattutto quelle che si nutrono nella terra e ne sono influenzate. Quanto agli alberi, poi, non permette di distruggere e di consumare i pomi, perché sono sacri e dorati, e rappresentano gli ineffabili premi dell’iniziazione ai misteri, meritando la nostra venerazione e la nostra adorazione in virtù dei loro archetipi originari. Le melagrane sono proibite come frutto ctonio; così il frutto della palma, forse, ha congetturato qualcuno, per il fatto che la palma non cresce in Frigia, dove la prescrizione fu stabilita per la prima volta. A me sembra piuttosto che il motivo, per cui non ci è consentito consumare i suoi frutti per nutrirci durante i sacri riti, sia che questo albero è sacro al sole e non invecchia. Il divieto infine si estende a ogni tipo di pesce: questo impedimento è comune a noi e agli Egiziani.

17. δοκεῖ δὲ ἔμοιγε δυοῖν ἕνεκεν ἄν τις ἰχθύων μάλιστα μὲν ἀεί, πάντως δὲ ἐν ταῖς ἁγιστείαις ἀποσχέσθαι, ἑνὸς μέν, ὅτ τούτων, ἃ μὴ θύομεν τοῖς θεοῖς, οὐδὲ σιτεῖσθαι προσήκει. δέος δὲ ἴσως οὐδέν, μή πού τις ἐνταῦθα λίχνος καὶ γάστρις ἐπιλάβηταί μου, ὥς που καὶ πρότερον ἤδη παθὼν αὐτὸ διαμνημονεύω, ‘Διὰ τί δέ; οὐχὶ καὶ θύομεν αὐτῶν πολλάκις τοῖς θεοῖς’; εἰπόντος ἀκούσας. ἀλλ̓ [176d] εἴχομέν τι καὶ πρὸς τοῦτο εἰπεῖν. καὶ θύομέν γε, ἔφην, ὦ μακάριε, ἔν τισι τελεστικαῖς θυσίαις, ὡς ἵππον Ῥωμαῖοι, ὡς πολλὰ καὶ ἄλλα θηρία καὶ ζῷα, κύνας ἴσως Ἕλληνες Ἑκάτῃ καὶ Ῥωμαῖοι δέ: καὶ πολλὰ παῤ ἄλλοις ἐστὶ τῶν τελεστικῶν, καὶ δημοσίᾳ ταῖς πόλεσιν ἅπαξ τοῦ ἔτους ἢ δὶς τοιαῦτα θύματα, ἀλλ̓οὐκ ἐν ταῖς τιμητηρίοις, ὧν μόνων κοινωνεῖν ἄξιον καὶ τραπεζοῦν θεοῖς. τοὺς δὲ ἰχθύας ἐν ταῖς τιμητηρίοις οὐ θύομεν, ὅτι μήτε [177a] νέμομεν, μήτε τῆς γενέσεως αὐτῶν ἐπιμελούμεθα, μήτε ἡμῖν εἰσιν ἀγέλαι καθάπερ προβάτων καὶ βοῶν οὕτω δὲ καὶ τῶν ἰχθύων. ταῦτα μὲν γὰρ ὑφ̓ ἡμῶν βοηθούμενα τὰ ζῷα καὶ πληθύνοντα διὰ τοῦτο δικαίως ἂν ἡμῖν εἴς τε τὰς ἄλλας χρείας ἐπικουροίη καὶ πρό γε τῶν ἄλλων ἐς τιμητηρίους θυσίας. εἷς μὲν δὴ λόγος οὗτος, δἰ ὃν οὐκ οἶμαι δεῖν ἰχθὺν ἐν ἁγνείας καιρῷ προσφέρεσθαι τροφήν. ἕτερος δέ, ὃν καὶ μᾶλλον ἡγοῦμαι τοῖς προειρημένοις ἁρμόζειν, ὅτι τρόπον τινὰ καὶ αὐτοὶ κατὰ [177b] τοῦ βυθοῦ δεδυκότες εἶεν ἂν χθονιώτεροι τῶν σπερμάτων, ὁ δὲ ἐπιθυμῶν ἀναπτῆναι καὶ μετέωρος ὑπὲρ τὸν ἀέρα πρὸς αὐτὰς οὐρανοῦ πτῆναι κορυφὰς δικαίως ἂν ἀποστρέφοιτο πάντα τὰ τοιαῦτα, μεταθέοι δὲ καὶ μετατρέχοι τὰ τεινόμενα πρὸς τὸν ἀέρα καὶ σπεύδοντα πρὸς τὸ ἄναντες καί, ἵνα ποιητικώτερον εἴπω, πρὸς τὸν οὐρανὸν ὁρῶντα. ὄρνισιν οὖν ἐπιτρέπει χρῆσθαι πλὴν ὀλίγων, οὓς ἱεροὺς εἶναι πάντῃ συμβέβηκε, καὶ τῶν τετραπόδων [177c] τοῖς συνήθεσιν ἔξω τοῦ χοίρου. τοῦτον δὲ ὡς χθόνιον πάντη μορφῇ τε καὶ τῷ βίῳ καὶ αὐτῷ τῷ τῆς οὐσίας λόγῳ. περιττωματικός τε γὰρ καὶ παχὺς τὴν σάρκα: τῆς ἱερᾶς ἀποκηρύττει τροφῆς. φίλον γὰρ εἶναι πεπίστευται θῦμα τοῖς χθονίοις θεοῖς οὐκ ἀπεικότως. ἀθέατον γάρ ἐστιν οὐρανοῦ τουτὶ τὸ ζῷον, οὐ μόνον οὐ βουλόμενον, ἀλλ̓ οὐδὲ πεφυκὸς ἀναβλέψαι ποτέ. τοιαύτας μὲν δὴ αἰτίας ὑπὲρ τῆς ἀποχῆς ὧν ἀπέχεσθαι δεῖ εἴρηκεν [177d] ὁ θεῖος θεσμός: οἱ ξυνιέντες δὲ κοινούμεθα τοῖς ἐπισταμένοις θεούς.

17. È mia opinione che siano due i motivi per cui ci si deve astenere sempre dai pesci, e soprattutto durante le feste religiose: il primo motivo è che non ci si deve cibare di quanto non si sacrifica agli dei. Certo, non debbo temere che qualche ingordo, schiavo del proprio ventre, ora se la prenda con me, per quanto ricordi di aver già sperimentato, in precedenza, una simile reazione, quando mi sentii dire: «Ma perché? Forse che spesso non sacrifichiamo pesci agli dei?». Comunque, avevo una risposta anche su questo punto: «Mio egregio signore» dissi «è vero che facciamo offerte di pesce in certi sacrifici misterici, come i Romani sacrificano un cavallo e molti altri animali selvatici e domestici, e come anche i Greci e i Romani offrono cani ad Ecate. E durante i sacrifici votivi molte vittime sono offerte presso entrambi i popoli; questi sacrifici si offrono a spese pubbliche, da parte delle città, una o due volte l’anno, ma non nei sacrifici solenni, i soli di cui sia buono e giusto offrire una parte agli dei e mettere in tavola di fronte a loro. Dunque, noi non sacrifichiamo i pesci nei sacrifici solenni, perché non li alleviamo e non ci curiamo della loro riproduzione, e non abbiamo mandrie di pesci così come abbiamo mandrie di pecore e di buoi. Infatti, dal momento che alleviamo questi animali, e pertanto si moltiplicano, è giusto che, come ci sono utili per molti scopi, lo siano di preferenza per i sacrifici solenni». Questo è uno dei motivi per cui penso che non si debbano consumare pesci in occasione dei riti di purificazione; l’altro, che ritengo ancor più congruente con quanto ho detto prima, è che i pesci, immergendosi nella profondità delle acque, in certo modo sono ancora più ctonii dei semi. Perciò, chi aspira a librarsi in alto, oltre l’aria, e a involarsi verso le cime stesse del cielo, giustamente dovrebbe astenersi da questi alimenti, e rincorrere e ricercare le tracce di ciò che tende a salire nell’aria e si alza verso le cime scoscese o, per usare un’immagine poetica, guarda verso il cielo. Tranne alcuni, che generalmente sono ritenuti sacri, siamo autorizzati a far uso di uccelli, e dei quadrupedi comuni ad eccezione del porco. Quest’animale è bandito come alimento dai riti sacri per la natura assolutamente ctonia della sua forma e del suo tipo di vita e per il carattere stesso del suo essere: la sua carne infatti è escrementizia e grassa. Non è illogico ritenere che sia una vittima cara agli dei ctonii. Questo animale non può guardare il cielo non solo perché non lo desidera, ma soprattutto perché le sue caratteristiche gli impediscono di guardare verso l’alto. Queste sono le ragioni che ci ha dato la legge divina per l’astinenza dai cibi di cui non dobbiamo far uso: poiché le abbiamo comprese, ne facciamo parte a quanti conoscono gli dei.

18. Ὑπὲρ δὲ ὧν ἐπιτρέπει χρῆσθαι λέγομεν τοσοῦτον, ὡς οὐ πᾶσιν ἅπαντα, τὸ δυνατὸν δὲ ὁ θεῖος νόμος τῇ ἀνθρωπίνῃ φύσει σκοπῶν ἐπέτρεψε χρῆσθαι τουτοισὶ τοῖς πολλοῖς, οὐχ ἵνα πᾶσι πάντες ἐξ ἀνάγκης χρησώμεθα: τοῦτο μὲν γὰρ ἴσως οὐκ εὔκολον: ἀλλ̓ ὅπως ἐκείνῳ, ὅτῳ ἄρα [178a] πρῶτον μὲν ἡ τοῦ σώματος συγχωρεῖ δύναμις, εἶτά τις περιουσία συντρέχει καὶ τρίτον ἡ προαίρεσις, ἣν ἐν τοῖς ἱεροῖς οὕτως ἄξιον ἐπιτείνειν, ὥστε καὶ ὑπὲρ τὴν τοῦ σώματος δύναμιν ὁρμᾶν καὶ προθυμεῖσθαι τοῖς θείοις ἀκολουθεῖν θεσμοῖς. ἔστι γὰρ δὴ τοῦτο μάλιστα μὲν ἀνυσιμώτερον αὐτῇ τῇ ψυχῇ πρὸς σωτηρίαν, εἰ μείζονα λόγον [178b] αὑτῆς, ἀλλὰ μὴ τοῦ σώματος τῆς ἀσφαλείας ποιήσαιτο, πρὸς δὲ καὶ αὐτὸ τὸ σῶμα μείζονος καὶ θαυμασιωτέρας φαίνεται λεληθότως τῆς ὠφελείας μεταλαγχάνον. ὅταν γὰρ ἡ ψυχὴ πᾶσαν ἑαυτὴν δῷ τοῖς θεοῖς, ὅλα τὰ καθ̓ ἑαυτὴν ἐπιτρέψασα τοῖς κρείττοσιν, ἑπομένης οἶμαι τῆς ἁγιστείας καὶ πρό γε ταύτης τῶν θείων θεσμῶν ἡγουμένων, ὄντος οὐδενὸς λοιπὸν τοῦ ἀπείργοντος καὶ ἐμποδίζοντος: πάντα γάρ ἐστιν ἐν τοῖς θεοῖς καὶ πάντα περὶ αὐτοὺς ὑφέστηκε καὶ πάντα τῶν θεῶν ἐστι πλήρη: αὐτίκα μὲν αὐταῖς ἐλλάμπει τὸ θεῖον φῶς, θεωθεῖσαι δὲ αὗται τόνον τινὰ καὶ [178c] ῥώμην ἐπιτιθέασι τῷ συμφύτῳ πνεύματι, τοῦτο δὲ ὑπ̓ αὐτῶν στομούμενον ὥσπερ καὶ κρατυνόμενον σωτηρίας ἐστὶν αἴτιον ὅλῳ τῷ σώματι. τὸ δὲ ὅτι μάλιστα μὲν πάσας τὰς νόσους, εἰ δὲ μή, ὅτι τὰς πλείστας καὶ μεγίστας ἐκ τῆς τοῦ πνεύματος εἶναι τροπῆς καὶ παραφορᾶς συμβέβηκεν, οὐδεὶς ὅστις οἶμαι τῶν Ἀσκληπιαδῶν οὐ φήσει. οἱ μὲν γὰρ καὶ πάσας φασίν, οἱ δὲ τὰς πλείστας καὶ μεγίστας καὶ ἰαθῆναι χαλεπωτάτας: [178d] μαρτυρεῖ δὲ τούτοις καὶ τὰ τῶν θεῶν λόγια, φημὶ δέ, ὅτι διὰ τῆς ἁγιστείας οὐχ ἡ ψυχὴ μόνον, ἀλλὰ καὶ τὰ σώματα βοηθείας πολλῆς καὶ σωτηρίας ἀξιοῦται: σώζεσθαι γάρ σφισι καὶ τὸ ‘πικρᾶς ὕλης περίβλημα βρότειον’ οἱ θεοὶ τοῖς ὑπεράγνοις παρακελευόμενοι τῶν θεουργῶν κατεπαγγέλλονται.

18. Quanto ai cibi di cui è permesso l’uso dirò solo questo. La legge divina non consente tutto a tutti ma, in considerazione delle possibilità della natura umana, ci permette di usarne il maggior numero, non perché tutti di necessità dobbiamo servirci di ognuno — cosa che certo non sarebbe facile —, ma perché, appunto, dobbiamo usare in primo luogo ciò che ci consente la nostra forza fisica, poi quello di cui ci sia una certa abbondanza e, in terzo luogo, ciò che sceglie la nostra volontà: in occasione delle cerimonie sacre, è giusto sforzarsi per superare le capacità del corpo e tendere ad uniformarsi alle leggi divine. Infatti è elemento assolutamente più efficace per la salvezza della stessa anima, se essa tiene più conto di sé che non del benessere del corpo, oltre alla considerazione che anche il corpo a sua insaputa partecipa di quel grande e splendido beneficio. Quando l’anima infatti si abbandona completamente agli dei e affida tutto ciò che la riguarda esclusivamente alle potenze superiori — e seguono le cerimonie, precedute dai riti divini, senza che, penso, non vi sia nulla di impedimento e di ostacolo, poiché tutto risiede negli dei e tutto sussiste in rapporto con loro e ne è ripieno —, allora subito la luce divina si irradia sulle nostre anime: così divinizzate, esse conferiscono un certo vigore e una certa energia al soffio vitale loro connaturato, che ne risulta come fortificato e rinvigorito, garantendo la salvezza dell’intero corpo. Certo, non ci sarà nessuno, penso, dei discepoli di Asclepio che negherà come tutte le malattie, o comunque il maggior numero delle malattie e quelle più gravi, derivino da un turbamento o da un’alterazione del soffio vitale. Alcuni dicono tutte le malattie, altri la maggior parte e le più difficili da curare. Inoltre, sono testimonianza di questo fatto gli oracoli degli dei, e affermo che non solo l’anima, ma anche il corpo, trae molto aiuto e salvezza dai riti di purificazione: «si salva» dicono gli oracoli «anche l’involucro mortale della amara materia», come promettono solennemente gli dei nelle loro esortazioni ai più santi tra i teurgi.

19. Τίς οὖν ἡμῖν ὑπολείπεται λόγος, ἄλλως τε καὶ ἐν βραχεῖ νυκτὸς μέρει ταῦτα ἀπνευστὶ ξυνεῖραι συγχωρηθεῖσιν, οὐδὲν οὔτε προανεγνωκόσιν οὔτε [179a] σκεψαμένοις περὶ αὐτῶν, ἀλλ̓ οὐδὲ προελομένοις ὑπὲρ τούτων εἰπεῖν πρὶν ἢ τὰς δέλτους ταύτας αἰτῆσαι; μάρτυς δὲ ἡ θεός μοι τοῦ λόγου. ἀλλ̓, ὅπερ ἔφην, τί τὸ λειπόμενον ἡμῖν ὑμνῆσαι τὴν θεὸν μετὰ τῆς Ἀθηνᾶς καὶ τοῦ Διονύσου, ὧν δὴ καὶ τὰς ἑορτὰς ἐν ταύταις ἔθετο ταῖς ἁγιστείαις ὁ νόμος; ὁρῶ μὲν τῆς Ἀθηνᾶς πρὸς τὴν Μητέρα τῶν θεῶν διὰ τῆς προνοητικῆς ἐν ἑκατέραις [179b] ταῖς οὐσίαις ὁμοιότητος τὴν συγγένειαν ἐπισκοπῶ δὲ καὶ τὴν Διονύσου μεριστὴν δημιουργίαν, ἣν ἐκ τῆς ἑνοειδοῦς καὶ μονίμου ζωῆς τοῦ μεγάλου Διὸς ὁ μέγας Διόνυσος παραδεξάμενος, ἅτε καὶ προελθὼν ἐξ ἐκείνου, τοῖς φαινομένοις ἅπασιν ἐγκατένειμεν, ἐπιτροπεύων καὶ βασιλεύων τῆς μεριστῆς συμπάσης δημιουργίας. προσήκει δὲ σὺν τούτοις ὑμνῆσαι καὶ τὸν Ἐπαφρόδιτον [179c] Ἑρμῆν: καλεῖται γὰρ οὕτως ὑπὸ τῶν μυστῶν ὁ θεὸς οὗτος, ὅσοι λαμπάδας φασὶν ἀνάπτειν Ἄττιδι τῷ σοφῷ. τίς οὖν οὕτω παχὺς τὴν ψυχήν, ὃς οὐ συνίησιν, ὅτι δἰ Ἑρμοῦ μὲν καὶ Ἀφροδίτης ἀνακαλεῖται πάντα πανταχοῦ τὰ τῆς γενέσεως ἔχοντα τὸ ἕνεκά του πάντη καὶ πάντως ὃ τοῦ λόγου μάλιστα ἴδιόν ἐστιν; Ἄττις δὲ οὐχ οὗτός ἐστιν ὁ μικρῷ πρόσθεν ἄφρων, νῦν δὲ ἀκούων διὰ τὴν ἐκτομὴν σοφός; ἄφρων μὲν ὅτι τὴν ὕλην εἵλετο καὶ τὴν γένεσιν ἐπιτροπεύει, σοφὸς δὲ ὅτι τὸ σκύβαλον τοῦτο εἰς κάλλος [179d] ἐκόσμησε τοσοῦτον καὶ μετέστησεν, ὅσον οὐδεμἴ ἂν μιμήσαιτο ἀνθρώπων τέχνη καὶ σύνεσις. ἀλλὰ τί πέρας ἔσται μοι τῶν λόγων; ἢ δῆλον ὡς ὁ τῆς μεγάλης ὕμνος θεοῦ;

19. Cosa dunque ci resta da dire, soprattutto quando, per comporre questo discorso, non ci è stata concessa che una breve parte della notte, senza neppure poter prender fiato, o aver fatto letture e ricerche preliminari, e anzi senza che neanche pensassimo di parlarne prima di chiedere queste tavolette? La dea mi è testimone di quanto affermo. Come dicevo, che cosa ci resta da fare? Celebrare la dea insieme ad Atena e a Dioniso, dei quali la legge ha anche fissato le feste durante queste celebrazioni. Riconosco l’affinità di Atena con la Madre degli dei a causa della similitudine della funzione provvidenziale inerente alla sostanza di entrambe le dee, e considero anche la divisibile attività creatrice di Dioniso, che il grande Dioniso ricevette dal principio vitale e uniforme del grande Zeus da cui procede: egli lo ripartisce a tutti gli esseri visibili, regolando e governando il complesso dell’attività creatrice divisibile. Nell’inno conviene celebrare con loro anche Hermes Epafrodito: così infatti questo dio è chiamato dagli iniziati, il quale — come dicono — accende le fiaccole per il saggio Attis. Chi dunque avrà mente così grossolana da non comprendere che, attraverso Hermes e Afrodite, si invocano tutti i principi della generazione universale, che dovunque e perfettamente contengono la causa finale, ciò che per antonomasia è reputato Logos? E questo Logos non è Attis che poco prima era dissennato, ma che ora è chiamato saggio per la sua mutilazione? Era dissennato dal momento che preferiva la materia e presiedeva alla generazione; tuttavia ora è saggio, poiché ha reso così bella questa sozzura da trasformarla in qualcosa che nessuna arte o intelligenza umana saprebbe imitare. Ma quale sarà la conclusione del mio discorso, se non evidentemente un inno alla grande Dea?

20. Ὦ θεῶν καὶ ἀνθρώπων μῆτερ, ὦ τοῦ μεγάλου σύνθωκε καὶ σύνθρονε Διός, ὦ πηγὴ τῶν νοερῶν θεῶν, ὦ τῶν νοητῶν ταῖς ἀχράντοις οὐσίαις συνδραμοῦσα καὶ τὴν κοινὴν ἐκ πάντων αἰτίαν παραδεξαμένη [180a] καὶ τοῖς νοεροῖς ἐνδιδοῦσα ζωογόνε θεὰ καὶ μῆτις καὶ πρόνοια καὶ τῶν ἡμετέρων ψυχῶν δημιουργέ, ὦ τὸν μέγαν Διόνυσον ἀγαπῶσα καὶ τὸν Ἄττιν ἐκτεθέντα περισωσαμένη καὶ πάλιν αὐτὸν εἰς τὸ γῆς ἄντρον καταδυόμενον ἐπανάγουσα, ὦ πάντων μὲν ἀγαθῶν τοῖς νοεροῖς ἡγουμένη θεοῖς, πάντων δὲ ἀποπληροῦσα τὸν αἰσθητὸν κόσμον, πάντα δὲ ἡμῖν ἐν πᾶσιν ἀγαθὰ χαρισαμένη, [180b] δίδου πᾶσι μὲν ἀνθρώποις εὐδαιμονίαν, ἧς τὸ κεφάλαιον ἡ τῶν θεῶν γνῶσίς ἐστι, κοινῇ δὲ τῷ Ῥωμαίων δήμῳ, μάλιστα μὲν ἀποτρίψασθαι τῆς ἀθεότητος τὴν κηλῖδα, πρὸς δὲ καὶ τὴν τύχην εὐμενῆ συνδιακυβερνῶσαν αὐτῷ τὰ τῆς ἀρχῆς πολλὰς χιλιάδας ἐτῶν, ἐμοὶ δὲ καρπὸν γενέσθαι τῆς περὶ σὲ θεραπείας ἀλήθειαν ἐν τοῖς περὶ θεῶν δόγμασιν, ἐν θεουργίᾳ τελειότητα, πάντων ἔργων, οἷς προσερχόμεθα περὶ τὰς [180c] πολιτικὰς καὶ στρατιωτικὰς πράξεις, ἀρετὴν μετὰ τῆς ἀγαθῆς τύχης καὶ τὸ τοῦ βίου πέρας ἄλυπόν τε καὶ εὐδόκιμον μετὰ τῆς ἀγαθῆς ἐλπίδος τῆς ἐπὶ τῇ παῤ ὑμᾶς πορείᾳ.

20. O Madre degli dei e degli uomini, che siedi al fianco di Zeus e ne condividi il trono, o fonte degli dei intelligenti, tu che procedi con le sostanze immacolate degli dei intellegibili e da tutti loro ricevi la causa comune delle cose e la trasmetti agli dei intelligenti; o dea generatrice di vita, tu che sei consiglio e provvidenza e creatrice delle nostre anime, tu che ami il grande Dioniso e hai salvato Attis quando fu esposto e lo hai risollevato quando precipitò nell’antro della terra; tu che per gli dei intelligenti sei il principio di tutti i beni e riempi di tanti doni questo mondo sensibile, tu che a tutti rendi la grazia di tutti i beni, concedi ad ogni uomo la felicità, il cui fondamento risiede nella conoscenza degli dei, e in comune al popolo romano soprattutto di liberarsi dalla peste dell’empietà, e inoltre la benevolenza della fortuna, che regga con lui le sorti dell’impero per molte migliaia di anni; a me infine, come frutto della mia devozione per te, concedi la verità nei dogmi che riguardano gli dei, la perfezione nella teurgia e la virtù, accompagnata dalla buona fortuna, in tutto quanto stiamo pet intraprendere in ambito politico e militare, e che la fine della mia vita sia libera dal dolore e gloriosa nella buona speranza di poter salire fino a voi.

(Traduzione in Giuliano Imperatore, Inno alla Madre degli dei e altri discorsi, a cura di J. Fontaine, C. Prato, A. Marcone, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006. Cfr. anche The works of the Emperor Julian, ed. by W. C. Wright, Macmillan, London-New York 1913; C. F. Russo, L’editore principe di Giuliano, in “Belfagor”, 21, 3, 1966, pp. 297-9.)

in [ religione_romana ]

Commenti

Articoli correlati