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Le religioni del mistero. Un’introduzione

Negli anni Cinquanta si iniziarono a studiare negli ambienti accademici i documenti gnostici di Nag Hammadi, ritrovati nell’immediato dopoguerra in Egitto; nel campo degli studi, si poneva la necessità di una riflessione sul materiale a disposizione e di un ripensamento delle categorie in cui ricadevano i cosiddetti culti misterici. Gli anni tra il 1930 e il 1940 avevano già apportato nuovi materiali e nuove ipotesi di ricerca: gli studi sul pattern o modello mitico-rituale inaugurati in Inghilterra, che ancora risentivano del comparativismo frazeriano, “ponevano ormai il tema delle religioni misteriche in una prospettiva più vasta per considerarle, una per una, nelle loro radici antiche di religioni nazionali ed etniche – Creta, Egitto, Anatolia e il resto dell’Asia anteriore, superando la limitazione ai culti mistici e soteriologici d’età ellenistico-romana e in particolare quelli relativi a divinità di origine orientale come Mithra (Persia), Iside e Osiride (Egitto, Roma), Cibele e Attis (Anatolia), Afrodite/Astarte e Adonis (Fenicia, Grecia).

Statua in marmo raffigurante Aion (Illustrazione Vaticana 1933, 579f) , il dio leontocefalo del tempo infinito, rappresentato in molti mitrei. Indossa una pelle di leone e ha due paia di ali, sul petto un occhio e sull'addome e sulle ginocchia una testa di leone. Ha quattro braccia, ma le mani sono mancanti - in una stringe uno scettro. Accanto ai suoi piedi ci sono un'idra e un leone (forse) cornuto e, seduto, un Cerbero a tre teste - una di cane, una leone e una di montone; su entrambi i lati c'è un tronco su cui si attorciglia un serpente che, quello a sinistra, striscia verso l'alto, mentre l'altro appoggia la testa su quelle di Cerbero. La statua è stata ritrovata nel 1933 presso Villa Barberini di Castel Gandolfo. Via tertullian.org

Gli studi / Mistico, misterico, misteriosofico / La specificità di Mithra / Gli dei ora spenti ora luminosi / Repetita mortis imago

Gli studi

In quel decennio le indagini (Puech, Atti dell’VIII convegno internazionale di Storia delle religioni, Roma 1955) si orientavano verso un «ellenismo propenso al concetto ciclico del tempo, come eterno ritorno, un cristianesimo che intende il tempo lineare ed escatologico come storia della salvezza, e, come terzo, uno gnosticismo come salvezza nel quadro atemporale ma non ciclico di un salvatore-rivelatore che scende a svegliare dal sonno i suoi simili».

Dopo il 1955 gli studi hanno declinato su strade diverse. Il Colloquio di Messina (13-18 aprile 1966) fu una prima occasione per una riflessione comune sui nuovi documenti gnostici di Nag Hammadi: la terminologia ‘gnosi e gnosticismo’ non doveva implicare categorie generalizzanti, ma utili per individuare una tipologia storica differenziata e ben attestabile di questi culti; il metodo applicato era quello storico-comparativo, «in cui la Storia delle religioni appunto consiste, come disciplina specifica e indivisibile», e «si pose solidamente il piede su un punto di riferimento sicuro, quello delle sètte gnostiche del II secolo ev, alla cui conoscenza i nuovi testi contribuivano».

Si arrivò a individuare in nuce il “sentimento gnostico”, una serie coerente di caratteristiche che si possono riassumere nell’idea della «presenza nell’uomo di una scintilla divina che proviene dal mondo pleromatico, caduta in questo mondo sottomesso al destino, che deve essere risvegliata tramite un messaggio rivelatore per essere reintegrata nel suo mondo d’origine; il divino si degrada dunque, entra in crisi e produce, indirettamente, questo mondo, di cui non può peraltro disinteressarsi perché deve recuperarvi l’elemento divino che vi è caduto e trattenuto».

Mistico, misterico, misteriosofico

Era urgente stabilire con chiarezza una tipologia specifica del “mistico” e del “soteriologico” nelle religioni pagane d’età ellenistico-romana, dagli antichi culti mistici del dio in vicenda e della coppia divina ai rituali iniziatici, fino alla soteriologia dei culti misterici e, infine, a una misteriosofia orfico-neoplatonico-gnostica che li trascenderà, vedendovi il simbolo della vicenda dell’anima divina persa nella materia.

L’origine della parola è greca, to mystikón, o meglio ta mystiká, per indicare «l’esperienza di una profonda, reciproca interferenza tra i due piani divino e umano, sia nel senso della partecipazione di certe divinità a una vicenda di aspetto parzialmente umano (sparizione e ritorno, vita e morte), sia nel senso di una partecipazione rituale degli uomini a vicende e modi di essere connessi con le divinità».

All’interno del concetto “mistico” si è poi giunti a una ulteriore differenziazione:

  • una prima forma, in cui la partecipazione o interferenza tra divino e umano è temporanea e caratterizzata da enthousiasmos, come nelle pratiche di menadismo dionisiaco e metroaco (relativo alla dea Cibele, chiamata dai greci semplicemente Meter, da cui l’aggettivo. Cfr. S. Ribichini, Il rito segreto. Antichi culti misterici, dispense).

  • una seconda forma, i cosiddetti culti del mistero, si distingue perché implica in più la «presenza di un rituale iniziatico, graduato ed esoterico, all’interno di santuari destinati a questo scopo (telesterion, mitreo, penetrale) in vista di una beatitudine anche extramondana di cui l’iniziato riceve promessa e anticipazione assistendo e associandosi alla vicenda e al destino del dio misterico». I misteri eleusini sono il modello di questa tipologia, a cui si aggiungono con novità di struttura i misteri di Mithra, di Iside e di Cibele attestati rispettivamente da Apuleio, Clemente Alessandrino e Firmico Materno.

  • Una terza forma del mistico infine è la religiosità “misteriosofica”, dove il soggetto della vicenda di caduta e rinascita non è tanto il dio misterico quanto l’anima divina, «un elemento celeste che, dalle più antiche formulazioni orfico-pitagoriche fino all’ermetismo e gnosticismo, tramite il dualismo platonico, si trova incarcerato nella tomba del corpo e nella caverna che è il mondo. Qui il valore iniziatico e salvifico non si trova tanto in un rituale di ripetizione della vicenda del dio, ma in una sofia e in una gnosi che peraltro non è priva di una certa ritualità».
Tavoletta bronzea proveniente forse da Ostia, 200 ev ca., dedicata a Sesto Pompeo Massimo, sacerdote del culto di Mithra. Il dio reca un pugnale rituale e una patera (ciotola per le offerte), British Museum. Via Wiki commons

La specificità di Mithra

I misteri del dio persiano nell’Impero romano hanno un carattere peculiare che prescinde dagli antichi culti misterici di Grecia: tutto nel mithraismo romano appartiene alla struttura misterica, tutto è fondato sull’iniziazione senza alcuna parte aperta alla celebrazione pubblica.

Eppure i misteri di Mithra poterono adempiere a una funzione che andava al di là dell’ambiente iniziatico (lo testimonia la popolarità che ebbe il culto solare), e quando ebbe assunto i caratteri dell’ufficialità divenne strumento da parte di esercito, amministrazione e notabili per dare prova di lealtà politico-religiosa agli imperatori – alcuni dei quali non nascosero l’adesione o la simpatia al culto mithriaco, come nel caso della dedica di Carnuntum posta da Diocleziano, nella quale l’imperatore chiama Mithra fautor imperii sui.

Al contrario, «i culti della Magna Mater o di Iside solo in determinati casi implicarono iniziazione esoterica e prospettive soteriologiche specifiche ed ebbero una larga parte che riguardava il culto pubblico»; inoltre Mithra era un dio straniero, di una nazione tradizionalmente nemica di Roma, dove la Magna Mater era da lungo tempo la divinità nazionale e gli dei egiziani erano ormai incardinati nel culto romano.

I culti misterici del mondo ellenistico-romano sono espressione di movimenti di dimensione sovranazionale e cosmopolita, coerenti con un’epoca in cui l’individuo e le sue aspirazioni di salvezza superano il momento nazionale e cittadino della religione antica come nei misteri di Eleusi, cura e privilegio dello stato ateniese.

«I misteri eleusini continuano ad attrarre gli aspiranti iniziandi nel celebre, unico santuario, che conosce imitazioni ma non filiali, mentre gli spelaea, le conventicole mitriache si moltiplicano a dismisura, amministrati da addetti di varia provenienza geografica e sociale» (si veda il tempio romano di Mithra a Londra, la “più grande scoperta archeologica” della capitale inglese, Museum of London) – cosa ben diversa da Eleusi dove il culto è affidato a persone di estrazione gentilizia e solo la solenne cerimonia d’autunno è gestita dallo stato e riguarda le diverse categorie della popolazione.

Non sempre, però, siamo autorizzati a supporre l’allusione a un culto effettivamente misterico, cioè implicante un’iniziazione di tipo esoterico con prospettive di salvezza, nelle iscrizioni in cui si accenna a mysteria, mystai, myesis, orgia, teletai o di miti e riti aporrhetoi, che non è lecito divulgare; non bastano gli accenni sui sarcofagi egizi, per esempio, o la famosa testimonianza di Erodoto (II 171) per supporre che nell’Egitto faraonico i riti osirici avessero il carattere di culti del mistero, perché il privilegio della beatitudine nell’aldilà era assicurato non all’individuo ancora in vita ma al morto, trasformato in Osiride, attraverso rituali funebri; nemmeno la ricca iconografia della Villa dei Misteri a Pompei può assicurare che ci si trovi di fronte a un rituale iniziatico vero e proprio piuttosto che a una immaginosa fantasia su un tema mitico-rituale. «Questi aporrheta greci, egizi o altro ancora li definiremo con l’aggettivo “mistici”, perché si riferiscono alla vicenda e alla sofferenza di un dio in un contesto di rito stagionale, senza però implicare le strutture iniziatiche e la soteriologia individuale dei misteri».

D’altra parte, è vero che i culti di Iside e Osiride, Cibele e Attis non nascondono la loro “vocazione” o predisposizione misterica, pur nella continuità con l’ethos derivante dalle loro tradizioni specifiche; già Plutarco nel cap. 27 del De Iside «fa menzione dell’istituzione da parte della dea di un rito che ricorda e raffigura le vicende sue e di Osiride a scopo di consolazione per quanti, uomini e donne, si trovassero in dolorose contingenze simili». Oppure l’inno omerico a Demetra, quando la dea rende noti e istituisce gli orgia misterici “per tutti”, e che ricorda la formula misterica di un non precisato culto riportata da Firmico Materno:

abbiate fiducia, o misti del dio salvato: anche per voi ci sarà salvezza dai dolori.

Mithra presenta una qualche continuità con il dio originario, oltre che nel nome anche in qualche termine rituale come nell’esclamazione nama o nell’iconografia e, soprattutto, nella stessa distinzione/identità tra Mithra e il Sole, che compare, con diverse modalità, a Roma e in Persia. Ma, per il resto, tutto è nuovo nel mithraismo romano, a partire dalla natura esclusivamente misterica, esoterica del culto, mentre il culto di Iside, molto radicato nel terreno delle festività popolari egizie connesse con il ciclo stagionale, poté facilmente assumere in epoca tolemaica e poi romana un significato di culto popolare vastamente praticato: Iside e Osiride, Cibele e Attis si imposero a Roma in qualità di dèi “mistici” prima che misterici, perché connessi a una vicenda di perdita e ritrovamento. Mithra invece è «privo di connotazioni mistiche in Persia, e si è venuto delineando tale solo durante il suo lungo viaggio verso Occidente».

Bassorilievo da Cizico, città greca della Misia, raffigurante una processione sacrificale a Cibele, periodo ellenistico. Via rmn.fr

Gli dei ora spenti ora luminosi

Già nel culto pubblico, come risulta per esempio dal suo santuario nel campo della Magna Mater a Ostia, Attis assume i caratteri del dio cosmico a cui si rivolgono attributi come omnipotens, mentre Osiride rimaneva piuttosto nella sua dimensione, per così dire, mortuaria. Nella speculazione mistico-filosofica, «la vicenda di Attis e degli altri dei misterici è stata posta in rapporto con la vicenda di genesis e apogennesis delle anime, sostanza divina compromessa nel mondo corporeo e quindi integrata nel mondo divino, identificato con questa solenne figura femminile nel Discorso sulla Grande Madre di Giuliano: mondo dell’eterno e dello spirito che però non dimentica le sue radici naturistico-erotiche, come risulta dalle dottrine gnostiche di coloro che identificavano sperma e pneuma».

(in E. de Faye, Gnostiques et gnosticisme. Étude critique des documents du gnosticisme chrétien aux IIe et IIIe siècles, 1925).

Il “tre volte amato Adonis”, il caro e desiderato Adonis, e il patetico Attis, morto a causa di amore e gelosia hanno il loro più antico prototipo del Dumuzi/Tammuz mesopotamico, il tenero ed egocentrico sposo oggetto di struggente nostalgia e funebre pianto, in ambivalente rapporto con la dea che è la sua sposa e l’autrice del suo triste destino.

I due personaggi sono legati da un nesso mitico-rituale; soffrono una dolorosa vicenda che li ha portati a morire miseramente, con appena qualche cenno alla loro non completa estinzione. «Adonis era “un bel morto” e uno sposo attraente, anche steso sul letto funebre in cui si era convertito il suo letto nuziale; Attis morto non si putrefaceva e i suoi capelli continuavano a crescere, e il dito mignolo a muoversi».

Poi interveniene il rito, la celebrazione annuale del dolore per la morte dei due dei e la gioia che seguiva il lutto; una vicenda stagionale e ricorrente, ma già Origene e Girolamo attribuiscono ai pagani la credenza in una resurrezione di Adonis, idea accolta con favore dalla scuola storico-religiosa tedesca con una formula che negli studi è diventata, a partire dai primi decenni del secolo scorso, di uso comune: gli “dei che muoiono e risorgono”, gli dei “ora spenti ora luminosi”.

Repetita mortis imago

Dunque il mito prevede una fine per i due personaggi divini, il rito invece prevede che ritornino stagionalmente nella celebrazione della loro vicenda di presenza-assenza, e quando tornano si coniugano con la dea di ogni fertilità accompagnando e garantendo la fecondità terrestre.

I giardini di Adone venivano piantati apposta per sfiorire malinconicamente subito dopo, a significare la rapidità e la prematurità della scomparsa del dio, morto anzitempo e senza figli; ma Adonis e Attis esistono ancora da qualche parte e non hanno cessato la loro funzione, non scompaiono anche se il baricentro della loro vicenda mitica è l’assenza. Per questo, specialmente il debole e sconfitto Attis ha acquisito verso la fine dell’antichità attributi cosmici che lo rendono il grande e potente titolare di un culto misterico.

Nella dottrina orfica e poi platonica, infine, l’uomo esiste a questo mondo per “patire i suoi Mani” (Manes), cioè per espiare un’antica colpa; questa dottrina è fondata sul dualismo della misteriosofia orfica, che avrà continuazione in uno dei dogmi centrali dello gnosticismo per cui l’uomo è frutto di un evento colposo o di un incidente primordiale avvenuto nel mondo divino, prima della creazione del mondo (diversa dal peccato originale di Adamo, già uomo).

Ancora sul finire del IV secolo, quando il cristianesimo si era già affermato da tempo, si assiste a Roma a una rinascita di stampo gentilizio dei culti dedicati alla Grande Madre (leggi anche: La fine di un mondo. Ultimi tentativi di restaurazione pagana a Roma).

Cfr. U. Bianchi, Lo studio delle religioni del mistero, in La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano, Atti del Colloquio internazionale, Roma 24-28 sett. 1979.

Ugo Bianchi (1922-1995) si è laureato nel 1944 presso “La Sapienza” di Roma in Storia delle religioni, relatore Raffaele Pettazzoni, con una tesi dal titolo Sul culto di Artemide Efesia nel I sec. d.C. ed un passo degli Atti degli Apostoli (XIX, 24-40). Inizia a interessarsi alle religioni della Grecia, del Vicino Oriente e allo zoroastrismo. Nel 1954 ottiene la libera docenza in Storia delle religioni che gli consentì di tenere nei quattro anni successivi (1955-56 e 1958-59) corsi liberi presso l’Istituto di Storia delle religioni della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma “La Sapienza”, compiendo studi sul mondo iranico ed in particolare sui sistemi dualistici del mazdeismo, dello gnosticismo e del manicheismo; ha insegnato a Messina, Bologna, Milano ed è stato dottore honoris causa presso le università di Louvain-la-Neuve (Belgio) e di Uppsala (Svezia); si è interessato alla storia religiosa del mondo antico e tardo-antico, con particolare attenzione alle tematiche del male e della salvezza. Dal 1974 al 1995 ha ricoperto la cattedra fondata da Pettazzoni nel 1923 nell’ateneo romano (M. Monaca, Ugo Bianchi e la Storia delle religioni, Aracne, Roma 2012).

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