Passa ai contenuti principali

La fine di un mondo. Ultimi tentativi di restaurazione pagana a Roma

Dai tempi della battaglia di Azio (31 a.C.), la curia del Senato romano ospitava la statua della Vittoria e un altare su cui ogni senatore, entrando, gettava granelli d’incenso. Segno visibile della protezione accordata dagli dei all’impero di Roma, tendendo le palme verso l’ara della Vittoria, all’inizio di ogni anno, i senatori rinnovavano il loro patto di fedeltà al principe. Con la cristianizzazione dei vertici imperiali, anche i simboli della religione tradizionale iniziano a correre seri pericoli: nel 357 Costanzo II, in occasione del suo primo viaggio nell’Urbe (la sede dell’imperatore era stata spostata a Milano), dà ordine di rimuovere l’altare, poi ripristinato dopo la sua partenza. Attorno a questo antico monumento, voluto da Augusto e assurto a simbolo della passata grandezza, nel 384 si svolge l’ultima battaglia ideale del paganesimo: a soli settant’anni dal cosiddetto editto di Milano, vale a dire dalla sanzione della libertà di culto per tutti, l’impero cristiano riduce drasticamente gli spazi per i culti pagani che di lì a breve, con Teodosio, saranno definitivamente proibiti.

John Singer Sargent (1856-1925), A Statue in Rome, via christies.com

Aristocrazia senatoria e reazione pagana nel Tardo impero / La fede nell’eternità di Roma / La Vittoria alata oggi / Roma capta / Splendori e miserie di una metropoli / Un’altra Roma / L’esigenza del divino / L’ultimo tentativo pagano di salvare la città / Simmaco, Relazione terza, 1-10

Aristocrazia senatoria e reazione pagana nel Tardo impero

In un periodo caratterizzato dal fenomeno sempre crescente del proselitismo cristiano e dalla sua forza destabilizzante, il breve regno di Giuliano l’Apostata (361-363, detto così per aver abiurato la fede cristiana) segna il momento più alto dei tentativi di rivincita della cultura tradizionale. All’educazione dei maestri cristiani, impostagli dal cugino Costanzo II, il giovane Giuliano preferisce la cultura tradizionale coltivando le sue letture dei maestri della filosofia greca. 

Obiettivo dell’imperatore Giuliano è quello di restaurare la tradizione religiosa classica con l’esplicita intenzione di promuovere il recupero dei valori del passato, rivisitati attraverso la sua adesione al neoplatonismo e la sua simpatia verso forme di religiosità “misticheggianti”. In concreto, il suo programma prevedeva l’abolizione dei privilegi concessi alla chiesa, stanziamenti per la ricostruzione o il restauro dei templi pagani e la proibizione, mediante specifico editto del 362, ai cristiani di svolgere attività di insegnamento. 

Questo provvedimento rispondeva alla necessità di garantire alle nuove generazioni, destinate a ricoprire ruoli di funzionari dello stato, una formazione e delle conoscenze che tenessero conto degli insegnamenti del passato. Tuttavia, le misure più restrittive volute dall’imperatore-filosofo non sono condivise da coloro, tra i pagani, che puntavano a soluzioni più diplomatiche e persuasive. 

Uno tra questi, pur essendo sincero ammiratore di Giuliano e condividendone il programma di restaurazione culturale e religiosa, è lo storico Ammiano Marcellino (330-400 ca.); greco di Antiochia, legato alla cultura e alla religione tradizionali, ha redatto l’ultima grande storia di Roma imperiale, le Rerum gestarum, di cui rimangono gli ultimi 18 libri che narrano le vicende contemporanee all’autore.

Nelle intenzioni del principe, il ritorno al paganesimo non doveva limitarsi a un recupero puramente esteriore, ma configurarsi come un movimento religioso in grado di dare risposte soddisfacenti alle esigenze individuali, sullo stesso piano del cristianesimo e in alternativa ad esso. La morte prematura di Giuliano durante una campagna contro i Parti pone termine al disegno restauratore, riconsegnando l’impero in mani cristiane.

Tutto il IV secolo e buona parte del V sono attraversati dal conflitto per l’egemonia culturale tra la nuova religione, che vuole garantirsi l’universalità, e le resistenze dell’intellettualità pagana, fino all’eliminazione degli elementi irriducibili, che non potevano essere mutuati. 

Nel 376 l’imperatore Graziano incontra a Roma papa Damaso ed è la fine della politica di tolleranza nei confronti dei pagani. Con la rinuncia dell’imperatore al titolo di pontifex maximus, conservato fino ad allora in omaggio alla tradizione, l’apparato statale ripudia formalmente le antiche tradizioni. Nel 382 Graziano emana nuovi provvedimenti antipagani tra cui la rimozione dell’altare della Vittoria, la confisca dei beni dei templi e la cessazione dei contributi di stato ai culti tradizionali. 

Nel 392 Teodosio, filocristiano intransigente, emana l’editto di Costantinopoli con cui si vieta tassativamente ogni forma di culto pagano, vincendo anche militarmente i suoi avversari: dopo la vittoria di Teodosio sul fiume Frigido, presso Gorizia, nel 395, i culti sono proibiti definitivamente.

Sotto le insegne dell’aristocrazia tradizionalista accorrono solo in minima parte le masse rurali, gli abitanti dei pagi legati al culto del passato, estranee se non ostili all’élite imperiale. Sono, per Roma e per l’Italia, anni cupi e incerti, sotto la costante minaccia delle pressioni che le popolazioni barbariche esercitavano ai confini.

La fede nell’eternità di Roma

Il regno di Giuliano l’Apostata era stato troppo breve per poter incidere efficacemente e restaurare l’egemonia culturale e religiosa del paganesimo, tuttavia attorno a lui fa in tempo a coagularsi un movimento di opposizione alla nuova religione, rinvigorendo le resistenze alla diffusione del cristianesimo. Il Senato di Roma, organo politico dell’aristocrazia che continua ad avere la sua sede nell’Urbe anche quando ragioni militari e di difesa porteranno l’imperatore a spostarsi a Milano, costituisce il punto di riferimento dei tradizionalisti.

L’ultimo grande rappresentante dell’aristocrazia senatoria pagana è Quinto Aurelio Simmaco, il quale fu praefectus Urbi nel 384-385 e console nel 391. Animato da vasti interessi e da grande ammirazione per i classici, Simmaco è anche oratore (delle sue orazioni possediamo 8 discorsi in tutto) e autore di un copioso corpus di epistole, composto da circa 900 lettere. 

Le pagine dell’Epistolario di maggior interesse sono quelle in cui Simmaco ribadisce la propria volontà di ridare vita alle usanze e ai culti tradizionali, espressione di una realtà sempre più esigua in un presente negativo e non sempre comprensibile.

Le Relationes (ne rimangono 49) sono invece discorsi ufficiali pronunciati o inviati all’imperatore nel corso della sua prefettura nell’Urbe. Una di queste, la Relatio III, contiene una commossa e intensa perorazione indirizzata nel 384 dall’aristocrazia romana a Teodosio per persuaderlo a ricollocare nella curia romana l’ara della Vittoria rimossa da Graziano. È la seconda volta che Simmaco si rivolge al sovrano: una prima ambasceria da lui guidata era stata mandata a Milano per ottenere da Graziano la revoca dell’editto del 382, ma non fu ricevuto, come lo stesso Simmaco ricorda nella Relatio III.

I toni nostalgici e appassionati per i trascorsi gloriosi di Roma, con la rievocazione degli splendori del passato, i reiterati appelli alla tolleranza non basteranno a convincere i principi regnanti (che, almeno formalmente, erano tre: Valentiniano II, di dodici anni, Teodosio I e suo figlio Arcadio di sette). La richiesta pagana non ha avuto esito positivo; grazie anche all’intervento intransigente del vescovo di Milano Ambrogio, che non dimostra spirito di conciliazione o di tolleranza, l’ara della Vittoria non tornerà più al suo posto

La Vittoria alata oggi

Durante gli scavi presso il sito dell’Ospedale militare del Celio (1885) venne rinvenuta in 119 frammenti una statua femminile in marmo grigio, acefala, drappeggiata, e fu identificata con la Vittoria; la statua, insieme ad altre, potrebbe aver fatto parte dell’arredo della Basilica Hilariana, luogo di riunione del collegio dei sacerdoti di Cibele e spiritualmente legato alla famiglia dei Simmaci. 

Ultimi esponenti del paganesimo, è verosimile che i Simmaci ricoverarono la statua nella loro casa sul Celio, dopo la sua rimozione. Oggi è esposta al Museo Civico della Centrale Montemartini a Roma (cfr. anche A. Carignani, Cent’anni dopo. Antiche scoperte e nuove interpretazioni dagli scavi all’Ospedale militare del Celio, in “Mélanges de l’école française de Rome”, 105-2, 1993, pp. 709-46).

Statua femminile cosiddetta Vittoria dei Simmaci, esposta alla Centrale Montemartini di Roma (foto mia)

Roma capta

Roma è presa. L’impero romano d’Occidente vive le sue ultime, drammatiche esperienze e assiste quasi inerte al sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico (410), dopo il quale si apre un periodo lungo circa 80 anni di guerre, rivolte, secessione delle province e invasioni. Un secondo sacco di Roma, nel 455 a opera dei Vandali, segnerà l’ultimo ventennio prima della fine. Nel 476 l’imperatore Romolo Augustolo viene deposto da Odoacre: convenzionalmente, è l’anno con cui si segna la caduta dell’impero romano d’Occidente e l’inizio dell’età medioevale.

Splendori e miserie di una metropoli

Ai primi del V secolo, alla vigilia del sacco di Alarico, Roma era una città popolosa, gravata da problemi di amministrazione e gestionali, indifesa, vulnerabile, attraversata da tensioni e contrasti sociali, ma bellissima, una meraviglia senza pari, monumentale palcoscenico per la solenne celebrazione della sua forza. 

Il volto della città di fatto comincia a cambiare, attraverso un processo che durerà per tutto il V secolo, nel 315, con l’erezione di un grande arco da parte di Costantino per celebrare la vittoria a Ponte Milvio contro il rivale Massenzio, che era avvenuta instinctu divinitatis, per volontà divina. Costantino non amava Roma, era la città dell’aristocrazia pagana, con i suoi templi millenari, popolati da demoni temibili e odiosi per un imperatore cristiano. Così, condivide la decisione dei suoi predecessori di spostare la capitale politica dell’impero, e le basi logistiche militari, a Milano, con la motivazione di essere più vicino ai confini minacciati dalle pressioni barbariche.

Roma rimane la sede del Senato. La storia sociale della città tardoantica mostra l’esistenza di rapporti di dipendenza, ma anche di solidarietà tra i gruppi nobiliari, desiderosi di mantenere una buona immagine pubblica per consolidare e mantenere il potere, e il popolo. Questo rapporto si esprime anche attraverso il rispetto della tradizione: le grandi famiglie custodivano le memorie di un passato glorioso che mantenevano in vita con fastose cerimonie e spirito di liberalità.

Un’altra Roma

La Roma cristiana intanto spingeva per affermare la sua identità, anche nella lotta per la conquista dello spazio urbano. Furono le drammatiche vicende del V secolo, i sacchi del 410 e 455, ad accelerare l’ingresso della Roma cristiana nello spazio monumentale della Roma pagana: ultimo baluardo a cadere è l’area occupata dai Fori, dal Palatino e dal Campidoglio, fino alla trasformazione degli antichi templi in chiese e basiliche, a cominciare dal Pantheon nel 609.

I Goti erano una massa immensa, un’intera popolazione che fu spinta oltre il Danubio dall’avanzata dei temutissimi e feroci Unni. In questa catastrofe “umanitaria”, la massa dei Goti raggiunge la Tracia, suscitando tensioni che sfociano nella battaglia di Adrianopoli del 378. La disfatta romana, culminata in un massacro pari solo a quello di Cannes, cambia per sempre i rapporti tra barbari e Romani e la stessa percezione che la città aveva della sua forza: per secoli, infatti, l’impero aveva fondato la sua aeternitas sull’annientamento dei suoi nemici (leggi La maledizione sulla città, formula di preghiera riportata da Macrobio nei Saturnaliorum convivia).

L’esigenza del divino

Alarico, goto di famiglia principesca, si era guadagnato sul campo il ruolo di guida. Forte della vittoria, proseguiva la sua avanzata verso l’Italia, sul Veneto e Milano, tanto che la capitale fu spostata a Ravenna. All’aumentare delle tensioni sociali corrispondeva quello dei fallimentari tentativi di mediazione. Nel 408, i Goti dilagano nella pianura friulana, attraversano il Po e puntano a Roma, capitale culturale e simbolo dell’impero d’Occidente. Nel novembre dello stesso anno sono alle porte di Roma a cingere d’assedio la città, aspettando la sua caduta per irrompere e fare razzia.

Nella disperazione collettiva, con i viveri in esaurimento, si percepisce forte il bisogno di un intervento divino. Soprattutto la popolazione pagana, che da anni sopportava l’oltraggio arrecato agli dei e all’antica fede, sente la necessità di un atto di espiazione.

L’ultimo tentativo pagano di salvare la città

Vengono allora chiamati al cospetto del prefetto, filopagano, Gabinio Barbaro Pompeiano alcuni aruspici etruschi, che avevano fama di possedere poteri straordinari. Pregavano le divinità secondo le formule e le pratiche rituali tradizionali, custodite come patrimonio ancestrale dell’antica religione, anche correndo un serio pericolo dal momento che tali pratiche erano proibite. I pagani potevano pregare e invocare in segreto le loro divinità, ma non pubblicamente: quello dei criptopagani, esistenti in tutti i livelli sociali, nascosti e silenti ma che in emergenza fanno sentire la propria richiesta di rispetto degli antichi culti, è un fenomeno che attraversa tutto il V secolo.

Per un momento la soluzione, estremo tentativo di salvezza di Roma, sembra essere condivisa da tutti,  nonostante la maggioranza della massa fosse ormai di religione cristiana. La cerimonia si sarebbe dovuta compiere pubblicamente e con il concorso dei senatori, nel luogo più pagano, il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Ma a quel punto nessuno ebbe il coraggio di parteciparvi, e, pur nelle diverse versioni, la storiografia restituisce la profonda lacerazione della città attorno a questa vicenda. 

Rinunciando pure agli antichi riti degli aruspici, nell’esasperazione dell’assedio, la città infine si piegò.

(Cfr. U. Roberto, Roma capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 100 ss. e passim.)

Alarico e il sacco di Roma del 410, via Twitter

Simmaco, Relazione terza, 1-10

(Testo, traduzione e commento in G. F. Gianotti, A. Pennacini, Società e comunicazione letteraria di Roma antica, vol. III, Loescher, Torino 1986. Il brano è riportato infra. Cfr. anche V. Del Core, Tracce di argomentazione nelle Laudationes di Simmaco a Valentiniano I, in “Ciceroniana On Line”, 2, 2022, pp. 259-79. Testi originali su DigitbLT: Quintus Aurelius Symmachus, Orationes; Epistulae; Relationes; Fragmenta.)

Al Signore Nostro Teodosio Sempre Augusto, il Chiarissimo Prefetto dell’Urbe Simmaco.

1. Appena il Senato onorevolissimo, sempre a voi fedele, apprese che le colpe sono state sottomesse alle leggi e vide che i prìncipi pii cercavano di cancellare le macchie che deturpavano la fama dei tempi recenti, imitando i modelli autorevoli di questa felice epoca, ha dato sfogo al suo dolore a lungo represso e mi incaricò di far da portavoce una seconda volta alle sue lamentele. Ad opera di malvagi mi fu negata udienza presso il defunto principe, o Signori Nostri Imperatori, per il fatto che era certo che non mi sarebbe stata rifiutata giustizia. 

2. Perciò assolvo un duplice incarico: come vostro prefetto, mi occupo delle pubbliche attività, e, come portavoce, presento alla vostra attenzione il mandato affidatomi dai miei concittadini [civium mandata]. Tra di noi non c’è alcuna divergenza di intenzioni, poiché ormai la gente ha smesso di credere che, se vi era qualche contrasto di opinioni, bastava aver l’appoggio dei cortigiani per aver la meglio. L’amore, il rispetto, l’affetto valgono più dell’autorità. Chi tollererebbe che controversie private arrechino danno allo stato? A ragione il Senato persegue chi ha anteposto la propria potenza alla gloria del principe. Tutte le nostre fatiche hanno come scopo solo quello di vegliare in difesa della Clemenza Vostra. Dalla nostra opera in difesa delle istituzioni degli antenati, delle leggi e del destino stesso della patria, chi trae maggior vantaggio se non la gloria dei tempi vostri? La quale sarà tanto maggiore, se voi comprenderete che nulla vi è permesso fare contro il costume dei padri [contra morem parentum nil licere].

3. Noi rivendichiamo dunque quello statuto della religione che a lungo fu vantaggioso allo stato. Contiamo pure gli imperatori dell’una e dell’altra religione, dell’una e dell’altra opinione: tra di essi i primi hanno praticato le cerimonie antiche, i più vicini nel tempo non le hanno abolite. Se non vale come esempio la religione dei prìncipi antichi, lo sia almeno la tolleranza dei più vicini. Chi è così amico dei barbari da non rimpiangere l’Ara della Vittoria? Prendiamo precauzioni per l’avvenire ed evitiamo presagi funesti. Sia almeno reso al nome l’onore che è negato alla divinità [Reddatur saltem nomini honor, qui numini denegatus est]. La Vostra Eternità ha molti debiti verso la Vittoria ed altri ancora ne avrà. Siano ostili al suo potere quelli che da lei non hanno ricevuto vantaggi; voi non vogliate abbandonare un patrocinio tanto favorevole ai vostri trionfi. Codesta potenza è oggetto dei voti di tutti: nessuno neghi adorazione ad una divinità, che tutti ammettono di desiderare [nemo colendam neget, quam profitetur optandam]. 

4. Se poi non si fosse ritenuto giusto evitare così funesti presagi, almeno sarebbe stato opportuno astenersi dal metter le mani su un ornamento della Curia. Permetteteci, vi supplico di lasciare in eredità, da vecchi, ai nostri successori, ciò che da fanciulli abbiamo ricevuto. L’amore per la tradizione è forte [Consuetudinis amor magnus est] giustamente il provvedimento del divino Costanzo non durò a lungo. è opportuno che voi evitiate di imitare quelle decisioni che, come ben sapete, presto furono abolite. Noi siamo in pensiero per l’eternità della vostra fama e del vostro nome onde evitare che l’età futura trovi qualcosa da correggere nel vostro comportamento.

5. Dove presteremo giuramento di fedeltà alle vostre leggi e a voi stessi? Da quale timore religioso sarà trattenuto l’animo degli spergiuri dal rendere falsa testimonianza? Certo, tutto è pieno di dio [omnia deo plena sunt, citazione di Aristotele attribuita a Talete?] e non esiste luogo sicuro per gli spergiuri: ma ha moltissima efficacia per spingere al timore di commettere colpa anche la incalzante presenza del nume. Quell’altare è la garanzia della concordia di tutti [Illa ara concordiam tenet omnium], quell’altare è il pegno della lealtà di ciascuno, né alcuna cosa diede più autorità alle nostre deliberazioni del fatto che il nostro ordine tutte le prende come se fosse impegnato da giuramento. La sede del Senato, trasformata in un luogo profano, sarà dunque aperta agli spergiuri e questo i miei incliti prìncipi riterranno degno di approvazione, loro che sono protetti da un giuramento pubblico? Ma ‒ si dirà ‒ il divino Costanzo ha preso lo stesso provvedimento.

6. Imitiamo piuttosto gli altri atti di quel principe, che non avrebbe mai intrapreso un tale disegno, se qualcuno prima di lui non avesse già commesso un errore simile. lo sbaglio di chi precede serve a mettere al riparo dall’errore chi segue e la correzione nasce dalle critiche rivolte ad un comportamento precedente. Fu lecito a quel progenitore della Clemenza Vostra non guardarsi, in una questione ancora nuova dall’impopolarità del suo provvedimento: ma sarebbe ancora possibile applicare anche a noi la stessa scusa, nel caso che imitiamo un atto di cui ci è ben nota la passata disapprovazione?

7. Accolga l’Eternità Vostra, per metterli a profitto più degnamente, altri atti di quel medesimo principe. Egli non tolse alcun privilegio alle vergini consacrate [Nihil ille decerpsit sacrarum virginum privilegiis], riempì di cariche sacerdotali i nobili. Non negò sovvenzioni ai riti romani e, seguendo il Senato festante per tutte le vie della città eterna, con placido volto guardava i templi, leggeva i nomi degli dei scritti sui frontoni, si informava sulle origini di questi templi, espresse ammirazione per chi li aveva eretti, e, per quanto egli fosse di un’altra religione, conservò questa per il bene dell’Impero.

8. Ciascuno ha infatti i propri costumi, ciascuno i propri riti [Suus enim cuique mos, suus ritus est]: la divina intelligenza ha distribuito alle città vari culti come loro protettori, come all’atto della nascita è distribuita agli uomini l’anima, così ai popoli sono assegnati i geni del loro destino [ita populis fatales genii dividuntur]. Si aggiunge poi l’utilità che è il legame più stretto tra uomo e dio. Infatti, poiché ogni spiegazione razionale del divino resta oscura, da dove più correttamente può derivare la conoscenza delle divinità che dal ricordo e dagli ammaestramenti dei passati avvenimenti prosperi? Giacché se una lunga durata dona autorevolezza alle religioni, noi dobbiamo conservare una fede vitale da tanti secoli [servanda est tot saeculis fides] e seguire l’esempio dei nostri padri, che a loro volta con buona fortuna seguirono quello dei loro.

9. Pensiamo per un momento che Roma si presenti davanti a noi e si rivolga a voi con queste parole: «Ottimi prìncipi, padri della patria, abbiate rispetto dei miei anni, ai quali sono arrivata in grazia dei miei pii riti! Lasciatemi praticare i culti aviti [utar caerimoniis avitis] perché non ho motivo di pentirmene! Lasciatemi vivere a modo mio, giacché sono libera! [Vivam meo more, quia libera sunt!] È stata questa religione a sottomettere alle mie leggi tutto il mondo, sono state queste cerimonie a respingere Annibale dalle mura, i Senoni dal Campidoglio. Dunque sono stata conservata in vita per ricevere rimproveri nella mia tarda età».

10. Vedrò in altra occasione che cosa sia in sostanza ciò che si vuole stabilire; in tutti i casi ogni tentativo di correggere la vecchiaia giunge tardivo ed è offensivo. Perciò chiediamo pace per gli dei patrii, per gli dei indigeti [Ergo diis patriis, diis indigetibus pacem rogamus; sugli indigitamenta e i nomi di divinità ivi contenuti cfr. Gli dei di Roma e il potere dei loro nomi segreti]. Credo giusto considerare rivolti ad un unico essere tutti i culti praticati dall’uomo. Osserviamo gli stessi astri, comune è il cielo, medesimo è l’universo che ci circonda. Che importanza ha se ciascuno ricerca la verità secondo un proprio criterio? Non si può giungere a così grande mistero per un solo cammino [quid interest, qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum].

in [ religione_romana ]

Commenti

Articoli correlati