Un nume misterioso era venerato a Roma, di cui non si conosceva il nome né il genere. Le formule propiziatorie lo invocano come deus ignotus, dio ignoto, diverso dagli dei incerti sul cui significato, al contrario, abbiamo notizie abbastanza esplicite (cfr. Gli dei di Roma e il potere dei loro nomi segreti). Questo nume tutelare protettore della città era legato al nome stesso di Roma, un nome sconosciuto rimasto tale lungo il corso dei secoli, perché i Romani presero ogni precauzione per mantenerlo segreto.
Lodovico Cavaleri (1867-1941), Il giardino della villa, via Mutual Art |
Genio urbis Romae / La maledizione sulla città / Modalità e forme del culto / Gli dei ignoti in Grecia / Il recinto sacro di Pan
L’altare a un dio (o una dea) sconosciuto, che si suppone essere in questo caso Aius Loquens (n. 4 in basso a sinistra), ricorda la misteriosa voce udita dai soldati romani che avvertiva dell'avvicinarsi dei Galli. In Guide to Italy and Sicily, University of Toronto, 1911. |
Genio urbis Romae
Che i Romani non attribuissero né nome né sesso a divinità protettrici dei singoli luoghi è attestato in più di una testimonianza. Le cosiddette Tavole arvaliche riportano l’invocazione:
Sive deo sive deae in cuius tutela hic locus locusque est,
rivolta a un genius loci al quale gli Arvali sacrificavano su una piccola ara ornata con decorazioni a motivi floreali e teschi di bue, e che nella parte superiore recava un serpente, immagine stessa del nume (cfr. Scavi nel bosco sacro dei Fratelli arvali, Roma 1868).
La stessa formula Catone la riporta nel De agri cultura (139 ss.) nell’enumerare le varie cerimonie che si celebravano nella conlucatio luci cioè nella consacrazione di un bosco. Così, ad esempio, quando pure un bosco sacro fosse dedicato a una divinità ben nota, tuttavia il genio di quel luogo era adorato sotto forma di divinità ignota, da cui la formula si deus, si dea es dell’antica preghiera conservataci da Catone (fonte della traduzione):
si deus, si dea es, quoium illud sacrum est, uti tibi ius est porco piaculo
facere illiusce sacri coercendi ergo harumque rerum ergo,
siue ego siue quis iussu meo fecerit, uti id recte factum (5)
siet, eius rei ergo te hoc porco piaculo immolando bonas
preces precor, uti sies uolens propitius mihi domo familiae-
que meae liberisque meis: haru[m]ce rerum ergo macte
hoc porco piaculo immolando esto.
Dio o dea che tu sia cui appartiene questo luogo sacro, come è diritto che ti sia offerto un porco in sacrificio espiatorio, perché sia violato questo luogo sacro e per queste azioni, vuoi che io, vuoi che altri per mio comando faccia ciò, perché ciò sia fatto rettamente, per questo nell’immolare questo porco in sacrificio espiatorio, con devote preghiere ti prego, perché tu sia benevolo, propizio a me, alla mia casa, ai miei servi e ai miei figli: per questi motivi ti sia gradito questo porco immolato in sacrificio espiatorio.
E al pari Gellio, in Noctes Atticae, 2, 28, riferisce che il fenomeno dei terremoti si interpretava come manifestazione di sdegno divino e si immolavano le vittime al dio protettore del luogo con la solita formula del dio ignoto: Si deo, si deae. Secondo l’esegesi mitologica di Gellio, il dio del luogo doveva essere lasciato ignoto, sia per timore di sbagliarne il nome, sia perché non si sapeva per opera di quale dio o di quale dea si muovesse la terra. Inoltre, i geni dei luoghi dovevano essere ignorati, cioè essere lasciati senza nome e identità, affinché i nemici non li propiziassero con sacrifici e offerte.
La maledizione sulla città
Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis (1)
est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique
tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto
ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca
templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis (5)
eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis,
proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis
loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique
populoque Romano militibusque meis praepositi sitis ut
sciamus intellegamusque. si ita feceritis, voveo vobis templa (10)
ludosque facturum.
Se v’è un dio o una dea sotto la cui protezione si trova il popolo e lo stato cartaginese, e te soprattutto che accogliesti sotto la tua protezione questa città e questo popolo, io prego e venero, e vi chiedo questa grazia: abbandonate il popolo e lo stato cartaginese, lasciate i loro luoghi, templi, riti e città, allontanatevi da essi e incutete al popolo e allo stato timore, paura, oblio, e venite propizi a Roma, da me e dai miei, e i nostri luoghi, templi, riti e città siano a voi più graditi e cari, e siate propizi a me, al popolo romano e ai miei soldati. Se farete ciò, in modo che sappiamo e comprendiamo, vi prometto in voto templi e giochi.
Ed è così verosimile che il genio stesso protettore di Roma fosse adorato sotto forma di ignota divinità, circondata di mistero; e pare che solo nel segreto sacerdotale gli si attribuisse un nome e che l’altro nome ignoto di Roma stessa fosse sacrilegio pronunciare. Questo carattere di segretezza potrebbe spiegare le scarne menzioni di questo genio, e quelle rare volte persino in maniera non estesa ma attraverso l’acronimo GPR, Genius Populi Romani.
Siamo dunque al Γένιος τοϋ δήμου del cui tempio, presso quello della Concordia, fa menzione Dione Cassio (47, 2 e 50, 8). I Fasti Amiternini iscrivono al 9 ottobre (VII Eid. Oct.) un sacrificio al Genius Publicus; e il catalogo viennese degli imperatori annovera tra le opere di Aureliano un tempio al Genio del Popolo. Tale divinità era quella a cui si dedicavano le maiores hostiae, e della speciale venerazione che gli era tributata fa fede questa formula imprecativa:
Quis hanc aram laeserit, habeat Genium iratum populi Romani et numina divorum.
Modalità e forme del culto
GENIO PVBLICo FAUSTAE FELICITATI VENERi VICTRici IN CAPITolioIl santuario del Genio sembra qui indicato essere sul clivio del Campidoglio e il suo simbolo potrebbe essere stato il serpente (anguis), animale terrestre e radicato, protettore dei luoghi a cui apparteneva; non poche sono le testimonianze letterarie che lo lasciano supporre, la più celebre quella di Virgilio (Eneide, V, 84) sul serpente apparso a Enea durante le cerimonie funebri del padre: Incertus geniumne loci famulumne parentis / esse putet (cfr. anche A Topographical Dictionary of Ancient Rome).
Altre prove dell'esistenza di un nume segreto di Roma collegato a questa simbologia e a questi rituali provengono dalle testimonianze artistiche, tra le quali specialmente la tavola Ercolanese in cui si vede un serpente avvolto attorno a un’ara rotonda, e che con il capo alzato sull’altare liba le offerte; accanto si legge l’iscrizione: GENIUS · HVIVS · LOCI · MONIIS (sic; montis?).
In una [faccia] è rappresentato un albero forse d’ulivo, ai cui piedi si ammira l’estremità di un gran serpe, il quale si è slanciato nell’altra faccia del pilastro, e a giri tortuosi è venuto ad avvolgersi intorno a un’ara che vi è eretta. Anche qui sorge un albero, e sull’ara che gli è contigua, sono deposti uova, frutti di pino e altri oggetti non chiaramente distinguibili. Ritto poi accanto ad essa sta il Genio familiare, avvolto il capo in bianca toga, e coi coturni ai piedi.
Un altro dipinto pompeiano, rinvenuto nel giardino di una bottega, ritrae
un gran serpe maschio che uscendo in mezzo ad arbusti, s’approssima a un’ara, su cui posano un uovo e due datteri.(Quanto al serpente che riceve le offerte o estingue il fuoco cfr. Ovidio, Fasti, II, 711: et extinctis ignibus exta rapit).
Pompei, Casa del Centenario: in basso il serpente agatodemone genius loci, indirizzato verso un altare cilindrico (via Wiki Commons) |
Sia per la rappresentazione del serpente, sia per il carattere di divinità ignorate, gli dei ignoti hanno inoltre molti rapporti di somiglianza con i Penati come numi domestici.
Gli dei ignoti in Grecia
Avendo preso animali da gregge neri e bianchi li condusse presso l’Areopago. E di là li lasciò andare dove volevano, avendo ordinato ai custodi, dove si fosse diretto ciascuno di loro, di sacrificarlo alla relativa divinità; e così (dicono) che cessò il malanno. In seguito a ciò tuttora è possibile trovare nei villaggi degli Ateniesi degli altari senza nome (βωμοὺς ἀνωνύμους), come ricordo della propiziazione che allora ebbe luogo
Lasciate libere di vagare, le pecore si sarebbero fermate a riposare dove avessero sentito la presenza del dio a cui dovevano essere immolate, e in quel luogo si sarebbe dovuto offrire un sacrificio su un’ara anonima. Così facendo, fu placato lo sdegno della divinità e la pestilenza si arrestò. Questo racconto confermerebbe la qualità del dio ignoto come dio locale, che in Grecia assume un carattere peculiare di mistero e segreto.
Il recinto sacro di Pan
La cosiddetta ara di Calvino alle pendici del Palatino, da cui siamo partiti, è stata scoperta vicino la chiesa di sant’Anastasia, all’angolo tra il Velabro e il Circo Massimo, luogo dell’antico Lupercale che in origine era un antro ricoperto di folta boscaglia e dentro vi scaturivano sorgenti dalla viva roccia; e contiguo vi era un luco (bosco) ombroso di folti e grandi alberi, nel quale era posto un altare sacro al dio Pan, e su quell’ara i Romani sacrificavano nel mese di febbraio (Dionisio, Antiquitates Romanae, I, 32).
⸺⸺
in [ religione_romana ]
Commenti
Posta un commento