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Il dio ignoto e il nome segreto di Roma

Un nume misterioso era venerato a Roma, di cui non si conosceva il nome né il genere. Le formule propiziatorie lo invocano come deus ignotus, dio ignoto, diverso dagli dei incerti sul cui significato, al contrario, abbiamo notizie abbastanza esplicite (cfr. Gli dei di Roma e il potere dei loro nomi segreti). Questo nume tutelare protettore della città era legato al nome stesso di Roma, un nome sconosciuto rimasto tale lungo il corso dei secoli, perché i Romani presero ogni precauzione per mantenerlo segreto. 

Lodovico Cavaleri (1867-1941), Il giardino della villa, via Mutual Art 

Genio urbis RomaeLa maledizione sulla città / Modalità e forme del culto / Gli dei ignoti in Grecia / Il recinto sacro di Pan

Partiamo dalle pendici del Mons Palatinus: la cosiddetta ara di Calvino, qui ritrovata, porta la seguente iscrizione:

SEI · DEO · SEI · DEIVAE · SA
C · SEXTIUS · C · F · CALVINUS · PR
DE · SENATI · SENTENTIA
RESTITVIT 
 
Questo altare, la cui sede corrisponde al tratto inferiore nella Nova via, dietro il tempio di Vesta (supra sedem Vestae, in infima Nova via), fu posto a memoria di una voce divina udita proprio in quel luogo a modo di avvertimento prima della venuta dei Galli. La formula sive mas sive feminasive deus sive dea (che tu sia una dea o un dio) dimostra che si tratta di una divinità o di un genio di cui non si conosce o di cui non si vuole indicare il sesso. 
 
Tuttavia sappiamo che il nume a cui appartiene la misteriosa voce, venerato presso un altare sul Palatino, anche se incognito, fu comunemente chiamato dai Romani Aius Loquens o Aio Locuzio, e testimonianze ne abbiamo ad esempio da Cicerone, De divinatione, 1.101.10: ara enim Aio Loquenti, quam saeptam videmus, exadversus eum locum consecrata est; e 2.69.12: ex eo Aio Loquenti aram in nova via consecratam.
 
L’ara può quindi essere stata dedicata a qualche divinità radicata in questa parte del monte che corrisponde alla costa del Palatino, fra il Velabro e il Circo, dove il cesto con i gemelli si diceva fosse approdato alla bocca del Lupercale, e dove la lupa li aveva raccolti e nutriti presso il fico ruminale
 
(Cfr. anche Il culto degli dei ignoti a Roma, in C. Pascal, Studi di antichità e mitologia, Bullettino della Commissione archeologica di Roma, Hoepli, Milano 1896.)
 
L’altare a un dio (o una dea) sconosciuto, che si suppone essere in questo caso Aius Loquens (n. 4 in basso a sinistra), ricorda la misteriosa voce udita dai soldati romani che avvertiva dell'avvicinarsi dei Galli. In Guide to Italy and Sicily, University of Toronto, 1911.

Genio urbis Romae

Che i Romani non attribuissero né nome né sesso a divinità protettrici dei singoli luoghi è attestato in più di una testimonianza. Le cosiddette Tavole arvaliche riportano l’invocazione:

Sive deo sive deae in cuius tutela hic locus locusque est,

rivolta a un genius loci al quale gli Arvali sacrificavano su una piccola ara ornata con decorazioni a motivi floreali e teschi di bue, e che nella parte superiore recava un serpente, immagine stessa del nume (cfr. Scavi nel bosco sacro dei Fratelli arvali, Roma 1868).

La stessa formula Catone la riporta nel De agri cultura (139 ss.) nell’enumerare le varie cerimonie che si celebravano nella conlucatio luci cioè nella consacrazione di un bosco. Così, ad esempio, quando pure un bosco sacro fosse dedicato a una divinità ben nota, tuttavia il genio di quel luogo era adorato sotto forma di divinità ignota, da cui la formula si deus, si dea es dell’antica preghiera conservataci da Catone (fonte della traduzione):

si deus, si dea es, quoium illud sacrum est, uti tibi ius est porco piaculo
facere illiusce sacri coercendi ergo harumque rerum ergo,
siue ego siue quis iussu meo fecerit, uti id recte factum (5)
siet, eius rei ergo te hoc porco piaculo immolando bonas
preces precor, uti sies uolens propitius mihi domo familiae-
que meae liberisque meis: haru[m]ce rerum ergo macte
hoc porco piaculo immolando esto.
Dio o dea che tu sia cui appartiene questo luogo sacro, come è diritto che ti sia offerto un porco in sacrificio espiatorio, perché sia violato questo luogo sacro e per queste azioni, vuoi che io, vuoi che altri per mio comando faccia ciò, perché ciò sia fatto rettamente, per questo nell’immolare questo porco in sacrificio espiatorio, con devote preghiere ti prego, perché tu sia benevolo, propizio a me, alla mia casa, ai miei servi e ai miei figli: per questi motivi ti sia gradito questo porco immolato in sacrificio espiatorio.

E al pari Gellio, in Noctes Atticae, 2, 28, riferisce che il fenomeno dei terremoti si interpretava come manifestazione di sdegno divino e si immolavano le vittime al dio protettore del luogo con la solita formula del dio ignoto: Si deo, si deae. Secondo l’esegesi mitologica di Gellio, il dio del luogo doveva essere lasciato ignoto, sia per timore di sbagliarne il nome, sia perché non si sapeva per opera di quale dio o di quale dea si muovesse la terra. Inoltre, i geni dei luoghi dovevano essere ignorati, cioè essere lasciati senza nome e identità, affinché i nemici non li propiziassero con sacrifici e offerte. 

La maledizione sulla città

Allo stesso modo, a conferma del carattere locale degli dei ignoti, ricordiamo la formula di preghiera che i Romani recitavano nell’attaccare una città (riportata da Macrobio, Saturnaliorum convivia, III, 9, 3 ss.), dove si cerca di evocare dal suo luogo la divinità protettrice, e le si promettono a Roma giochi, templi e onori. Ecco la formula usata per evocare gli dei quando si cinge d’assedio una città:
Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis (1)
est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique
tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto
ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca
templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis (5)
eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis,
proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis
loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique
populoque Romano militibusque meis praepositi sitis ut
sciamus intellegamusque. si ita feceritis, voveo vobis templa (10)
ludosque facturum.
Se v’è un dio o una dea sotto la cui protezione si trova il popolo e lo stato cartaginese, e te soprattutto che accogliesti sotto la tua protezione questa città e questo popolo, io prego e venero, e vi chiedo questa grazia: abbandonate il popolo e lo stato cartaginese, lasciate i loro luoghi, templi, riti e città, allontanatevi da essi e incutete al popolo e allo stato timore, paura, oblio, e venite propizi a Roma, da me e dai miei, e i nostri luoghi, templi, riti e città siano a voi più graditi e cari, e siate propizi a me, al popolo romano e ai miei soldati. Se farete ciò, in modo che sappiamo e comprendiamo, vi prometto in voto templi e giochi.
A queste parole, aggiunge Macrobio, bisogna far seguire immolazione di vittime e consultazione di visceri per ottenerne assicurazione. Quando poi la città è conquistata e sconfitta, i generali e i dictatores possono pronunciare una maledizione sulla città e sugli eserciti, invocando “Padre Dite, Veiove, Mani o con qualsiasi altro nome sia lecito nominarvi” (Dis pater, Veiovis, Manes, sive vos quo alio nomine fas est nominare). 
 
Questo è anche motivo, prosegue Macrobio, per cui i Romani vollero che il dio ignoto sotto cui è posta la protezione di Roma rimanesse nascosto, e con lui il nome latino della città stessa. Gli autori antichi sembrano essere discordi su quale fosse questo nome: alcuni lo credettero Giove, altri Lua, antica divinità italica cui spettavano le spoglie dei nemici vinti (ma i codici riportano Lunam...), altri Angerona, che con un dito sulla bocca indica il silenzio, altri ancora Ope Consivia. 
 
In realtà, il nome della città è sconosciuto persino ai dotti perché i Romani presero ogni precauzione per mantenerlo segreto: volevano evitare, in caso di divulgazione del nume tutelare, di dover subire, in seguito ad evocazione da parte dei nemici, ciò che sapevano di aver fatto spesso nei confronti delle città nemiche (cfr. Macrobio Teodosio, I Saturnali, a cura di N. Marinone, Utet, Torino, ed. e-book 2013; vedi anche Carmen evocationis, 1).
 
Secondo i Romani, insomma, tutte le città si trovavano sotto la protezione di un dio, ed era “antica e sacra usanza”, segreta e sconosciuta a molti, che, quando assediavano una città nemica e confidavano di poterla conquistare, ne chiamassero fuori gli dei protettori con una determinata formula di evocazione. Questo perché, altrimenti, i Romani non avrebbero potuto conquistare la città o, se anche vi fossero riusciti, avrebbero considerato un sacrilegio prendere prigionieri gli dei. 

Ed è così verosimile che il genio stesso protettore di Roma fosse adorato sotto forma di ignota divinità, circondata di mistero; e pare che solo nel segreto sacerdotale gli si attribuisse un nome e che l’altro nome ignoto di Roma stessa fosse sacrilegio pronunciare. Questo carattere di segretezza potrebbe spiegare le scarne menzioni di questo genio, e quelle rare volte persino in maniera non estesa ma attraverso l’acronimo GPR, Genius Populi Romani.

Siamo dunque al Γένιος τοϋ δήμου del cui tempio, presso quello della Concordia, fa menzione Dione Cassio (47, 2 e 50, 8). I Fasti Amiternini iscrivono al 9 ottobre (VII Eid. Oct.) un sacrificio al Genius Publicus; e il catalogo viennese degli imperatori annovera tra le opere di Aureliano un tempio al Genio del Popolo. Tale divinità era quella a cui si dedicavano le maiores hostiae, e della speciale venerazione che gli era tributata fa fede questa formula imprecativa:
Quis hanc aram laeserit, habeat Genium iratum populi Romani et numina divorum.

Modalità e forme del culto

Il 9 ottobre è quindi indicato nel calendario Amiternino come il giorno della festa al Genio Pubblico di Roma insieme a Felicitas e a Venus Victrix:
GENIO PVBLICo FAUSTAE FELICITATI VENERi VICTRici IN CAPITolio
Il santuario del Genio sembra qui indicato essere sul clivio del Campidoglio e il suo simbolo potrebbe essere stato il serpente (anguis), animale terrestre e radicato, protettore dei luoghi a cui apparteneva; non poche sono le testimonianze letterarie che lo lasciano supporre, la più celebre quella di Virgilio (Eneide, V, 84) sul serpente apparso a Enea durante le cerimonie funebri del padre: Incertus geniumne loci famulumne parentis / esse putet (cfr. anche A Topographical Dictionary of Ancient Rome).

Altre prove dell'esistenza di un nume segreto di Roma collegato a questa simbologia e a questi rituali provengono dalle testimonianze artistiche, tra le quali specialmente la tavola Ercolanese in cui si vede un serpente avvolto attorno a un’ara rotonda, e che con il capo alzato sull’altare liba le offerte; accanto si legge l’iscrizione: GENIUS · HVIVS · LOCI · MONIIS (sic; montis?). 
 
Importanti sono poi le pitture pompeiane con il serpente e l’altare, accompagnate da questo commento nel “Giornale degli scavi di Pompei” (2, 1870, n. 13, pp. 45 e 47) a proposito di tre dipinti rappresentati su altrettante facce di un pilastro rinvenuto in una bottega:
In una [faccia] è rappresentato un albero forse d’ulivo, ai cui piedi si ammira l’estremità di un gran serpe, il quale si è slanciato nell’altra faccia del pilastro, e a giri tortuosi è venuto ad avvolgersi intorno a un’ara che vi è eretta. Anche qui sorge un albero, e sull’ara che gli  è contigua, sono deposti uova, frutti di pino e altri oggetti non chiaramente distinguibili. Ritto poi accanto ad essa sta il Genio familiare, avvolto il capo in bianca toga, e coi coturni ai piedi.

 Un altro dipinto pompeiano, rinvenuto nel giardino di una bottega, ritrae

un gran serpe maschio che uscendo in mezzo ad arbusti, s’approssima a un’ara, su cui posano un uovo e due datteri.
(Quanto al serpente che riceve le offerte o estingue il fuoco cfr. Ovidio, Fasti, II, 711: et extinctis ignibus exta rapit).
 
Pompei, Casa del Centenario: in basso il serpente agatodemone genius loci, indirizzato verso un altare cilindrico (via Wiki Commons)

Sia per la rappresentazione del serpente, sia per il carattere di divinità ignorate, gli dei ignoti hanno inoltre molti rapporti di somiglianza con i Penati come numi domestici. 
 
Non sappiamo se anche il Genio del popolo romano fosse simboleggiato da una serpe, tuttavia in alcune monete, accanto alle lettere “G · P · R”, si vede il busto diademato del Genius Populi Romani e, sulla fronte del busto, quello che alcuni autori hanno interpretato come una fascia, altri un serpente avvolto tra i capelli, divenuto suo attributo quando la figura di questo Genio pubblico iniziò a essere rappresentata come tipo umano (F. Gatti, Trovamenti riguardanti la topografia e la epigrafia urbana, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, 1895, p. 130).

Gli dei ignoti in Grecia

La pratica rituale degli altari agli dei ignoti (ἀγνώστοι θηόι) è conosciuta anche in Grecia e particolarmente ad Atene. Ne accenna ad esempio Tertulliano (Contro Marcione, 1.9.2: «Invenio plane ignotis Diis aras prostitutas, sed Attica idolatria est»). In Pausania occorrono due volte: nella prima (Descrizione della Grecia, 1, 1, 4) indica l’ubicazione delle are agli dei ignoti nel porto di Falero, oltre il tempio di Demetra, l’edicola di Atena e il tempio di Giove... mentre nella seconda parla di un altare agli dei ignoti a Olimpia. 
 
Il carattere proprio di queste divinità in Grecia viene descritto da Diogene Laerzio (Vita di Epimenide cretese): ad Atene infieriva una pestilenza e, dopo aver consultato la Pizia, fu mandato a chiamare Epimenide perché purificasse la città:
Avendo preso animali da gregge neri e bianchi li condusse presso l’Areopago. E di là li lasciò andare dove volevano, avendo ordinato ai custodi, dove si fosse diretto ciascuno di loro, di sacrificarlo alla relativa divinità; e così (dicono) che cessò il malanno. In seguito a ciò tuttora è possibile trovare nei villaggi degli Ateniesi degli altari senza nome (βωμοὺς ἀνωνύμους), come ricordo della propiziazione che allora ebbe luogo

Lasciate libere di vagare, le pecore si sarebbero fermate a riposare dove avessero sentito la presenza del dio a cui dovevano essere immolate, e in quel luogo si sarebbe dovuto offrire un sacrificio su un’ara anonima. Così facendo, fu placato lo sdegno della divinità e la pestilenza si arrestò. Questo racconto confermerebbe la qualità del dio ignoto come dio locale, che in Grecia assume un carattere peculiare di mistero e segreto.

Il recinto sacro di Pan

Gli dei ignoti degli Ateniesi devono dunque interpretarsi come Geni topici; allo stesso modo, presso i Romani, questi Geni locali avevano il carattere di divinità ignote, come dimostrano le formule usate per designarli. Anche il Genio protettore di Roma aveva il carattere di dio ignoto, e a questo carattere si collegherebbe la leggenda del secondo nome, segreto e misterioso, di Roma.

La cosiddetta ara di Calvino alle pendici del Palatino, da cui siamo partiti, è stata scoperta vicino la chiesa di sant’Anastasia, all’angolo tra il Velabro e il Circo Massimo, luogo dell’antico Lupercale che in origine era un antro ricoperto di folta boscaglia e dentro vi scaturivano sorgenti dalla viva roccia; e contiguo vi era un luco (bosco) ombroso di folti e grandi alberi, nel quale era posto un altare sacro al dio Pan, e su quell’ara i Romani sacrificavano nel mese di febbraio (Dionisio, Antiquitates Romanae, I, 32). 
 
Identificando Pan con Fauno, i Romani designarono con quest’ultimo nome il dio del Lupercale. Anche quando un bosco o un luogo era consacrato a una divinità, vi si adorava però distintamente, e in forma di ignoto nume, il Genio del luogo; del resto, questa adorazione di un dio ignoto in un recinto sacro a Pan non sarebbe esclusiva di Roma perché ad Atene, nel recinto sacro a Pan, vi era un’ara a un dio ignoto. 
 
Ecumenio, commentando un passo di Paolo (Comment. in Acta Apostol., cap. XXVI), racconta che Filippide era stato mandato dagli Ateniesi presso i Lacedemoni per chiedere aiuto contro i Persiani; gli si presentò Pan, lamentandosi degli scarsi onori che gli venivano tributati, e subito ad Atene dopo la vittoria gli fu eretto un altare e accanto un altare al dio ignoto, temendo che vi fosse qualche altro dio dimenticato, pure degno dei loro onori. Tuttavia, tanto su suolo greco quanto su quello romano, si ignora per quali rapporti si sia congiunto il culto di Pan con quello del dio ignoto.

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