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Eìs Apóllona, inno omerico ad Apollo

La descrizione di Apollo richiede stile sublime: un’elevazione al di sopra di tutto ciò che è umano. La citazione è di Winckelmann ed è riportata da Walter Otto (Gli dei della Grecia, 1944) il quale, a proposito del luminoso figlio di Zeus, scrive: «Apollo accanto a Zeus è il dio greco più significativo [...], è impossibile immaginare che egli possa comparire senza dar prova della sua superiorità». Le sue manifestazioni sono grandiose, la sua voce risuona con la maestà di un tuono e chi lo incontra non solo ne è intimamente scosso, ma risente nella sua potenza tutta la caducità dell’esistenza terrena.

Il cosiddetto Apollo Omphalos con le fattezze di Antinoo, copia romana del 130 d.C. ca, via Wiki Commons

Misterioso, inavvicinabile / Febo il puro / Εἲς Ἀπόλλωνα Δήλιον, ad Apollo Delio / Εἲς Ἀπόλλωνα Πύθιον, ad Apollo Pitico (o Pizio) / Sulle nevi del Parnaso / Invocatemi con il nome di Delfinio / Riepilogo sugli epiteti di Apollo nell’inno omerico

Misterioso, inavvicinabile

Iconicamente la raffigurazione classica più appropriata, secondo Otto, è la statua in marmo di Apollo sul frontone occidentale del tempio di Zeus ad Olimpia (471-456 ca., ora custodito al Museo archeologico di Olimpia), e ce ne fornisce un’appassionata descrizione. Il dio compare all’improvviso tra la folla in tumulto e tende un braccio per intimare la tregua: è un giovane uomo nel suo pieno fiorire, una chioma “aurea” di ricci che incorniciano un volto dai lineamenti nobili e virili, labbra forti e ben disegnate, e i grandi occhi, dai quali traspare un tratto quasi malinconico, «imperano con la sublimità della pura contemplazione». 

Apollo irrompe con il suo maestoso contegno nel mezzo della brutalità umana. La sua collera è terribile, come annuncia Omero nelle prime battute dell’Iliade, quando, invocato dall’accorata preghiera del sacerdote Crise, lo vediamo scendere dall’Olimpo avanzando in preda all’ira, simile alla notte (ὃ δ᾽ ἤϊε νυκτὶ ἐοικώς, 1, 47).

Febo il puro

Non è un caso, osserva infatti Otto, che l’arte figurativa non lo rappresenta mai seduto ma sempre in piedi o nell’atto di camminare. Arciere infallibile, come la sorella Artemide ama la solitudine e con lei condivide l’assoluta libertà. Ed è proprio dell’indole di Apollo lo stare in disparte: in molte sedi di culto a lui dedicate (Delfi, Delo) si riteneva che nei mesi invernali si ritirasse in luoghi inaccessibili, chiamati Iperborei, dove né nave né viandante può approdare (Pindaro, Pitica 10, 29) e dove vive un popolo fatato che non muore, non invecchia, non soffre. Così Apollo tornava ogni anno, accompagnato dai suoi cigni e salutato dagli inni sacri, portando canti e vaticini

Questo suo allontanarsi sarebbe un tratto estremamente tipico della personalità apollinea: non è un dio “immediato” ma distaccato, consapevole, avveduto, misurato e ordinato, custode della purezza e maestro di purificazione (in questo aspetto si innesta il suo ruolo di guaritore, padre del dio medico Asclepio), sapiente e giusto, non accompagna nessun eroe restandogli affianco nella battaglia, e i suoi eletti non sono mai uomini d’azione.

Apollo “mortalmente puro”, come lo definisce Kerényi, figlio di Zeus e Latona dai bei capelli, partorito nell’isola ionica di Delo, quando da ogni parte le nere onde battevano la spiaggia al soffio fischiante dei venti... Omero negli Inni ci informa di un nuovo giovane dio che lotta vittoriosamente per la conquista dell’Olimpo, nel kosmos disegnato da Zeus come campo d’azione per i suoi figli, e imporre le giuste τιμαί (le feste per onorare gli dei).

L’inno omerico ad Apollo ha una natura composita e racconta la nascita del dio a Delo “la rocciosa”, antichissima sede di un santuario, e l’istituzione delle feste Delie, quindi il suo arrivo a Delfi, in terra attica, e la fondazione dell’oracolo. Tra i due centri, se non contrapposizione, esisterà sempre una reciproca alterità. Lo stesso inno può infatti dividersi in due parti.

Traduzione e note in G. Zanetto, Inni omerici, Bur, Milano 2000 (2ª ed.).

Εἲς Ἀπόλλωνα Δήλιον, ad Apollo Delio

La prima parte dell’inno è dedicata ad Apollo Delio (vv. 1-178), chiamato così dalla rocciosa isola sulla quale Latona lo diede alla luce. I primi versi ritraggono una scena “celeste”: vi viene descritto l’arrivo di Apollo nella casa di Zeus e il suo accoglimento nel consesso degli dei, presso i quali riceve anche offerte di cibo («nettare in una coppa d’oro», v. 10). 

È la comparsa di un nuovo arrivato, un dio nuovo, cioè aggiunto alle divinità preesistenti, e quindi l’affermazione del nuovo culto. Questa prima parte contiene il proemio all’inno vero e proprio (vv. 20-24):

πάντη γάρ τοι, Φοῖβε, νόμοι βεβλήατ᾽ ἀοιδῆς,
ἠμὲν ἀν᾽ ἤπειρον πορτιτρόφον ἠδ᾽ ἀνὰ νήσους:
πᾶσαι δὲ σκοπιαί τοι ἅδον καὶ πρώονες ἄκροι
ὑψηλῶν ὀρέων ποταμοί θ᾽ ἅλαδε προρέοντες
ἀκταί τ᾽ εἰς ἅλα κεκλιμέναι λιμένες τε θαλάσσης.
Dovunque infatti per te c’è terreno di gloria, Febo,
sia sulla terraferma che nutre vitelle sia nelle isole.
Ti sono care tutte le rupi e le alte vette
dei monti eccelsi, e i fiumi che corrono al mare
e le scogliere a strapiombo e i golfi marini.

Il motivo per cui si dice che ad Apollo sono care le rocce e le scogliere va forse rintracciato nella stessa potenza della sua natura, lungisaettante, che si vede da lontano, così come le cime dei monti e le insenature del mare. Su questa immagine il poeta tornerà più avanti, ai vv. 143-145:

πολλοί τοι νηοί τε καὶ ἄλσεα δενδρήεντα:
πᾶσαι δὲ σκοπιαί τε φίλαι καὶ πρώονες ἄκροι
ὑψηλῶν ὀρέων ποταμοί θ᾽ ἅλαδε προρέοντες.
Molti templi ti sono cari, e boschi ricchi
di alberi, tutte le rupi e le alte vette
dei monti eccelsi, e i fiumi che corrono al mare.

Quindi viene descritta la felice nascita del dio (vv. 119-122):

ἐκ δ᾽ ἔθορε πρὸ φόωσδε: θεαὶ δ᾽ ὀλόλυξαν ἅπασαι.
ἔνθα σέ, ἤιε Φοῖβε, θεαὶ λόον ὕδατι καλῷ
ἁγνῶς καὶ καθαρῶς, σπάρξαν δ᾽ ἐν φάρεϊ λευκῷ,
λεπτῷ, νηγατέῳ: περὶ δὲ χρύσεον στρόφον ἧκαν.
il dio uscì fuori alla luce, e le dee gridarono tutte.
Allora, Febo arciere, le dee ti lavarono con acqua limpida,
secondo il rito purificatorio, e ti avvolsero in un drappo bianco,
sottile e intatto: intorno posero un nastro d’oro.

Nel presentarsi agli immortali, Apollo descrive i suoi attributi fondamentali: l’arco, la cetra e la competenza oracolare, mentre in questo contesto ne sono taciuti altri, non meno importanti, come la funzione purificatrice e guaritrice (vv. 131-132):

εἴη μοι κίθαρίς τε φίλη καὶ καμπύλα τόξα,
χρήσω δ᾽ ἀνθρώποισι Διὸς νημερτέα βουλήν.
Saranno mia prerogativa la cetra e l’arco ricurvo,
e vaticinerò agli uomini l’infallibile volontà di Zeus.

Εἲς Ἀπόλλωνα Πύθιον, ad Apollo Pitico (o Pizio)

Conclusa la sezione “delia”, inizia la seconda parte del lungo e articolato inno (vv. 179-546), detta “pitica” perché racconta dell’arrivo delle navi cretesi sulle sponde del Peloponneso, nel golfo di Crisa, verso il luogo ove verrà fondato uno tra i suoi santuari più famosi: è un passaggio dal mito al rito.

Questa seconda parte è strutturata come la prima, con l’ingresso del dio nell’Olimpo, stavolta non imbracciando il terribile arco, ma la cetra dispensatrice di gioia (vv. 182-188):

εἶσι δὲ φορμίζων Λητοῦς ἐρικυδέος υἱὸς
φόρμιγγι γλαφυρῇ πρὸς Πυθὼ πετρήεσσαν,
ἄμβροτα εἵματ᾽ ἔχων τεθυωμένα: τοῖο δὲ φόρμιγξ
χρυσέου ὑπὸ πλήκτρου καναχὴν ἔχει ἱμερόεσσαν.
ἔνθεν δὲ πρὸς Ὄλυμπον ἀπὸ χθονός, ὥστε νόημα,
εἶσι Διὸς πρὸς δῶμα θεῶν μεθ᾽ ὁμήγυριν ἄλλων.
αὐτίκα δ᾽ ἀθανάτοισι μέλει κίθαρις καὶ ἀοιδή. 
Il figlio della nobile Leto avanza verso Pito
rocciosa, suonando la sua concava cetra.
Ha indosso vesti immortali, odorose; la sua cetra,
colpita dal plettro d’oro, manda un suono incantevole.
Poi, rapido come il pensiero, sale dalla terra all’Olimpo,
alla casa di Zeus, fra la folla degli altri dei,
e subito gli immortali sono attratti dalla cetra e dal canto.
Statuetta in avorio, riproduzione in miniatura dell’Apollo Liceo di Prassitele, Museo dell’antica agorà di Atene, via Wiki Commons

Va così in scena una festa divina, con la musica di Apollo e il canto delle Muse come intrattenimento, simbolo stesso della serenità beata in cui consiste il privilegio degli dei (vv. 189-201):

Μοῦσαι μέν θ᾽ ἅμα πᾶσαι ἀμειβόμεναι ὀπὶ καλῇ
ὑμνεῦσίν ῥα θεῶν δῶρ᾽ ἄμβροτα ἠδ᾽ ἀνθρώπων
τλημοσύνας, ὅσ᾽ ἔχοντες ὑπ᾽ ἀθανάτοισι θεοῖσι
ζώουσ᾽ ἀφραδέες καὶ ἀμήχανοι, οὐδὲ δύνανται
εὑρέμεναι θανάτοιό τ᾽ ἄκος καὶ γήραος ἄλκαρ:
αὐτὰρ ἐυπλόκαμοι Χάριτες καὶ ἐύφρονες Ὧραι
Ἁρμονίη θ᾽ Ἥβη τε Διὸς θυγάτηρ τ᾽ Ἀφροδίτη
ὀρχεῦντ᾽ ἀλλήλων ἐπὶ καρπῷ χεῖρας ἔχουσαι:
τῇσι μὲν οὔτ᾽ αἰσχρὴ μεταμέλπεται οὔτ᾽ ἐλάχεια,
ἀλλὰ μάλα μεγάλη τε ἰδεῖν καὶ εἶδος ἀγητή,
Ἄρτεμις ἰοχέαιρα ὁμότροφος Ἀπόλλωνι.
ἐν δ᾽ αὖ τῇσιν Ἄρης καὶ ἐύσκοπος Ἀργειφόντης
παίζουσ᾽.
Le Muse intonano un coro con la loro voce soave
e cantano i privilegi immortali degli dei e le sventure
che gli dei immortali riservano agli uomini
(così essi vivono ignari e inermi, e non sanno
trovare rimedio alla morte e protezione contro la vecchiaia).
E intanto le Cariti ricciute e le Ore piene d’allegria
e Armonia e Ebe e Afrodite, figlia di Zeus,
danzano insieme tenendosi per mano.
E in mezzo a loro canta Artemide saettatrice,
sorella di Apollo, senza sfigurare affatto,
perché ha una figura slanciata e un aspetto splendido.
Fra loro danzano Ares e l’Arghifonte dall’acuta vista.

Apollo danza tra gli dei immortali, ed è una gioia per la vista della madre Latona e del padre Zeus. Il “lampeggiare” dei suoi piedi è un riferimento alla danza (vv. 201-203):

αὐτὰρ ὁ Φοῖβος Α᾽πόλλων ἐγκιθαρίζει
καλὰ καὶ ὕψι βιβάς: αἴγλη δέ μιν ἀμφιφαείνει
μαρμαρυγαί τε ποδῶν καὶ ἐυκλώστοιο χιτῶνος.
Febo Apollo suona la cetra, muovendosi
a ritmo, con passi marcati; un bagliore gli irradia intorno,
lampeggiano i piedi e il chitone ben tessuto.

L’itinerario seguito da Apollo è quello che va dall’Olimpo a Delfi attraverso la Tessaglia, la Magnesia, l’Eubea, la Beozia e la Focide. 

Passando per Onchesto, località della Beozia, il poeta fa riferimento anche a un’offerta rituale in onore di Posidone, che lì possedeva un famoso santuario (Ποσιδήιον ἀγλαὸν ἄλσος, v. 230) e un bosco sacro in cima a un colle, l’unica fonte in realtà che parla di questa cerimonia («un antichissimo rito», v. 237) forse riconducibile alla dedica al dio del carro vincitore della corsa dei cavalli. Un carro tirato da puledri da poco domati veniva lasciato attraversare il bosco senza auriga; se il cocchio, urtando contro gli alberi, si spezzava, era offerto in dono al dio, che evidentemente gradiva il sacrificio (vv. 231-238):

ἔνθα νεοδμὴς πῶλος ἀναπνέει ἀχθόμενός περ
ἕλκων ἅρματα καλά: χαμαὶ δ᾽ ἐλατὴρ ἀγαθός περ
ἐκ δίφροιο θορὼν ὁδὸν ἔρχεται: οἳ δὲ τέως μὲν
κείν᾽ ὄχεα κροτέουσι ἀνακτορίην ἀφιέντες.
235εἰ δέ κεν ἅρματ᾽ ἀγῇσιν ἐν ἄλσεϊ δενδρήεντι,
ἵππους μὲν κομέουσι, τὰ δὲ κλίναντες ἐῶσιν:
ὣς γὰρ τὰ πρώτισθ᾽ ὁσίη γένεθ᾽: οἳ δὲ ἄνακτι
εὔχονται, δίφρον δὲ θεοῦ τότε μοῖρα φυλάσσει.
qui il puledro da poco domato rifiata, mentre tira
il peso del bel carro, e l’abile auriga salta
a terra dal cocchio e prosegue a piedi; e i cavalli intanto
strappano il carro vuoto, liberi dalla guida.
Se il cocchio si rompe nel bosco fitto di alberi,
lo abbandonano lì, piegato, e si occupano dei cavalli:
così vuole l’antichissimo rito. Gli uomini invocano
la divinità, e il carro diventa proprietà del dio.

(Vedi la mappa del il santuario di Delfi su Pleiades

Nel suo viaggio verso Delfi c’è posto per un’altra digressione, l’episodio della ninfa Telfusa, abitante dell’omonima fonte che scaturiva a nord, in Beozia, e presso cui sorgeva un tempio ad Apollo. Il ruolo di Telfusa è enigmatico: dapprima ella spinge Apollo a fondare il santuario di Delfi (vv. 269-274):

ἐν Κρίσῃ ποίησαι ὑπὸ πτυχὶ Παρνησοῖο.
ἔνθ᾽ οὔθ᾽ ἅρματα καλὰ δονήσεται οὔτε τοι ἵππων
ὠκυπόδων κτύπος ἔσται ἐύδμητον περὶ βωμόν,
ἀλλά τοι ὣς προσάγοιεν Ἰηπαιήονι δῶρα
ἀνθρώπων κλυτὰ φῦλα: σὺ δὲ φρένας ἀμφιγεγηθὼς
δέξαι᾽ ἱερὰ καλὰ περικτιόνων ἀνθρώπων.
costruisci il tempio a Crisa, in un anfratto del Parnaso.
Là non ci sarà lo strepito dei bei carri, e presso l’altare
massiccio non si udrà lo scalpitio dei cavalli impetuosi.
Così a te, o Peana, i gloriosi popoli della terra
porteranno doni, e tu godrai nei tuo cuore
accogliendo le sacre offerte delle genti vicine.

Salvo poi scoprire che quello di Telfusa è un inganno, poiché in realtà voleva tutta la gloria per sé. Per questo Telfusa verrà punita, e la corrente sotterrata sotto una frana di rupi.

Sulle nevi del Parnaso

Apollo giunge a Crisa, sul versante meridionale del monte Parnaso, dove il dio esprime l’intenzione di fondare un tempio e un oracolo (vv. 287-293):

ἐνθάδε δὴ φρονέω τεῦξαι περικαλλέα νηὸν
ἔμμεναι ἀνθρώποις χρηστήριον, οἵτε μοι αἰεὶ
ἐνθάδ᾽ ἀγινήσουσι τεληέσσας ἑκατόμβας,
290ἠμὲν ὅσοι Πελοπόννησον πίειραν ἔχουσιν,
ἠδ᾽ ὅσοι Εὐρώπην τε καὶ ἀμφιρύτας κατὰ νήσους,
χρησόμενοι: τοῖσιν δ᾽ ἄρ᾽ ἐγὼ νημερτέα βουλὴν
πᾶσι θεμιστεύοιμι χρέων ἐνὶ πίονι νηῷ.
Qui io intendo fondare un bellissimo tempio
che serva da oracolo per gli uomini, i quali sempre
mi porteranno qui perfette ecatombi.
Tutti verranno a interrogarmi, quanti abitano
sia il Peloponneso fecondo sia l’Europa e le isole
cinte dal mare. A tutti loro io darò consigli
veritieri, vaticinando nel ricco tempio.
Apollo su un trono con indosso una corona di mirto o alloro, kylix attica da una tomba di Delfi, forse di un sacerdote, via Wiki Commons

Non prima, però, di aver sconfitto la dragonessa (δράκαινα) che viveva lì vicino, presso una limpida fonte, a cui era stato affidato il terribile e funesto Tifone (vv. 302-304):

ζατρεφέα, μεγάλην, τέρας ἄγριον, ἣ κακὰ πολλὰ
ἀνθρώπους ἔρδεσκεν ἐπὶ χθονί, πολλὰ μὲν αὐτούς,
πολλὰ δὲ μῆλα ταναύποδ᾽, ἐπεὶ πέλε πῆμα δαφοινόν.
grande mostro selvaggio e vorace,
che faceva molti mali agli uomini sopra la terra, danneggiando sia loro
sia le agili mandrie, poiché era un flagello sanguinario.

L’uccisione del serpente-drago è un dettaglio assolutamente necessario e irrinunciabile del mito di fondazione di Delfi: Apollo deve sconfiggere il mostro che vi dimora per ottenere il controllo sul territorio, è la nuova divinità olimpica che si sostituisce alla vecchia dea ctonia, rappresentata dalla Terra. L’esultanza di Apollo dopo la sconfitta della dragonessa ha il tono severo di una formula di maledizione (vv. 363-369):

ἐνταυθοῖ νῦν πύθευ ἐπὶ χθονὶ βωτιανείρῃ:
οὐδὲ σύ γε ζώουσα κακὸν δήλημα βροτοῖσιν
ἔσσεαι, οἳ γαίης πολυφόρβου καρπὸν ἔδοντες
ἐνθάδ᾽ ἀγινήσουσι τεληέσσας ἑκατόμβας:
οὐδέ τί τοι θάνατόν γε δυσηλεγέ᾽ οὔτε Τυφωεὺς
ἀρκέσει οὔτε Χίμαιρα δυσώνυμος, ἀλλά σέ γ᾽ αὐτοῦ
πύσει Γαῖα μέλαινα καὶ ἠλέκτωρ Ὑπερίων.
Rimani qui a marcire ora, sulla terra feconda,
non sarai più un flagello per gli uomini mortali,
che mangiano il frutto della terra generosa.
Essi porteranno qui perfette ecatombi,
e a te non eviteranno la morte dolorosa
né Tifone né la Chimera [entità ctonia, come la dragonessa] dal nome funesto:
qui, la nera terra e Iperione [Elios] ardente ti faranno marcire.

Così ha origine Pito, dove Elios fece imputridire il mostro, e il dio conserva l’appellativo di Pizio o Pitico (Πύθιος), secondo un’etimologia che rimanda a πύθομαι, corrompersi, imputridirsi: è possibile che la decomposizione del serpente fosse la spiegazione mitica di un reale fenomeno geologico, il flusso di vapore emergente dal suolo, cui è correlata l’ispirazione profetica della Pizia.

Finalmente (vv. 384-387), Apollo procede alla fondazione del santuario.

καὶ βωμὸν ποιήσατ᾽ ἐν ἄλσεϊ δενδρήεντι,
ἄγχι μάλα κρήνης καλλιρρόου: ἔνθαδ᾽ ἄνακτι
πάντες ἐπίκλησιν Τελφουσίῳ εὐχετόωνται,
οὕνεκα Τελφούσης ἱερῆς ᾔσχυνε ῥέεθρα.
Costruì un altare nel bosco ricco di alberi,
vicino alla fonte dalle belle acque; e lì tutti
pregano il dio chiamandolo Telfusio,
perché ha umiliato le correnti della sacra Telfusa.

Invocatemi con il nome di Delfinio

Quindi Apollo va in cerca di uomini che potessero svolgere la funzione sacerdotale (vv. 393-396), 

οἵ ῥα ἄνακτι
ἱερά τε ῥέζουσι καὶ ἀγγέλλουσι θέμιστας
φοίβου Ἀπόλλωνος χρυσαόρου, ὅττι κεν εἴπῃ
χρείων ἐκ δάφνης γυάλων ὕπο Παρνησοῖο.
[...] quelli che celebrano
i sacri riti del dio e annunciano i responsi
di Febo Apollo dalla spada d’oro, qualunque cosa egli
profetizzi accanto al lauro, nelle gole del Parnaso.

Il riferimento al lauro è dovuto al fatto che, secondo alcune fonti, presso l’adyton di Delfi sorgeva un alloro sacro che ondeggiava quando la Pizia pronunciava le sue profezie. 

Inizia così l’ultimo quarto della sezione pitica, che ha lo scopo di celebrare la potenza del dio con riferimenti ai suoi fedeli e alla dimensione rituale. Sul mare, Apollo scorge una nave di commercianti cretesi provenienti da Cnosso con le loro famiglie e, dopo aver assunto le sembianze di un delfino, si lancia sul ponte. La nazionalità cretese di questi primi sacerdoti non vuol dire che anche il dio provenisse da lì, ma serve a sottolineare in qualche modo l’alterità di questi primi, privilegiati sacerdoti, la loro eccezionalità rispetto ai comuni Greci, poiché la memoria dello splendore del regno cretese era ancora viva, anche se confusa.

Tra lo stupore degli uomini e delle donne presenti, Apollo si manifesta a bordo: il suo aspetto è quello di «una stella che brilla in pieno giorno» (ἀστέρι εἰδόμενος μέσῳ ἤματι, v. 441) connotata da una luminescenza soprannaturale, da cui «sprizzavano molte scintille» (τοῦ δ᾽ ἀπὸ πολλαὶ / σπινθαρίδες πωτῶντο, vv. 441-442), nelle sembianze di «un uomo gagliardo e robusto, nel fiore degli anni, coi capelli sciolti sulle ampie spalle» (ἀνέρι εἰδόμενος αἰζηῷ τε κρατερῷ τε, / πρωθήβῃ, χαίτῃς εἰλυμένος εὐρέας ὤμους, vv. 449-450). È la prima epifania del dio

Apollo e la lira, frammento in ceramica, via Wiki Commons

Apollo guida le navi verso il luogo dove sorgerà il santuario di Delfi per una nuova rotta «verso l’aurora e il sole» (πρὸς ἠῶ τ᾽ ἠέλιόν, v. 436), impartendo le istruzioni essenziali per la cerimonia: costruzione dell’altare, accensione del fuoco, preghiera propiziatoria con offerta di farina (che sostituisce i più consueti chicchi d’orzo), cottura delle carni (allusa, non esplicita) (vv. 490-501):

καὶ βωμὸν ποιήσατ᾽ ἐπὶ ῥηγμῖνι θαλάσσης:
πῦρ δ᾽ ἐπικαίοντες ἐπί τ᾽ ἄλφιτα λευκὰ θύοντες
εὔχεσθαι δὴ ἔπειτα παριστάμενοι περὶ βωμόν.
ὡς μὲν ἐγὼ τὸ πρῶτον ἐν ἠεροειδέι πόντῳ
εἰδόμενος δελφῖνι θοῆς ἐπὶ νηὸς ὄρουσα,
495ὣς ἐμοὶ εὔχεσθαι Δελφινίῳ: αὐτὰρ ὁ βωμὸς
αὐτὸς Δελφίνιος καὶ ἐπόψιος ἔσσεται αἰεί.
δειπνῆσαί τ᾽ ἄρ᾽ ἔπειτα θοῇ παρὰ νηὶ μελαίνῃ
καὶ σπεῖσαι μακάρεσσι θεοῖς, οἳ Ὄλυμπον ἔχουσιν.
αὐτὰρ ἐπὴν σίτοιο μελίφρονος ἐξ ἔρον ἧσθε,
500ἔρχεσθαί θ᾽ ἅμ᾽ ἐμοὶ καὶ ἰηπαιήον᾽ ἀείδειν,
εἰς ὅ κε χῶρον ἵκησθον, ἵν᾽ ἕξετε πίονα νηόν.
costruite un altare sulla riva del mare,
accendete il fuoco e offrite bianca farina.
Poi stringetevi intorno all’altare e pregate.
Prima io sul mare velato di nebbia
balzai nella nave veloce in forma di delfino;
così invocatemi con l’epiteto di Delfinio: anche l’altare
sarà chiamato delfico, e sarà famoso in eterno.
Poi mangiate qualcosa accanto alla nera nave veloce
e libate agli dei beati che abitano l’Olimpo;
quando avrete placato il desiderio di dolce cibo,
venitemi dietro cantando il peana, finché
arriverete al luogo dove custodirete
il tempio ricchissimo.

Riepilogo sugli epiteti di Apollo nell’inno omerico

Arciere, arciere veloce (ἕκατος, ékatos): l’arco “luminoso” (φαίδιμα τόξα), insieme alla cetra, è uno dei suoi attributi. Apollo è il dio “dall’arco d’argento” (ἀργυρότοξος, argurótoxos). Nell’invocazione è: φοῖβε ἄναξ ἑκάεργε (phoĩbe ánax hekáerge, “O Febo, arciere potente”). 

Crisaore (χρυσάορος, khrusáoros): “dalla spada d’oro”. Oltre all’arco e alle frecce, tra le armi di Apollo vi è anche la spada. 

Delio (ΔήλιοςDḗlios): dal nome dell’isola sulla quale Latona lo diede alla luce.

Delfinio (ΔελφίνιοςDelphínios): connesso alla metamorfosi del dio in delfino e posto in relazione con il nome stesso del santuario. Con l’epiteto Delfinio, Apollo era venerato in molte località, anche se Delfi rimaneva la sede privilegiata. L’identità di delfino connota l’Apollo navigatore (altro campo d’azione del dio), protettore dei navigatori e dei mercanti. 

Febo (ΦοῖβοςPhoĩbos): è l’appellativo più diffuso e allude sia alla potenza della sua azione (φόβος, “paura”, per cui “colui che incute paura”, “terribile”), sia alle prerogative di purificazione e guarigione (φοῖβος, “puro”, “limpido”).

Pizio (Πύθιος, Púthios): è l’attributo che più esplicitamente richiama le capacità oracolari del dio. Rimanda al luogo dove Elios fece imputridire la dragonessa-mostro uccisa da Apollo, evento fondante del santuario di Delfi e delle attività profetiche di Apollo attraverso la Pizia.

Telfusio (Τελφούσιος, Telphoúsios): rimanda alla ninfa Telfusa, che viveva presso l’omonima fonte, in Beozia. Apollo la rinchiuse dietro una ripida parete rocciosa per punire la sua cattiva fede.

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