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Bella come un fascio di luna. Versi dall’adorazione di Inanna

Quattro millenni e mezzo fa, a Sumer, l’educazione di uno scriba consisteva in un lungo e laborioso praticantato nel corso del quale il tirocinante si esercitava a copiare e riprodurre le tavolette che spesso costituivano la collezione privata della sua famiglia - alcune ne possedevano di molto ampie, tra opere letterarie e trattati scientifici, oltre a quelle che arricchivano le grandi biblioteche dei templi e dei palazzi reali - per dimostrare l’acquisita padronanza della complessa arte a cui dedicava tutta la sua vita. 

Inanna’s body hanging from a hook, dell’illustratrice inglese Eleanor Allitt, via Zipang.org

Il lavoro iniziava con la preparazione del materiale: l’argilla veniva raccolta e conservata in una grande vasca. Poi, quando occorreva una tavoletta, lo scriba ne stendeva una sottile lastra, ancora umida, piegandola poi in tre, a destra, a sinistra e al centro. 

Successivamente levigava i bordi in modo che le pieghe non fossero più visibili e quindi la incideva con uno stilo di canna, di legno o di metallo. Secondo una modalità piuttosto diffusa, al contenuto dello scritto veniva aggiunto un colophon che conteneva alcune informazioni circa il numero di righe, il nome dell’autore e altri commenti. 

Il titolo era solitamente indicato con i primi versi dell’opera stessa (il poema accadico che ancora oggi conosciamo come Enūma eliš riporta, infatti, l’incipit, “quando lassù”...), ma di poche abbiamo la fortuna di conoscerne la paternità. 

Con una significativa eccezione: si tratta di un gruppo di tavolette identificate nella collezione della Yale University con la sigla YCB 7169 e attribuite a una donna, compositrice di versi vissuta nel XXIII sec. aev (diciassette secoli prima di Saffo) che ha lasciato evidenti tracce di sé nei testi che portano la sua firma: di fatto, il primo poeta della storia di cui ci sia giunta testimonianza scritta. Queste tavole furono acquisite all’inizio del Novecento da un antiquario iraqeno e non se ne conosce il luogo di ritrovamento, né dove fossero state fino a quel momento conservate.

La Yale University ospita la più vasta collezione di iscrizioni cuneiformi degli Stati Uniti, consistente in tavolette d’argilla di diversa forma e dimensione, oltre a sigilli, iscrizioni su pietra e altri materiali, alcune delle quali di notevole interesse artistico, nonché una ricca biblioteca di assiriologia, ittitologia e archeologia del Vicino Oriente Antico. 

La tavoletta che riporta i versi attribuiti a Enheduanna è databile al XVIII secolo, di molto posteriore all’epoca in cui visse la poetessa. Può trattarsi di un’esercitazione che, a giudicare dall’ortografia e dalla grammatica, deve essere stata effettuata da uno scriba esperto, probabilmente al termine del suo percorso di formazione. 

Per il testo di questo articolo e la traduzione dei versi, cfr. B. R. Foster, The Firts Author, in “Guild of Book Workers Journal”, 2010-11, pp. 61-3.

Enheduanna era figlia di re, sorella di altri due re, zia e prozia di re: la sua lunga carriera attraversò un periodo turbolento e di mutamenti profondi e radicali che vide la formazione del primo grande impero dell’antichità coincidente, da una parte, con la diffusione di una prosperità mai sperimentata prima di allora, di innovazioni artistiche e intellettuali, dall’altra con ondate di eccezionale violenza. Un’epoca dominata da una famiglia reale i cui nomi sono destinati a diventare leggenda nella coscienza storica mesopotamica per i successivi duemila anni. 

Colta, altamente istruita, orgogliosa e straordinariamente originale nel contenuto e nelle espressioni, Enheduanna crebbe e si formò in quegli anni tumultuosi e rivoluzionari che imposero la sua dinastia al potere, e suo padre, Sargon di Akkad, ne fu il leggendario fondatore. 

La nobile intellettuale fu testimone delle gloriose conquiste paterne ma ne condivise anche il dolore e le difficoltà: vide i suoi fratelli morire entrambi in una cospirazione di corte, assistette con rabbia alla resistenza di alcuni soggetti “irrequieti” che si opponevano all’ascesa della nuova dinastia e dovette sperimentare sulla sua stessa persona l’amarezza dell’esilio.

La sua lingua madre era l’accadico, idioma semitico imparentato con l’arabo e l’ebraico, e le erano di certo familiari gli usi, i costumi e la moda del suo tempo, l’abbigliamento e i pregiati ornamenti; tuttavia il suo mezzo espressivo formale era il sumerico, il linguaggio degli dei

Fu nominata da suo padre alta sacerdotessa del dio luna Nanna e come tale viveva in uno speciale complesso all’interno del grande santuario del dio nella città di Ur. Una placca, gravemente danneggiata, la ritrae nella sua elaborata veste mentre reca le offerte: la posizione, il volto e la presenza fisica suggeriscono l’idea di un carattere dignitoso, sicuro e forte, avvezzo all’autorità nel presiedere alle cerimonie, tratti che emergono anche dai suoi scritti. 

Il più importante di questi scritti è costituito da un ciclo di tre preghiere a Inanna, dea della fertilità e della procreazione, oltre che della guerra, e protettrice della sua dinastia. 

— Sugli attributi dell'assisa Ishtar leggi: Ishtar di Ninive.

Il linguaggio è complesso, le espressioni insolite. Il testo è stato composto in un momento difficile della sua vita, quando erano già scoppiate le ribellioni contro la sua famiglia e lei stessa sentiva forte attorno a sé la minaccia di dure ritorsioni.

Sì, ho preso il mio posto nel santuario,
ero l’alta sacerdotessa, io, Enheduanna.
Sebbene recassi il cesto delle offerte, sebbene cantassi gli inni,
era pronta per me l’offerta di morte; vivevo, dunque, ancora?
Se si avvicinava la luce del giorno, illuminava qualcosa di vile accanto a me,
se si avvicinava l’ombra, mi avvolgeva in polvere turbinante.
Una mano bavosa fu posata sulla mia bocca amata, ciò che era più giusto nella mia natura fu trasformato in terra.

Quindi, rivolgendosi al dio luna, constatava quanto persino la divinità a cui era votata per l’intera vita non potesse nulla, nulla contro quegli oscuri presagi.

Devo quindi morire per il mio canto sacrale? Io, proprio io?
La luce lunare non si cura di me!
Mi lascia morire in questo luogo di speranze ingannate.
Lui, il globo notturno d’argento, non ha pronunciato per me alcun guidizio.
Se avesse parlato, cosa sarebbe successo? E cosa, invece, se non lo avesse fatto?

Nell’amarezza dell’abbandono, la preghiera si rivolge allora a Inanna:

Mia signora! Questo paese si inchinerà di nuovo al tuo grido di guerra!
Quando la razza umana, tremante, avrà trovato il giusto posto di fronte a te,
in mezzo al tuo soverchiante e travolgente splendore,
per tutti i poteri cosmici che detieni, i più terribili,
e per la tua volontà, sarà spalancata la dimora delle lacrime,
avrà percorso il sentiero del lutto più profondo, sconfitta,
prima che la battaglia abbia inizio.

L’intervento della dea riporta la calma e la fiducia nell’animo della sacerdotessa. La poesia torna ad agitarsi dentro di lei come un bambino nel grembo, e i versi, che prima si dibattevano in una tormentata lotta privata, vedono la luce in un’agonizzante, ma salvifica, creazione.

Ciò che ti ho confidato nel buio della notte, in tuo onore sarà cantato alla luce del giorno.

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in [ Vicino_Oriente_Antico ]

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