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Arbores in deorum tutela. Gli alberi sacri agli dei

Dallo Yggdrasil della mitologia germanica all’albero della vita e della giovinezza in Mesopotamia, Iran, India, fino all’albero dell’immortalità e della sapienza nell’Antico Testamento, il susseguirsi di “morti” e “rinascite” degli alberi, secondo il loro ciclo stagionale, ha suggerito nelle diverse culture umane l’idea di rigenerazione, di eterna giovinezza, di salvezza, sapienza e immortalità. L’immagine dell’albero rappresenta la vita stessa, reale e sacra per eccellenza; il suo essere vivo e respirare è analogo al ritmico rinnovamento dell’universo, la sua capacità di rigenerarsi all’infinito, percepito come un attributo divino, ne fa un simbolo stesso del cosmo. 

John William Godward, Ancient Pastimes (particolare), 1916, via Artnet

Gli alberi sacri agli dei

I vegetali, prodotti dalla terra e che da essa vengono fuori («terra edita et inde eruta»), non sono affatto privi di spirito vitale («anima»), poiché senza di essi niente può vivere («quandoquidem nihil sine ea vivit») (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 12, 1). 

Gli alberi costituirono i primi templi degli dei («haec fuere numinum templa») e ancora ai tempi di Plinio era usanza, specie tra la gente di campagna, consacrare quelli più belli e più pregiati a qualche divinità (12, 2). 

Di fronte agli alberi ci sentiamo, infatti, ispirati all’adorazione non meno che davanti alle statue risplendenti d’oro e d’avorio, o alla quiete di un bosco sacro.

Importante annotare, per Plinio, che ogni specie di albero rimane per sempre consacrata alla propria divinità («arborum genera numinibus suis dicata perpetuo servantur»), così come 

ut Iovi aesculus, Apollini laurus, Minervae olea, Veneri myrtus, Herculi populus.
così come a Giove [è sacra] la quercia, ad Apollo l’alloro, a Minerva l’ulivo, a Venere il mirto, a Ercole il pioppo.

Si dice che ogni quercia è consacrata a Giove e ogni bosco a Diana («omnis quercus Iovi est consecrata, et omnis lucus Dianae», Servio, In Vergilii Georgicon Libros 3.332.1). 

La quercia sacra a Giove Dodoneo, poi, aveva capacità profetiche e dava responsi agli uomini («vel quod ibi quercus Iovi Dodonaeo sacrata, quae hominibus responsa reddebat», 1.8.13). 

Per metonimia poetica, una corona di quercia era il premio per i benemeriti della patria, specialmente per chi aveva salvato un cittadino. Capitolina quercus (in latino i nomi degli alberi sono femminili, i frutti neutri) era la corona di quercia premio dei vincitori dei giochi capitolini. 

Così come a Giove è sacra la quercia, a Diana è sacro il cipresso, il nero, mesto, funebre cipresso: perché lei è anche Proserpina («Iovis propter quercus, Dianae propter cupressum», Servio, In Vergilii Aeneidos Libros 3.681). Sulla identificazione tra Artemide e Persefone, secondo una tradizione egiziana riportata da Eschilo e poi da Erodoto, leggi anche I misteri di Artemide Egemone, figlia di Demetra).

Paesaggio con Venere e Adone (particolare), Hans Bol, 1589 (via Getty.edu)

A Cibele, la madre degli dei, è caro il pino («grata deum matri»), come ricorda Ovidio (Metamorfosi, 10, 104-105), se è vero che per lei Attis si spogliò del suo corpo per fissarsi in quel tronco («siquidem Cybeleius Attis exuit hac hominem truncoque induruit illo»). 

Attis infatti, in un momento di furore, si evirò sotto un pino, assumendone la forma, e si consacro al culto di Cibele. I sacerdoti di Cibele sono detti Galli (poiché il loro nome è gridato dal gallo) ed erano eunuchi (Cfr. Marziale, Epigrammi).

Ad Apollo invece, secondo una tradizione molto diffusa, è sacro l’alloro, ma non solo. Nella nascita del dio sulla rocciosa isola di Delo, secondo il mito greco, oltre all’alloro ha un ruolo particolare anche l’ulivo, insieme alla palma: ai loro rami, infatti, Leto si sarebbe sorretta durante il doloroso travaglio (Euripide, Ifigenia in Tauride, vv. 1099 ss.):
φοίνικά θ᾽ ἁβροκόμαν
δάφναν τ᾽ εὐερνέα καὶ
γλαυκᾶς θαλλὸν ἱερὸν ἐλαίας,
Λατοῦς ὠδῖνα φίλαν
e la palma [φοῖνιξ] dalle foglie lussureggianti e il rigoglioso alloro [δάφνη] e il pallido ulivo [ἐλαίς] i cui ramoscelli sono sacri, cari a Leto nei dolori del parto

L’associazione tra Apollo e l’ulivo è confermata anche da un verso di Callimaco (Inno a Delo, v. 262):

χρύσειον δ᾽ ἐκόμησε γενέθλιον ἔρνος ἐλαίης
ed aureo chiomeggiò, per la nascita, il virgulto d’ulivo  

(Traduzione in Callimaco, Opere, a cura di G. B. D’Alessio, Bur, Milano 2023, p. 163.)

Ma l’ulivo, il cui olio rende flessuose le membra («recreans membra olei liquor», Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 12, 2), è anche l’albero sacro a Minerva

L’albero sacro ad Ercole è il pioppo. Si dice infatti che Ercole, tornando dagli inferi, abbia contemplato per primo quest’albero e con esso si sia incoronato, essendo il colore dell’albero adatto all’occasione, per cui passò dalle tenebre alla luce (Servio, In Vergilii Georgicon Libros 2.66.1. Il pioppo è detto “bicolore” (bicolor) perché ha le foglie di due colori.

Si dice infatti che:

Herculea bicolor cum populus umbra uelauitque comas foliisque innexa pependit

il pioppo dalle foglie di due colori velava le chiome di tutti con l’ombra grata a Ercole 

(Eneide, V, vv. 276-277), ed anche i Sali, disponendosi attorno alle are accese per cantare le lodi e le imprese di Ercole, da una parte i giovani e da un’altra gli anziani, avevano le teste coronate di pioppo.

Il mirto invece è dedicato a Venere (Paphiae myrtus, i mirti sacri a Venere). Riporta Servio (In Vergilii Aeneidos Libros, 5.72) che i motivi di questa associazione sono diversi: perché ha un profumo gradevole, oppure perché è fragile, come l’amore («ut amor inconstans»), o ancora perché, come alcuni dicono, appena uscita dall’acqua, per non essere vista nuda, Venere si accovacciò su un mirto. 

Ucciso dall’ira di Marte, la dea trasformò il sangue dell’amato Adone in un fiore che si dice non venga mai accarezzato dal vento, e alla sua protezione assegnò l’albero di mirto.

Vi sono poi divinità, come Fauni, Ninfe e Silvani, che sono appositamente designate alla tutela dei boschi.

Dica la gente ciò che le pare (una favola di Fedro)

Olim quas vellet esse in tutela sua
dii ut legerunt arbores, quercus Iovi,
at myrtos Veneri placuit; Phoebo laurea,
pinus Cybele, populus celsa Herculi.
Minerva ammirans quare sterilis sumerent
interrogavit. Causam dixit Iuppiter:
«honorem fructu ne videamur vendere».
«At mehercules narrabit quod quis voluerit
oliva nobis propter fructum est gratior».
Tum sic deorum genitor atque hominum sator:
«o nata, merito sapiens dicere omnibus.
Nisi utile est quod facimus, stulta est gloria».
Nihil agere quod non prosit fabella ammonet.
Scelsero un giorno gli dei l’albero ognuno che volle
gli fosse sacro. E a Giove piacque la quercia, ad Apollo
l’alloro, a Venere il mirto, il pino fu di Cibele,
d’Ercole l’agile pioppo. Meravigliata, Minerva
chiese perché si prendessero le piante sterili. E Giove
a lei: «Per questo», rispose, «perché non possa parere
che concediamo l’onore in contraccambio del frutto».
«Ah, per iddio, ma che dica ciò che le pare la gente:
io proprio per il suo frutto scelgo tra tutti l’ulivo».
E il padre degli dei e il creatore degli uomini:
«O figlia, come a ragione tutti ti dicono saggia!
Stupido è il vanto, se inutile quanto da noi viene fatto».
Di non far nulla, se non giovi, insegna la favola.

(Liber tertius, fabula CLI. Testo latino e traduzione da Fedro, Favole, a cura di M. G. Cerruti, S. Pulvirenti, Biblioteca Ideale Tascabile, Milano 1996.)

Maarten von Heemskerck, Gli dei dell’Olimpo (particolare), 1556 (via Google Art Project)

Fillide, regina inquieta (un’egloga di Virgilio)

Fillide era regina di Tracia e viene ricordata nelle egloghe III, VII e IX. Il suo nome proviene da un mito, di carattere erotico e patetico, raccontato da Ovidio e da Servio.

Si innamorò perdutamente di Demofonte, figlio di Teseo, che fu suo ospite durante il viaggio di ritorno dalla guerra di Troia. Lui la ricambiò, promettendole di sposarla dopo aver sistemato le proprie faccende in Grecia. Ma la regina, stretta nella morsa dell’ansia e nell’incertezza dell’attesa, si trasformò in un mandorlo senza foglie («in arborem amygdalum sine foliis»). Quando Demofonte fece ritorno, scoprendo l’accaduto, abbracciò il tronco spoglio da cui subito spuntarono le foglie. Da qui il presunto nesso etimologico tra il nome Fillide e il sostantivo greco fylla,

La sua presenza è considerata la condizione necessaria per la prosperità della natura: siamo infatti di fronte a un paesaggio desolato, un campo inaridito, che riprenderà a verdeggiare «all’arrivo di Fillide» (v. 59, «Phyllidis aduentu nostrae nemus omne uirebit»). L’albero del nocciolo è assimilato abitualmente al mandorlo. Canta Virgilio (Egloga VII): 

C. Populus Alcidae gratissima, vitis Iaccho,
formosae myrtus Veneri, sua laurea Phoebo;
Phyllis amat corylos: illas dum Phyllis amabit,
nec myrtus vincet corylos, nec laurea Phoebi.
Il pioppo è gratissimo ad Alcide, la vite a Bacco,
il mirto alla bellissima Venere, a Febo il suo alloro;
Fillide ama i noccioli; finché Fillide li amerà,
né il mirto né l’alloro di Febo vinceranno i noccioli.

(Cfr. M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1984, pp. 94-7. Sulla presenza femminile e la tematica amorosa in Virgilio, cfr. G. Scafoglio, Le figure femminili nelle Bucoliche di Virgilio, in “EVPHROSYNE”, 34, 2006, pp. 65-76.)

in [ religione_romana ]

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