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Spargete coppe in onore di Giove

Troia è destinata a cadere perché Roma nasca. A guidare le sorti del popolo venuto dal mare è Enea, l’“eroe civilizzatore” ispirato dai Fati e prescelto per profezia divina, che si scontra con le popolazioni locali, sposa la figlia del re Latino e fonda una nuova città, dando così origine al corso della storia. Al pantheon di questa nuova civiltà partecipano gli dei dell’Olimpo i quali, esuli anch’essi, trovano rifugio a Roma, e divinità autoctone come il Tevere, le ninfe del bosco di Nemi, Fauno e Pico.

Per i Romani il concetto di origine non si perde nel mito, ma è ricondotto ad avvenimenti precisi nel tempo storico, anche se molto antichi. Il principio di questa storia risale alle vicende della guerra di Troia, quando, in un periodo di massicce migrazioni, alcuni popoli si spinsero per mare da est, talvolta identificati con gli Arcadi, gli Achei, i Pelasgi, i Troiani, i Lidi, i Cretesi, la provenienza è pressoché indifferente, ma a tutte queste popolazioni Roma riconosceva la qualità di genti civilizzate.

Queste, ad esempio,  le parole pronunciate da Anchise (III, 111 ss.), che identifica nell'isola di Creta il luogo da cui provengono i riti sacri di Cibele:
In mezzo al mare c’è Creta, l’isola sacra a Giove. [...] Da Creta venne la Madre cultrice [mater cultrix] del Cibelo, i bronzi dei Coribanti e il bosco sacro dell’Ida, da Creta l’abitudine di celebrare in silenzio i sacri misteri, da Creta i leoni aggiogati che trascinano il carro della grande regina.

Dalle fonti greche, invece, sappiamo che è la Frigia la terra dei misteri di Cibele, culti assimilati attraverso le colonie trace. 

Nella costruzione dell’identità romana, la funzione dei luoghi non è tanto geografica quanto mitica, un altrove indistinto percepito come lontano nello spazio e nel tempo, dove è il mare che segna la distanza dall’Urbe.

— Leggi anche Epitaffio per una sacerdotessa, epigramma di Callimaco, e l’Inno alla Madre degli dei di Giuliano Imperatore

L’eroe straniero

A guidare le sorti e il viaggio di questi popoli venuti dal mare è un eroe civilizzatore, ispirato dai Fati e prescelto per profezia divina — sarà Febo a scegliere Enea, attraverso la cavernosa Sibilla —, che si incontra-scontra con le popolazioni locali, sposa la figlia del re destabilizzato e fonda una città, dando così origine al corso della storia.

Nella religione romana, l’unico mito esistente riguarda la fondazione della città e gli avvenimenti che l’hanno “fatalmente” preceduta.

Il pantheon è composto da divinità autoctone, strettamente legate al luogo della loro dimora (come il Tevere, o le Ninfe dei boschi di Nemi), e dagli dei dell’Olimpo i quali, esuli anch’essi, trovano rifugio a Roma.

Una preghiera al dio Tevere

Uno spazio particolare è dedicato al Tevere, personificato in un dio che appare a Enea per incoraggiarlo, e poi si rituffa nei flutti. 

Dopo la visione, l’eroe subito si prepara al rito. Rivolto ai pallidi raggi del sole nascente, attinge nel cavo delle mani l’acqua del fiume pregando di essere accolto nella nuova terra (VIII, 71 ss.):

Nymphae, Laurentes Nymphae, genus amnibus unde est, tuque, o Thybri tuo genitor cum flumine sancto [...] Quo te cumque lacus miserantem incommoda nostra fonte tenent, quocumque solo pulcherrimus exis, semper honore meo, semper celebrabere donis corniger Hesperidum fluvius regnator aquarum.
O Ninfe di Laurento da cui le sorgenti zampillano, e tu padre Tevere con la tua santa corrente [...] Fiume bellissimo che ti commuovi per me, dovunque tu sia nato, dovunque il tuo sereno flusso prorompa, sempre t’onorerò di doni, fiume lunato sovrano dei mari d’Esperia.
Non solo furono mitizzati gli eroi civilizzatori, ma anche i capostipiti delle genti che abitavano il territorio prima della fondazione di Roma: i Laurentini dal sacro alloro di Apollo, mentre di Aventino si dice che era (VII, 656 ss.)
bel figlio dello splendido Ercole, di cui porta sullo scudo l’insegna: cento aspidi e l’Idra circondata di serpi. Lo mise alla luce con parto segreto, in un bosco del colle che chiamano Aventino, la sacerdotessa Rea, donna mortale, unitasi al Dio [...] quando arrivò vittorioso nei campi di Laurento e lavò nel fiume tirreno le giovenche d’Iberia.

Un rito a Ercole

Risalendo il fiume, i profughi troiani arrivano al “povero regno” di Evandro d’Arcadia e di suo figlio Pallante, che li accolgono favorevolmente e li invitano a unirsi a loro nella celebrazione di una solenne cerimonia che ogni anno ricorda la sconfitta del mostro Caco da parte di Ercole. 

Il banchetto e il rito si svolgono presso un’ara situata in un bosco sacro, sotto l’ombra di un grande pioppo sacro al dio, dalle foglie di due colori.

Le terre sacre a Saturno

Ma torniamo a re Latino. La sua stirpe, contro la quale suo malgrado Enea dovrà muovere guerra, è detta saturnia: come nella Teogonia greca il padre Chronos è stato spodestato da Giove, al quale sono devoti gli esuli di Ilio.

Re Latino era figlio di Fauno, figlio di Pico a sua volta figlio di Saturno. Al centro della reggia c’era il trono degli avi, re antichissimi.

Era un palazzo augusto, alto su cento colonne, enorme, posto in cima alla città: fu tempio del laurentino Pico, degno di sacro terrore per i suoi boschi e il culto pietoso degli antenati.

La sua discendenza è quindi divina, e il vecchio sovrano regnava in pace da molti anni quando Enea raggiunse le coste d’Ausonia – veniva chiamata anche così l’Italia, per estensione, dal nome del leggendario re Auson, il cui figlio Liparo conquistò un territorio che andava dai confini sud-orientali della penisola fino alla Campania.

In mezzo al palazzo reale, in un cortile interno, c’era un alloro splendido dal fogliame santo custodito con sacro terrore per molti anni: si dice che lo stesso padre Latino, trovatolo mentre gettava le prime fondamenta, lo avesse votato ad Apollo, chiamando Laurentini i coloni dal nome di quell’albero.
Esiste un’antica terra che i Greci chiamano Esperia, potente nelle armi, dal suolo fertilissimo; un tempo la abitarono gli Enotri, e si dice che i loro discendenti l’abbiano chiamata Italia dal nome di un loro re.

Spargete coppe in onore di Giove 

Appena approdato sulle rive laziali, Enea, che sa di essere arrivato alla “terra promessa”, compie un sacrificio agli dei della sua patria (a Giove si offrono le prime libagioni), ai suoi avi e agli spiriti del luogo.

Poi corona le tempie con un ramo frondoso e invoca il Genio del luogo e la Terra — la prima degli Dei —, le Ninfe, i fiumi ancora ignoti, la Notte e le sue stelle che già vanno sorgendo, prega il Giove dell’Ida, la madre frigia Cibele, i suoi due genitori, in Olimpo e nell’Erebo.

A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Editori Riuniti, Roma 2010; M. Pallottino, Storia della prima Italia, Rusconi, Milano 1994, pp. 37 ss.

In copertina: Salvator Rosa, Il dio Tevere appare a Enea, 1663/64 (Wiki Commons)

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