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La dottrina di Acheronte: come trasformarsi in divinità

Le leggende sulla tradizione etrusca attribuivano la composizione delle “scritture” religiose a due personaggi del tempo remoto, un uomo e una donna, Tagete e Vegoie (o Begoe, Bigois): quest’ultima, una ninfa, scrisse l’ars fulguriatorum, mentre il primo, dall’aspetto di un bambino con la saggezza di un vecchio, avrebbe rivelato la haruspicinae disciplina e insegnato discipulina haruspicii ai dodici popoli dell’Etruria; a lui sono attribuiti i libri fatales e gli Acherontici, dove erano descritte le pratiche magiche per ottenere la deificazione.

Adolf Hirémy-Hirschl, Anime sulle rive di Acheronte (1898), via Wiki Commons

Etrusca disciplina / Contro la brevità della vita / Un culto ad Acheronte / O profondi templi acherontei / Le sconfinate distese d’Acheronte / Charu, Tuchulcha, Vanth e altri demoni / L’inferno è donna

Etrusca disciplina

Dell’origine dell’aruspicina parla ampiamente Cicerone ricordando che il popolo romano è fortemente legato alla divinazione ed è ricorso a molti generi di pratiche sia pubbliche sia private nel corso della sua storia. 

A partire dalla fondazione, poiché Romolo non solo fondò Roma dopo aver preso gli auspicii, ma, a quanto si narra, fu egli stesso un ottimo àugure («Romulus non solum auspicato urbem condidisse, sed ipse etiam optumus augur fuisse traditur», De divinatione 1, 3); anche dopo la cacciata dei re, nessuna decisione che riguardasse lo Stato, in pace come in guerra, è stata presa senza prima aver consultato gli auspicii, allo scopo di ottenere eventi favorevoli e ricevere buoni consigli. I Romani hanno attinto la disciplina dell’aruspicina dall’Etruria («omnem hanc ex Etruria scientiam adhibebant»), cosa che conferiva a questa disciplina così importante la dignità e il prestigio di un’antica tradizione. 

Gli Etruschi, a loro volta, furono istruiti a queste arti da un certo Tagete, che uscì fuori da un solco praticato a terra da un contadino di Tarquinia mentre arava. Questo, dice Cicerone, si legge nei libri degli Etruschi («in libris est Etruscorum», 2, 50), che essi conservano e considerano la fonte della loro dottrina («haec scripta conservant, hunc fontem habent disciplinae»).

Tagete è un personaggio fuori dal comune, a cominciare dalla sua prodigiosa apparizione da sotto terra. Inoltre si presenta in modo strano, con l’aspetto di un bambino e il senno di un vecchio («puerili specie dicitur visus, sed senili fuisse prudentia»). Tutti gli abitanti dell’Etruria accorsero in quel luogo, e così Tagete tenne un lungo discorso che venne poi messo per iscritto: quello in cui era contenuta la scienza dell’aruspicina («omnem autem orationem fuisse eam, qua haruspicinae disciplina contineretur»).

Tagete, Museo etrusco di Gori (in Etruscan Roman remains in popular tradition, 1892), via Internet Archive

I libri di cui gli scrittori latini ci hanno trasmesso, tradotti o parafrasati, alcuni frammenti, sono il prodotto di una ricerca erudita che ha impegnato qualche generazione di intellettuali, da Cicerone, Plinio il Vecchio e Seneca, negli ultimi secoli prima dell’era volgare: un grande movimento di riscoperta delle antichità, in particolare della forma dei rituali per tramandarli e farli sopravvivere, eventualmente integrando e interpretando, alterandolo, il materiale tradizionale. 

Dalle classificazioni che si ricavano da queste fonti, secondo una denominazione che si riferisce al loro contenuto, abbiamo quindi i libri fatales, haruspicini, fulgurales, rituales e Acherontici, questi ultimi compresi nei rituales

Dei libri Acherontici sono rimasti alcuni frammenti, tramandati da autori latini. Un punto della dottrina acherontica detta prorogatio la conosciamo da Servio nel poderoso Commentario all’Eneide; Servio era un erudito e grammatico del IV-V sec. ev, descritto nei Saturnali di Macrobio come un giovane seguace del leader pagano Aurelio Simmaco (sul ruolo di Simmaco nella “resistenza pagana” del V secolo leggi anche La fine di un mondo. Ultimi tentativi di restaurazione pagana a Roma).

Contro la brevità della vita

Secondo la scienza tramandata dai libri aruspicini e dai sacri Acherontici (Aen. 8, 398), si può differire l’arrivo dell’ora fatale di almeno dieci anni: 

sed sciendum secundum aruspicinae libros et sacra Acheruntia, quae Tages conposuisse dicitur, fata decem annis quadam ratione differri.

Il possibile “rinvio” del male imminente è ottenuto con l’intercessione di Giove prima di tutto e poi delle Parche, con questa formula:

nec pater omnipotens, nec fata vetabant.

Anche il dio Vulcano non è contrario («quod nunc dicit Vulcanus potuisse fieri. Ergo non est contrarium»).

Il destino, però, viene solo rinviato, ma non può essere cambiato del tutto («fata differuntur tantum, numquam penitus inmutantur»).

Arnobio parla di vuote illusioni (spe aeria, blandimenta cassa) che suscitano desideri vani (inanium fomenta votorum, ma siamo già in ambiente di apologetica cristiana in difesa della “vera” religione) quelle che in Etruria sono sostenute nei libri Acherontici, cioè che grazie al sangue di determinati animali offerto a determinate divinità, le anime divengono divine sfuggendo così alla condizione mortale (Adversos nationes, 2, 62, qui la traduzione in inglese): 

neque quod Etruria libris in Acheronticis pollicentur, certorum animalium sanguine numinibus certis dato divinas animas fieri et ab legibus mortalitatis educi. 

Di nuovo Servio (Aen. 3, 168) ricorda che, in un trattato de diis animalibus, il giurista romano Labeone aveva detto che esistono sacrifici grazie ai quali le anime degli uomini si trasformano in dei, chiamati appunto animales in virtù della loro origine, che Servio identifica con gli dei penati e viali (Lares viales, Lari protettori dei viaggiatori):

esse quaedam sacra quibus animae humanae vertantur in deos qui appellantur animales, quod de animis fiant. Hi autem sunt dii penates et viales.

Queste sono le uniche testimonianze che possediamo su una (ipotetica) dottrina acherontea di derivazione etrusca, dalle quali si può desumere che la deificazione si otteneva post mortem mediante una tecnica sacrificale che sembra di carattere coercitivo: una visione lontana tanto dall’orfismo, che riservava una sorte felice nell’aldilà agli iniziati, quanto dal pitagorismo e dalla sua nozione di metempsicosi. Il mezzo rituale per ottenere l’immortalità, ricondotta a questa pratica magica, è quindi propriamente etrusco.

(Cfr. G. Dumézil, La religione degli Etruschi, appendice, in Id., La religione romana arcaica, Bur, Milano 2001, pp. 561 ss.; cfr. anche J. F. Holstein, Rites and ritual acts as prescribed by the Roman religion according to the commentary of Servius on Vergil’s Aeneid, Voelcher Bros., New York 1916.)

Un culto ad Acheronte

A Roma come in Grecia, il termine Acheronte designa sia uno dei fiumi infernali, sia l’immagine atta a indicare tutto l’aldilà. Talvolta è concepito come un fiume di fuoco: «Praeparat innumeras puppes Acherontis adusti Portitor» (il nocchiero [Caronte] dell’Acheronte in fiamme si prepara ad innumerevoli viaggi, Lucano, Pharsalia, 3, 16); è il più triste dei fiumi infernali, del Flagetonte e del Cocito, entro cui rigetta la sua melma. Acheronte è un corso d’acqua fangosa, ribollente in un’ampia voragine di veleni e di pus («tristior his Acheron sanie crassoque veneno aestuat et gelidam eructans cum murmure harenam descendit nigra lentus per stagna palude»), con cui Cerbero e le Furie si dissetano («hanc potat saniem non uno Cerberus ore, haec et Tisiphones sunt pocula, et atra Megaera hanc sitit», Punica 13, 571-573).

Sulla base di considerazioni linguistiche, si ritiene che il greco Ἀχέρων sia un vocabolo penetrato a Roma dall’Etruria insieme ad un gruppo di altri nomi etruschi  come πρόσωπον-persona (maschera, personaggio), γνώμων-gruma (il centro di un accampamento), σπυρίδα-sporta (sporta, cesta), σκηνή-scaena (scena, teatro).

Purtroppo la scarsa conoscenza della lingua etrusca, a fronte di una molto più ampia mole di materiale figurativo, non consente di saperne di più circa la figura di Acheronte. Un’attestazione potrebbe provenire dal cosiddetto cratere di Alcesti del IV secolo aev, rinvenuto a Vulci e conservato presso la Biblioteca nazionale di Parigi, una pittura vascolare a figure rosse che rappresenta l’abbraccio d’addio tra Alcesti a Admeto e, sul retro, una scena di satiri e una menade. (Sulla rappresentazione di Alcesti divinizzata sulle steli funerarie in Grecia come modello di sposa virtuosa, leggi Thanatos, la Morte.)

Admeto e Alcesti nella raffigurazione vascolare di Vulci, via Wiki Commons

Il vaso è stato rinvenuto a Vulci ma non se ne conosce l’esatta provenienza; forse apparteneva a un corredo funerario, usato per contenerne le ceneri del defunto o come offerta funebre. La coppia è posta tra Charu (il greco Caronte) e, sulla destra, una figura alata che brandisce serpenti, ugualmente appartenente al mondo dell’oltretomba. 

Tra le figure di Alcesti e Charu corre una lunga iscrizione, ancora fonte di discussioni soprattutto per l’incerto significato del termine aχrum:

eca srsce nac a_rum fler_rce

che viene comunemente resa con : “ella andò e in questo modo soddisfò Acheronte con un sacrificio”. 

O profondi templi acherontei

Ma, se non è chiaro cosa si intenda esattamente con questa iscrizione, facendo intendere forse un culto ad Acheronte divinizzato al quale si vanno a offrire sacrifici, altrove si parla degli Acherusia templa alta Orci, in un frammento di Ennio riportato da Cicerone nelle Tusculanae disputationes (cfr. The Tragedies of Ennius. The Fragments). Il passo completo citato da Cicerone è:

Acherusia templa alta Orci
salvete infera pallida leti
nubila tenebris loca
O profondi templi acherontei dell’Orco, vi saluto, regioni infere fasciate dal tetro pallore della morte.

L’espressione Acherusia templa è stata poi ripresa da Lucrezio in una lunga digressione dedicata alle credenze nell’aldilà, vane secondo la sua estetica epicurea, ma dove un particolare riguardo viene riservato proprio a Ennio e ai suoi “versi immortali” (aeternis versibus):

etsi praeterea tamen esse Acherusia templa
Ennius aeternis exponit versibus edens,
quo neque permaneant animae neque corpora nostra,
sed quaedam simulacra modis pallentia miris.
Eppure Ennio racconta, proclamandolo in versi immortali, che esistono anche gli spazi [templi] Acherontei, fino ai quali non sopravvivono né le anime né i corpi nostri, ma non so quali immagini di straordinario pallore. 

(Lucrezio, De rerum natura 1, 120; qui la traduzione, Utet, Novara 2013, p. 96; sull’epicureismo di Lucrezio leggi anche Venus alma genetrix.)

Le sconfinate distese d’Acheronte

Il vocabolo templa, nella poetica di Ennio, si riveste di un significato del tutto particolare, per interpretare il quale occorre dare il giusto peso alla rilevanza religiosa del sostantivo templum soprattutto in rapporto con il cielo. 

A volte, nel De rerum natura, assume il significato basilare di “spazio”, in altri passi detiene il senso concreto di “edificio religioso consacrato alla divinità”, cioè spazio delimitato per il sacro, ma in un numero maggiore di occorrenze templa sta a indicare “spazi del cielo”, “distese aeree”, in unione con caeli, caelestia o mundi; gli Acherusia templa ricoprono quest’ultima accezione, anche se in un contesto infero e non supero, di distese sconfinate sotterranee invece che celesti.

Nella teologia augurale, il templum è locus designatus in aere e, oltre a designare uno spazio liturgico stabilito in terra e nel sottosuolo, il vocabolo indicava anche una ripartizione sacerdotale della volta celeste. Ce ne informa ancora Servio:

Templum enim dicitur locus manu designatus in aere, post quem factum ilico captantur auguria (Aen. 1, 92).

Tale luogo si costituiva consultando Giove (Iuppiter) per mezzo di signa che potevano derivare ex caelo, in particolare ex avibus. Dopo la preghiera, l’augure delimitava lo spazio del cielo e della terra entro cui avrebbe tratto i suoi auspici con il suo lituus, un bastone ricurvo. All’interno di questo spazio così “liberato” e consacrato (liberaretur effareturque, 1, 446) l’augure si posiziona seduto o in piedi, ma stando immobile (inmobiles vel sedere vel stare, 6, 197, o altrove  in locis sacris sedentes, 9, 4). 

(Cfr. A. Maiuri, Variazioni sul lessico topografico infero tra Grecia e Roma, in “SMSR”, 80, 2014, pp. 182-97.)

Charu, Tuchulcha, Vanth e altri demoni

Quella del cratere di Admeto e Alcesti è l’unica, peraltro incerta, testimonianza scritta di un Acheronte etrusco, pertanto merita uno sguardo più attento il contesto entro il quale essa è inserita.

L’iscrizione è posta tra le figure di Alcesti e quella di Charu. Più che un traghettatore, rispetto all’omologo greco Caronte, Charu è propriamente un guardiano: nelle molte rappresentazioni etrusche è ritratto spesso con una grande mazza o un martello, in piedi vicino alla porta degli inferi; ha la pelle blu o grigia, naso adunco, grandi orecchie appuntite e barba.

Charu è raffigurato sul lato sinistro del cratere, indossa un tradizionale chitone corto e stivali alati, entrambi bianchi. Nelle mani reca la caratteristica mazza, o martello, nell’atto di muovere verso Alcesti come per chiamarla a sé, mentre l’eroina avvolge in un ultimo abbraccio il marito. Un modo toccante e intimo di rappresentare le scene di coppia tipico del mondo etrusco. Admeto (Amite) indossa una corona di alloro, porta una corta barba e tiene il braccio sinistro dietro la schiena.

Nella controparte destra di Charu è raffigurato un altro demone sotterraneo, con indosso un chitone lungo e scuro, ali bianche, stivali e cintura bianchi, che si lancia verso Admeto. Ha le orecchie a punta, grandi sopracciglia e un naso adunco, ed i lineamenti sono simili a quelli di Charu. Un tratto caratterizzante rispetto a Charu è la presenza di due serpenti che brandisce tra le mani, uno dei quali è molto vicino ad Admeto.

Sul cratere non c’è alcuna iscrizione che indichi il suo nome ma è possibile identificarlo con Tuchulcha, raffigurato anche sulle pareti della tomba dell’Orco II a Tarquinia.

Dipinto della seconda camera della tomba detta dellOrco II raffigurante Tuchulcha minaccioso verso Teseo, che è entrato nella casa di Ade; altre figure simili sono raffigurate ad esempio sugli affreschi della cosiddetta tomba dei demoni azzurri. Via Wiki Commons

Anche Tuchulcha è un guardiano e sovrintende al giusto ordine degli inferi, per questo la sua rappresentazione sulle pareti delle tombe ha anche la funzione di tenere lontani i ladri e i visitatori indesiderati in generale, proteggendone il contenuto. 

Sul cratere di Vulci, è verosimile che Tuchulcha minacci Admeto in quanto, scampato alla morte poiché la devota sposa Alcesti ha scelto di morire al posto suo, ha sconvolto il corretto ordine delle cose. 

Gli Etruschi furono come ossessionati dal timore dell’inferno, non rappresentando altro nelle loro tombe, per così dire, che Ade con i suoi tormenti e i suoi peccatori:

Vidi ego multa saepe picta, quae Acherunti fierent
cruciamenta, verum enim vero nulla adaeque est Acheruns
atque ubi ego fui, in lapicidinis.
Spesso ho visto i diversi tormenti dell’Inferno, ma sono nulla rispetto agli stenti dei servi condannati alle cave di pietra.

È possibile che il personaggio di Plauto, cioè Plauto stesso, abbia avuto modo di vedere con i propri occhi molte di queste pitture, in Etruria, nel Lazio o a Roma stessa (Captivi, 5, 4, qui la traduzione.)

L’inferno è donna

Dal verso plautino, il solo dal quale possiamo dedurlo, il genere del vocabolo Acheronte è femminile (nulla adaeque est Acheruns), sebbene il corrispettivo greco sia inequivocabilmente maschile; questa mutazione può essere avvenuta nel passaggio tra la lingua greca a quella latina attraverso l’etrusco, che non aveva generi, ma non possiamo ricostruirne esattamente i motivi. 

E chissà se l’identificazione dell’Acheronte con il genere femminile abbia qualcosa a che fare con i «demoni muliebri dallo sguardo sconvolto e dalla chioma agitata», le Lase infernali o Vanθ (Vanth), di solito alati e muniti di fiaccole, che sembrano essere in numero preponderante rispetto ai corrispettivi maschili; è plausibile pertanto che aχrum tra gli Etruschi fosse effigiato al femminile, e come tale i Romani lo conobbero anche dalle pitture.

(C. Pasquali, Acheruns, Acheruntis, in “Studi etruschi”, 1, 1927, pp. 291-301; L. C. Pieraccini, M. A. Del Chiaro, Greek in Subject, Etruscan by Design: Alcestis and Admetus on an Etruscan Red-Figure Krater, in S. Schierup, V. Sabetai (eds.), The Regional Production of Red-figure Pottery: Greece, Magna Graecia and Etruria, Copenaghen 2014, pp. 304-10; cfr. anche T. B. Ramussen, The Imagery of Tomb Objects (Local and Imported) and its Funerary Relevance, in J. MacIntosh Turfa, The Etruscan World, Routledge, London 2013; B. Zannini Quirini, L’aldilà nelle religioni del mondo classico, in P. Xella (a cura di), Archeologia dell’inferno, Essedue edizioni, Verona 1987, pp 300-1.)

in: [ religione_romana ] [ religione_degli_Etruschi ] 

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