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La stirpe di Nyx: le Erinni

Uno dei primissimi esseri creati nelle antiche cosmologie è Nyx, la Notte, figlia del Chaos e sorella di Erebo l’Oscurità. Madre di Hypnos, il Sonno, e Thanatos, la Morte, Nyx generò una numerosa stirpe di esseri più o meno funesti per il genere umano, da sola, «non giacendo con alcuno» (Esiodo, Teogonia). 

Oreste e le Erinni (particolare), Franz Stuck (1905), via Wiki Art

Notte sempiterna che piega al suo dominio / Una sola per tutte, un’unica Erinni / Al di sopra di tutto i diritti di una madre / Un sacrificio espiatorio / Suppliche e maledizioni / Una preghiera agli dei dell’aldilà

Notte sempiterna che piega al suo dominio

Omero la chiama “vincitrice di uomini e dei” e racconta che lo stesso Zeus nutriva un timore reverenziale nei suoi confronti (Omero, Iliade, XIV, v. 259):

καί κέ μ᾽ ἄϊστον ἀπ᾽ αἰθέρος ἔμβαλε πόντῳ,
εἰ μὴ Νὺξ δμήτειρα θεῶν ἐσάωσε καὶ ἀνδρῶν.
τὴν ἱκόμην φεύγων, ὃ δ᾽ ἐπαύσατο χωόμενός περ.
ἅζετο γὰρ μὴ Νυκτὶ θοῇ ἀποθύμια ἕρδοι.

E [Zeus] mi avrebbe gettato negli abissi per non tornare mai più, se Notte non mi avesse salvato, Notte che piega al suo dominio sia gli uomini che gli dei [chi parla è Hypnos, il Sonno, rivolto a Era].
A lei corsi fuggendo e la supplicai, ma Zeus si trattenne, benché fosse adirato, perché temeva di fare qualcosa di sgradevole alla Notte veloce. 

Secondo gli orfici, «padre illustre della Notte sempiterna» è «il glorioso Eros dalla duplice natura, che vede tutt’intorno». L’attributo “sempiterna” è ben motivato dalla presenza pressoché costante della Notte nelle varie teogonie, presentandosi in molte occasioni in veste di nutrice, profetessa e consigliera.

Oltre che in Esiodo (Teogonia, vv. 211-232), Notte compare nella teogonia rapsodica come principio oscuro da cui nasce Tempo, si ripresenta poi come figlia e consorte di Phanes e generatrice della prima razza umana all’interno della sua caverna-santuario. Svolge inoltre il ruolo di consigliera di Zeus, spingendolo allo stratagemma per detronizzare Crono e ad ingoiare infine Phanes per inglobare in sé tutto l’universo.

(Cfr. Le Argonautiche di Orfeo. Introduzione, testo critico, traduzione e commento, Università degli Studi di Firenze, pp. 84-5 e 126-7; leggi anche l’Inno orfico alla Notte.)

Nella letteratura successiva, Nyx è la personificazione dell’oscurità notturna, a volte descritta come una dea alata, e talvolta mentre viaggia su un carro, coperta da una veste scura e accompagnata dalle stelle durante il suo percorso: 

μελάμπεπλος δὲ Νὺξ ἀσείρωτον ζυγοῖς
ὄχημ᾽ ἔπαλλεν, ἄστρα δ᾽ ὡμάρτει θεᾷ:
Πλειὰς μὲν ᾔει μεσοπόρου δι᾽ αἰθέρος
ὅ τε ξιφήρης Ὠρίων, ὕπερθε δὲ
Ἄρκτος στρέφουσ᾽ οὐραῖα χρυσήρη πόλῳ
La Notte dalle scure vesti scuoteva il suo carro a due cavalli per mezzo della coppia aggiogata, e le stelle l’attendevano. Una Pleiade si affrettò nel cielo di mezzo, con Orione e la sua spada; in alto, Arktos ruotava la sua coda dorata...
(Euripide, Ione, vv. 1150-1154, trad. di M. F. Mirto, Bur, Milano 2009; qui il testo greco.) 

Una sola per tutte, un’unica Erinni

Generate dalla Notte, secondo Eschilo (Eumenidi, v. 416), figlie della Terra e del Buio (Σκότος, Scoto) per Sofocle (Edipo a Colono, v. 40), nate dalla Terra e dalle gocce di sangue del suo sposo ferito, Urano, per Esiodo (Teogonia, vv. 185 ss.). Per gli orfici, i quali ritenevano che l’anima umana, per raggiungere lo stato di purità e beatitudine, dovesse affrontare una serie di reincarnazioni, genitori delle Erinni erano Ade (o Zeus infero) e Persefone. 

(Sulla dedica alle Erinni in alcuni documenti orfici, leggi Il Papiro di Derveni.)

La loro dimora è sottoterra, negli Inferi. Fin da Omero, compaiono tra gli spiriti tormentatori che incombono sugli spergiuri e sui malfattori, soprattutto tra coloro che si sono macchiati di crimini famigliari, inseguendoli senza posa e rendendoli folli.

Chiamate anche Manie, o “furie”, quando perseguitarono Oreste per il suo matricidio, le Erinni sono, insieme alle Moire e alle Graie (che vennero al mondo già con i capelli bianchi), il terzo gruppo di “dee vecchie”, divinità antiche, preolimpiche, più antiche di quelle arrivate al potere con Zeus. 

La parola Erinni significa propriamente “spirito dell’ira e della vendetta”. Appaiono per lo più in numero indefinito, ma una tradizione assai diffusa ne tramanda tre. L’una si chiama Aletto (“l’incessante”, “che non ha pace”), l’altra Tisifone (“vendetta”, “uccisione”, “rappresaglia”) e la terza, Megera, l’“ira invidiosa”. Ma può talvolta succedere che ne venga invocata una sola per tutte.

Alate e assetate di sangue (anche se non sempre sono descritte come entità alate), hanno un aspetto terrificante: dai loro occhi cola una bava velenosa, esalano un odore ammorbante, la voce assomiglia talvolta al muggito dei buoi, anche se è spesso paragonata al latrare dei cani, al posto dei capelli hanno serpenti velenosi, possono mostrarsi bianche o nere e brandiscono fiaccole e fruste, costituite da cinghie guarnite di ferro. Tali caratteristiche sono principalmente descritte da Eschilo, che proprio a loro intitola l’epilogo dell’Orestea (Eumenidi).  

Al di sopra di tutto i diritti di una madre

Sono tutte vergini, e appaiono ovunque una madre sia stata uccisa o anche solo offesa. Nelle forme di cagne veloci, elemento in comune con un’altra entità ctonia, Ecate, inseguono tutti coloro che non hanno osservato la consanguineità e l’ordinamento gerarchico che ne deriva. Pur difendendo anche i diritti del padre e del fratello maggiore, al di sopra di tutto pongono i diritti della madre, anche quando non sono basati sulla legge.

Questo tratto contribuì alla loro venerazione, che rimase in vigore, come quella per le Moire di cui sono alleate e quasi doppioni, anche dopo la loro “sconfitta” da parte degli Olimpi: Pallade Atena si schiererà infatti al fianco del fratello Apollo, difendendone la posizione, e ottenendo così la purificazione e la salvezza dell’eroe; fu Apollo, infatti, che indusse Oreste a vendicarsi dell’adulterio di Clitemnestra. 

Le Erinni vendicano ogni trasgressione alla legge, proteggono gli stranieri e i primogeniti, puniscono gli spergiuri, «così che, per timore di esse, “neppure il sole oltrepasserà la sua misura”» (Cfr. W. Otto, Gli dèi della Grecia, ed. digit. Adelphi, 2016). 

Esse sono legate agli spiriti dei morti, in particolare in riferimento alla maledizione che un uomo, morendo, può pronunciare contro il suo assassino, ed è per questo che sono associate all’idea di giustizia. In questo stesso senso anche Dike, per esempio in Sofocle, Antigone, v. 451, è definita collaboratrice e ausiliaria degli “dei di sotto”. 

Oreste inseguito dalle Furie, John Singer Sargent (1921), via Wiki Commons

Un sacrificio espiatorio

Le Erinni sono chiamate anche Eumenidi, “Benevole”, in segno propiziatorio. Uno dei loro nomi rituali è infatti Eumenidi onniveggenti, anche se «le designazioni variano di luogo in luogo» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 42-43). Nei pressi di Megalopoli, in Arcadia, le Eumenidi ricevevano un culto comune con le Cariti.

L’Edipo a Colono di Sofocle si svolge nel demo attico a nord-ovest di Atene, dove Edipo, ormai vecchio e cieco, spera di trovare pace trascorrendovi quel che resta della sua vita. Sullo sfondo un bosco sacro alle Eumenidi, al margine del quale corre un sentiero. Grazie al sacrificio alle terribili dee vendicatrici, «venerabili dall’occhio tremendo» (v. 84), attraverso il quale espierà le proprie colpe riscattando il proprio destino, il vecchio re tebano propizierà grande fortuna alla città di Atene.

(Traduzione e note di F. Ferrari, Bur, Milano 2012; qui il testo greco.)

Appena giunto presso la selva sacra, dopo un lungo peregrinare e atroci patimenti, Edipo dedica una preghiera alle divinità che vi presiedono (vv. 106-110):

Vi prego, dolci figlie del Buio primevo, e prego te, che a Pallade appartieni, Atene, la più onorata fra tutte le città: abbiate compassione del misero simulacro di quest’uomo che ha nome Edipo.

Affinché si compia il destino dell’infelice Edipo, è necessario che egli espii le proprie colpe offrendo un sacrificio appropriato alle divinità cui è consacrato il luogo. Sofocle ne descrive la preparazione in maniera dettagliata, attraverso un dialogo tra il re e il Coro (vv. 469-484):

co. In primo luogo offri loro sante libagioni attinte con mani pure da una sorgente perenne.
ed. E quando avrò tratto questa linfa incontaminata?
co. Ci sono a disposizione dei vasi, decorati con mano d’artista: tu inghirlandane gli orli e le due anse.
ed. Bene. Ma poi come devo portare a termine il rito?
co. Versa libagioni, stando in piedi rivolto verso oriente.
ed. E devo usare le brocche di cui dicevi?
co. Sì. Tre libagioni per vaso, ma l’ultimo vuotalo tutto in una volta.
ed. E come devo riempirlo? Spiegami anche questo dettaglio.
co. Empilo d’acqua e miele, ma non aggiungere vino.
ed. E che devo fare, quando la terra ombreggiata dal fogliame avrà assorbito le libagioni?
co. Allora disponi al suolo con ambe le mani, e per tre volte, nove ramoscelli di olivo. Poi leva questa preghiera...

L’indicazione di non aggiungere vino è ribadita al v. 100, dove Sofocle chiama le Eumenidi «nemiche del vino»; è il motivo per cui le libagioni rituali loro rivolte erano costituite da acqua e miele mescolati con il latte. Anche per Eschilo (Eumenidi, vv. 105 ss.), le libagioni sono sobrie e senza vino; così il fantasma di Clitemnestra le invoca:

ho sacrificato banchetti nella notte solenne su un focolare ardente, in un’ora non condivisa da alcun dio. [...] Ascoltatemi, poiché imploro per la mia vita, risvegliatevi alla coscienza, dee degli inferi! Poiché in sogno io, Clitemnestra, ora vi invoco.

Suppliche e maledizioni

Versate le libagioni, il Coro dà a Edipo le ultime indicazioni su come eseguire la preghiera (vv. 486-492), l’elemento centrale del rito (μέγιστα, v. 485):

Come noi vi imploriamo con il nome di Benevole, così voi accogliete con animo benevolo questo supplice che porta salvezza. Così prega tu stesso, o chiunque altro in tua vece, sussurrando suoni indistinti, senza mai alzare la voce. Poi allontanati e non voltarti indietro. Solo quando avrai compiuto questo rito potrò essere al tuo fianco senza timore.

Il riferimento a Edipo «che porta salvezza» rimanda al suo destino di “salvatore” di Atene, secondo la conclusione della storia così come fu pensata da Sofocle, anche se il termine σωτήριος (sotérios) può essere letto, più genericamente, “in modo che sia salvo”. Dietro l’apparente paradosso tra supplice e salvatore, esiste in questo contesto un forte legame tra l’azione drammatica della supplica e l’apoteosi finale, essendo entrambe complementari alla trasformazione di Edipo in eroe (cfr. P. Burian, Suppliant and Saviour: Oedipus at Colonus, in “Phoenix”, 28, 4, 1974, pp. 408-29).

Concluso il rituale e ingraziatosi le temibili divinità, le Eumenidi sono ora per Edipo delle alleate da invocare nella maledizione rivolta al figlio Polinice, giunto da Tebe per riportare a casa il cieco ramingo e avere da lui manforte contro il fratello e rivale. Polinice è descritto come un giovane misero e sventurato, pieno di rabbia e codardo. Stanco di tutte queste ostilità, per allontanarlo, Edipo gli rivolge un’imprecazione (vv. 1389-1392):

Così ti maledico, invocando in primo luogo l’odiata tenebra del Tartaro, che ti prenda con sé, e invocando queste divinità [le Eumenidi], e invocando Ares, che ha instillato in voi questo spaventoso rancore.
Edipo maledice suo figlio Polinice, Henry Fuseli (1786), via Wiki Commons 

Una preghiera agli dei dell’aldilà

Allontanate le ultime, funeste ombre del proprio passato, Edipo può apprestarsi alla morte con animo rasserenato, in una terra straniera ma ospitale (vv. 1544-1555):

Avanti, e non toccatemi: lasciate che sia io stesso a trovare la tomba sacra dov’è destino che la terra mi ricopra. Ecco, per di qua, venite per di qua: per di qua mi guidano Ermes e la dea sotterranea [νερτέρα, del basso, del sottosuolo: Persefone]. O luce che per me non risplendi ma che un giorno eri mia, ora per l’ultimo giorno il mio corpo ti sfiora. Già mi avvio a deporre nell’Ade l’estrema parte della mia vita. E allora, ospite diletto [il re di Colono, Teseo], siate felici tu e la terra dei tuoi sudditi, e nella prosperità ricordatevi di me, quando sarò morto. Sempre vi accompagni la buona sorte.

Il Coro quindi gli rivolge un augurio affinché il suo ultimo viaggio si compia felicemente, invocando le divinità che presiedono all’aldilà (vv. 1556-1578):

Se mi è dato onorare
di una supplica la dea senza luce [Persefone]
e te, Edoneo Edoneo [altro nome di Ade],
sovrano delle ombre,
allora vi invoco:
che senza travagli
che senza spasimi e grida
lo straniero raggiunga
la pianura dei morti che tutto nasconde,
la casa di Stige.
Se da molti,
se da assurdi dolori fu vinto,
ora un dio gli renda giustizia
e nuovamente lo innalzi.

O dee sotterranee [ὦ χθόνιαι θεαὶ, le Eumenidi]
e tu, belva immane, invincibile [Cerbero]:
davanti a porte molto ospitali
è fama inveterata che tu hai la tua tana
e che latri negli antri,
guardiano indomabile dell’Ade.
Ti prego,
figlio della Terra e del Tartaro [probabilmente Thanatos, la Morte]:
che Cerbero lasci libero il passo
all’ospite che discende
alle infere plaghe dei morti.
Te ne supplico,
dio dell’eterno sonno.

(K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 49-50.; B. Zannini Quirini, L’aldilà nelle religioni del mondo classico, in P. Xella, a cura di, Archeologia dell’inferno, Essedue edizioni, Verona 1987, pp. 269-70.)

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