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Il tempio del Sole e gli arcani sacrifici

Vario Avito Bassiano, conosciuto come Elagabalo, o Eliogabalo, nasce a Emesa, in Siria, tra il 14 marzo 203 e il 13 marzo 204. Penultimo rappresentante della dinastia dei Severi, è stato imperatore dal 218 al 222, quando, appena diciottenne, venne trucidato dai pretoriani insieme a tutti i suoi accoliti: tre anni, nove mesi e quattro giorni di un regno segnato da efferatezze, bizzarrie e perversioni non solo nell’ambito della sfera privata, ma anche religiosa, dal momento che il sovrano provò a introdurre a Roma il culto unico del dio solare cui si era consacrato sacerdote e nel quale volle identificarsi, finendo con il relegare in secondo piano gli stessi dei del pantheon romano. Una impietas che gli si rivelò fatale e che lo ha condannato a una spietata damnatio memoriae

Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888, dettaglio (via Wiki Commons)

Fabulae de luxuria eius / Le scandalose principesse siriache / Omina imperii, presagi funesti / Il tempio del Sole / Gli arcani sacrifici / Elagabalo e le donne / La caduta

Le fonti sulla vita e il regno di Elagabalo sono principalmente tre.

1. Vita Antonini Heliogabali [Helag.], in Historia Augusta [HA] (1-35), raccolta di biografie di imperatori romani da Adriano (117-138) a Carino (283-285). L’unica delle tre fonti scritte in latino, dove trova ampio spazio la narrazione delle perversioni di Elagabalo. 

2. Erodiano di Antiochia, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio (V, 5-8). Scritta in greco, la Storia narra le vicende dell’impero dalla morte di Marco Aurelio, nel 180, al 238, mezzo secolo di scandali e intrighi, nella spirale discendente dell’impero di cui il suo autore, originario della Siria e funzionario a Roma, fu testimone diretto.

3. Cassio Dione, Storia romana (lxxix) (trad. it. con testo greco a fronte in Storia Romana. Libri lxxiii lxxx, a cura di A Galimberti, A. Stroppa, Bur, Milano 2018). Senatore e alto funzionario dell’amministrazione imperiale, Cassio Dione (155-235) dedica a Elagabalo i libri conclusivi della sua opera monumentale, che ripercorre un periodo di forte instabilità politica e profonda crisi istituzionale di cui fu testimone diretto; un periodo che, tra l’avvicendarsi degli imperatori, un’accentuata autocrazia, il declino del ruolo del Senato e della stessa autorità imperiale, tocca con Elagabalo il suo punto più critico. La ricostruzione dei fatti da parte di Dione è supportata da un metodo storico accurato, per cui, laddove non era in grado di riferire i fatti per testimonianza diretta, procedeva attraverso la consultazione degli archivi del Senato, all’interno dei quali veniva conservata la corrispondenza.

Fabulae de luxuria eius

Tutte le fonti coeve sono concordi nel dare un giudizio profondamente negativo del regno del giovane imperatore, denunciandone il lusso e la dissolutezza

A partire da Dione, che ne ricorda tutti i soprannomi denigratori: il falso Antonino, con riferimento al nome Marco Aurelio Antonino assunto dopo l’acclamazione in quanto (secondo una voce divulgata dalla stessa nonna materna) Elagabalo si proclamava figlio naturale di Antonino Caracalla, con il quale sia la madre sia la zia avevano avuto rapporti all’epoca in cui vivevano a palazzo. Il titolo imperiale, per Dione, è pertanto illegittimo. 

Il giudizio di Dione non è solo morale, ma anche politico: il potere imperiale è fondato sull’idea che il Senato è depositario dell’investitura (auctoritas) e che l’imperatore deve appartenere alla classe senatoria. Senza questa legittimazione, l’imperatore è un usurpatore.

Era poi chiamato Assirio, per via della particolare veste tipica dei sacerdoti siriaci che era solito indossare in pubblico, dopo l’assunzione del titolo di sacerdote del dio Sole, e Sardanàpalo, leggendario re assiro dedito ai piaceri della crapula e alla lussuria sfrenata. 

Alcuni appellativi li ricevette invece dopo la morte, segno tangibile della spietata reazione del popolo e dell’esercito romano agli eccessi dell’imperatore: Tiberino, perché, dopo essere stato trucidato, il suo corpo fu gettato nel Tevere, Trascinato (Tractatitius), Impuro (Impurus) e, infine, ludibrium publicum (“zimbello pubblico”).

Anche l’autore dell’Historia Augusta si compiace di riportare un aneddoto infamante (2, 1): Elagabalo era chiamato Vario dai compagni di scuola con allusione al fatto che lo si riteneva concepito vario semine de meretrice utpote (“dal seme di vari uomini, proprio come il figlio di una meretrice”).

Di lui, comunque, si diceva avesse un viso naturalmente bello (Erod. 5.6.10), rovinato, però, dagli abbondanti e vistosi cosmetici con cui usava dipingersi gli occhi e le guance per apparire in pubblico.

Le scandalose principesse siriache

La famiglia di Elagabalo, per discendenza materna, era originaria di Emesa, città montana della Siria situata tra Palmira e il mare, i cui dinasti furono vassalli dei Romani dal I sec. aev al I sec. ev. Famosa per il suo tempio del Sole (ora occupato dalla moschea) e per il culto della pietra nera, fu elevata allo status di colonia e fiorì agli inizi del III secolo. Declinò con la caduta di Palmira, per diventare poi un importante centro del cristianesimo. 

Elagabalo, forse anche per via della giovanissima età, ebbe un rapporto molto stretto con le donne della propria famiglia. Sua nonna materna era Giulia Mesa, chiamata anche Varia, figlia di Giulio Bassiano, sommo sacerdote del dio El-Gabal.

Per Vario Avito Bassiano, dunque, il sacerdozio di El-Gabal era una tradizione di famiglia. Ma c’è chi sostiene che il giovane si fosse rifugiato nel sacerdozio non per devozione, ma per il timore di imboscate dopo la morte del padre (Aurelius Victor, Liber de Caesaribus, 23).

Giulia Mesa aveva trascorso un lungo periodo alla corte imperiale negli anni in cui furono imperatori Severo e Caracalla (Erod. 5, 3, 1-3). Rientrata a Emesa, di cui era originaria, dopo la morte della sorella e per ordine dell’imperatore Macrino, mantenne tutte le sue ricchezze e i suoi privilegi. Con sé aveva due figlie: Giulia Soemiade, la maggiore, talora chiamata anche Soemia o Simiamira, moglie del governatore della Numidia Sesto Vario Marcello e madre di Elagabalo. 

Della sorella minore di Giulia Soemiade, Giulia Mamea, sappiamo che si sposò due volte e che dal secondo marito, Gessio Marciano, ebbe il futuro imperatore Alessandro Severo. 

Queste donne formavano un vero e proprio clan che seppe abilmente intrigare alle spalle di Macrino e manovrare le sorti della successione degli ultimi discendenti della dinastia severa. 

Quando esplode l’insofferenza generale verso le aberranti azioni del sovrano, e già si prefigura la sua caduta, Mesa e Giulia Mamea tolgono il loro favore al nipote e iniziano a tramare per detronizzarlo, sostenendo l’ascesa al trono di quello che sarà l’ultimo esponente della dinastia, Alessandro Severo

Non è chiaro quale sia stata la reale influenza di Giulia Soemiade sulla politica del figlio. L’immagine a lei associata, una dissolutissima mater Augusti che condiziona il figlio e interferisce sistematicamente negli affari di stato, è fondata sulla tradizione (ostile) di Dione, che riduce il regno di Elagabalo a un regime guidato dalla condotta scandalosa delle principesse siriache. Soemiade sostenne il figlio fino alla fine e insieme a lui fu assassinata nel 222.

Anche Alessandro Severo era molto legato alla propria madre. Ritratta – secondo una tradizione ostile – come una donna profittatrice, avida e gelosa del figlio fino a farlo divorziare dalla moglie, morì insieme a lui durante la ribellione di alcuni soldati nel 235, durante la campagna germanica.

Che questo entourage di donne astute e intriganti esercitasse una enorme influenza sul giovane imperatore è confermato da una iniziativa del tutto inusuale che Elagabalo adottò in loro favore, appena proclamato imperatore: fece partecipare la madre e la nonna a una seduta in Senato. “Dopo aver posto alla sua destra e alla sua sinistra Mesa e Soemiade”, dice Dione (lxxix, 17, 2). Notizia riportata anche nell’Historia Augusta, seppure con alcune varianti: Soemiade sarebbe stata ammessa alla prima seduta senatoriale di Elagabalo (4, 1), mentre Mesa vi venne introdotta in più circostanze, poiché il suo prestigio conferiva all’imperatore quella credibilità che egli stesso non aveva a causa dell’inesperienza e della giovane età (13, 3). In ogni caso, è una rara, anche se non inedita, attestazione della presenza delle donne in Senato. Ad Agrippina, madre di Nerone, era stato concesso di partecipare a una seduta, ma celata dietro una tenda.

L’Historia Augusta aggiunge che Elagabalo aveva stabilito sul Quirinale un piccolo Senato di donne (senaculum, id est mulierum senatum), da dove la madre emanava dei decreti relativi al galateo e al bon ton (4, 3-4).

Omina imperii, presagi funesti

L’anno che precede l’incoronazione di Elagabalo (217) è funestato da una serie di omina imperii, eventi di cattivo auspicio, interpretati come segni sfavorevoli che preannunciano la caduta dell’imperatore precedente (Macrino, descritto da Dione come un vile e “straordinariamente pavido”) e tutto quello che sarebbe accaduto in seguito (lxxviii, 25-26). 

A Roma, infatti, un mulo partorì un mulo, mentre una scrofa diede alla luce un maiale con quattro orecchie, due lingue e otto zampe; inoltre, ci fu un grande terremoto, del sangue sgorgò da una condotta e delle api costruirono favi nel Foro Boario [piazza inclusa in un’area anticamente dedicata al mercato dei buoi, perciò detta anche bovarium, che si estendeva lungo la riva sinistra del Tevere, tra il Campidoglio e l’Aventino]. L’anfiteatro [forse un altro rispetto al Colosseo], colpito da alcuni fulmini nel giorno stesso dei Vulcanali, prese fuoco in tal modo che tutto il perimetro superiore e ciò che si trovava nell’arena fu distrutto dalle fiamme, e di conseguenza anche le altre parti, essendosi incendiate, restarono danneggiate. Né l’aiuto umano bastò a estinguere l’incendio, sebbene si facesse affluire tutta l’acqua possibile, come nulla poté la pioggia caduta dal cielo, per quanto copiosa e violentissima: a tal punto l’acqua proveniente da ambedue le parti veniva assorbita dalla potenza dei fulmini e, in parte, anche l’edificio stesso ne uscì danneggiato. […] Tra l’altro, quello stesso giorno il Tevere s’ingrossò ed esondò invadendo il Foro e le vie adiacenti con una tale irruenza da trascinare via persino alcune persone. Inoltre, come ho udito di persona, a certuni apparve una donna dall’aspetto fiero e dalla statura imponente e disse che questi eventi erano quasi nulla, se paragonati a quanto sarebbe accaduto loro in futuro. E così accadde… (lxxviii, 25, 1-5).

La sciagura colpisce la città e l’intera ecumene. I Romani abbandonano la guerra contro i Parti, iniziata nell’estate del 217 e conclusa nel 218 con la battaglia di Nisibi, tra il malcontento e l’indisciplina dei soldati e lo scarseggiare degli approvvigionamenti. Finita la guerra, però, ne comincia un’altra, questa volta interna a Roma. I soldati, esacerbati dalla fatica, irritati per la sconfitta e nel disprezzo dell’imperatore, iniziano a sollevare tumulti.

Busto di Elagabalo, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo, Sala degli Imperatori (foto mia)

Siamo nel 218 e, di nuovo, l’imminente avvento di Elagabalo è annunciato da presagi funesti:

in quei giorni, infatti, si verificò un’eclissi di sole molto visibile e una stella cometa fu vista per lungo tempo. Un’altra stella, poi, che distese la sua coda da Occidente a Oriente per molte notti, provocò in noi grande turbamento, ragione per cui avevamo sempre in bocca quel celebre verso di Omero: «Echeggiò il cielo nella sua ampiezza, e Giove udì» [Il. 21, 388] (lxxviii, 30, 1).

L’acclamazione di Elagabalo, proposto come successore legittimo per via della sua (presunta) discendenza dai Severi, avvenne il 18 maggio del 218 a Raphanae, vicino Emesa, quando aveva appena 14 anni. Dione torna spesso sulla giovane età dell’imperatore ritenendolo per questo inadeguato, privo di istruzione ed esperienza amministrativa. 

Il rovesciamento di Macrino, attribuito all’opera di un certo Eutichiano, è conseguente alla rivolta dei soldati della legio III Gallica, così chiamata perché aveva combattuto al servizio di Giulio Cesare, ma che, dopo due secoli di stanza in Oriente, era principalmente composta da soldati siriaci. Il giorno successivo, il nuovo imperatore entra ad Antiochia. 

Acclamato imperatore, subito il principe si abbandona a ogni nefandezza. Tra il 219 e il 220 tornano a manifestarsi dei prodigi (lxxix, 10),

fra i quali quello della statua di Iside, che sul frontone del suo tempio è rappresentata seduta su un cane: essa, infatti, girò il volto verso l’interno del tempio.

Dione allude probabilmente al tempio dedicato alla divinità egizia Iside-Serapide, edificato nei pressi del Campo Marzio attorno al 43 aev, abbattuto per decisione di Tiberio (19 ev) dopo la limitazione del culto a opera di Agrippa (23 aev) e poi reintrodotto sotto Caligola, per sopravvivere fino al V secolo.

Da Antiochia, Elagabalo invia due lettere, una al Senato e una al popolo di Roma, screditando il suo predecessore e promettendo che sarebbe stato il nuovo Augusto e il nuovo Marco Aurelio. Ma sotto i toni tranquillizzanti serpeggia la velata minaccia che, se qualcuno si fosse opposto, avrebbe fatto intervenire i soldati (lxxix).

Il Senato e il popolo, sebbene sgomenti, furono costretti ad accettare le circostanze. L’Historia Augusta, che riprende una fonte totalmente ostile a Elagabalo, riporta che il giovane principe, prima di giungere in città, aveva inviato a Roma dei nuntii per suscitare entusiasmo. Erodiano, invece, racconta che a Roma era stata inviata una grandissima immagine del principe per abituare il Senato e il popolo al suo aspetto, nonché a introdurre quello che sarebbe dovuto diventare, nei piani del nuovo imperatore, il culto della sua personalità.

Dopo aver soggiornato alcuni mesi ad Antiochia, Elagabalo trascorre l’inverno in Bitinia e poi si dirige verso l’Italia. L’arrivo a Roma può essere datato nell’inverno del 218-219.

Nonostante i toni tranquillizzanti delle lettere inviate prima del suo arrivo, il nuovo imperatore comincia subito un’opera di epurazione. Molti notabili e diversi personaggi illustri vengono messi a morte, governatori e cavalieri che avevano sostenuto Macrino, che non avevano aderito subito alla sua fazione o che non approvavano la sua condotta. 

Mentre, invece, ascendono ai massimi ranghi dello stato gli amici fidelissimi, oscuri personaggi a lui legati, anche di umili origini, tra i parvenu provenienti dal mondo dello spettacolo o appartenenti all’entourage dei liberti: avviati a un’alta carriera fino alla carica di praefectus urbi, quale fu nominato un certo Comazonte, un “buffone”, un “mimo”, un saltimbanco, un uomo che “fin dall’infanzia aveva ballato pubblicamente nel teatro romano” (Erod. 5.7.7). Secondo il giudizio di Dione, questa è stata tra le irregolarità più odiose e manifeste. 

Il tempio del Sole

Uno degli aspetti più evidenti della riforma religiosa di Elagabalo è senz’altro l’introduzione a Roma del culto del sovrano vivente, identificato con il Sole. 

In realtà, Elagabalo (El-Gabal, in aramaico Ilaha Gabal, il “signore della montagna”) è il nome di un’antica divinità, menzionata per la prima volta in una stele del I secolo a Palmira, connessa alla città di Emesa, al tempio dedicato al dio e a un altare recante la dedica “al dio Sole Elagabalo”. Era rappresentata, nonché venerata, nella forma di una pietra conica nera che si diceva precipitata dal cielo (Erod. 5, 3, 5).

Le invocazioni attestate, come (Deus) Sol A/Elagabalus o Invictus Sol Elagabalus, rivelano che il culto venne “solarizzato” in virtù di un’identificazione peraltro arbitraria con Helios.

L’imperatore fece erigere un grande tempio dedicato al dio, il cosiddetto Heliogabalium, definito enorme e magnifico, circondato da numerosi altari: qui l’imperatore si recava ogni giorno a svolgere dei sacrifici (Erod. v, 5, 8, menzionato anche in HA 1, 6 e in Aur. Vict. Caes. 23, 1): aveva sede sul Palatino, vicino il palazzo imperiale, e fu completato tra il 220 e il 221. Ogni mattina, l’imperatore

vi sacrificava ecatombe di tori e un gran numero di pecore. Li poneva sugli altari e ammucchiava aromi d’ogni specie; poneva anche davanti agli altari molte anfore dei vini più antichi e più pregiati, così che i rivoli di sangue si mescolavano con rivoli di vino (Erod. V, 5, 9).

Quindi, l’imperatore-sacerdote danzava intorno agli altari al suono di musiche suonate con ogni sorta di strumenti, accompagnato da donne del suo paese che recavano cembali e tamburi. Le spezie e le interiora degli animali sacrificati venivano portare in vasi d’oro tenuti da alti prefetti, che indossavano vesti lunghe in stile fenicio.

Non è certa l’esatta ubicazione del tempio. Fonti agiografiche indicano il luogo del martirio di san Sebastiano sui Gradus Helagabali (i Gradini di Elagabalo) ed è quindi probabile che il tempio si trovasse dove poi fu costruita l’omonima chiesa. Il sito sorgeva al centro degli Adonaea, una grande area terrazzata sacra al culto di Adone (anche lui dio siriaco) realizzata da Domiziano, occupata da ampi giardini costituiti da monumentali vasi di fiori (leggi anche: I giardini di Adone).

In questo edificio sul lato est del colle prospiciente il clivus Palatino, nel tentativo di unificare in un unico culto le varie manifestazioni della tradizione religiosa romana, Elagabalo aveva fatto riunire tutti gli oggetti sacri più venerandi di Roma: il fuoco di Vesta, il Palladio, gli ancilia (scudi di Marte) e il simulacro di Cibele, rappresentato anch’esso da una pietra nera. 

Il tempio sopravvisse solo pochi anni alla morte di Elagabalo, per poi essere distrutto da un incendio. Il culto venne soppresso e sostituito da Alessandro Severo con quello di Iuppiter Ultor (Giove vendicatore). 

 Sul culto di Cibele e la sua introduzione a Roma, leggi: In deorum Matrem. Inno alla Madre degli dei.

F. Coarelli, Roma, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 190-1; cfr. anche: Il pantheon di Emesa; Eliogabalo.

L’arrivo di Elagabalo è associato direttamente all’entrata in città del nuovo culto solare e alla consacrazione del tempio:

Appena entrato in città, trascurando tutti gli affari delle province, stabilì Eliogabalo come dio sul colle Palatino, vicino al palazzo imperiale; e gli costruì un tempio, al quale intendeva trasferire l’emblema della Grande Madre, il fuoco di Vesta, il Palladio, gli scudi dei Salii e tutto ciò che i romani ritenevano sacro [et Matris typum et Vestae ignem et Palladium et ancilia et omnia Romanis veneranda], proponendo che nessun dio potesse essere adorato a Roma tranne Eliogabalo (HA, 3, 4).

Il solo Erodiano (v, 6, 6) riferisce di un secondo tempio, definito «grande e sontuosissimo», edificato nei sobborghi della capitale. Ogni anno vi si teneva una celebrazione estiva in cui, dal Palatino, veniva traslata la pietra conica, un aerolite, simbolo del dio, con solenni rituali (5, 6-10): il dio Sole era condotto su un carro a sei cavalli, enormi e perfettamente bianchi, scortato come se l’auriga fosse lo stesso dio. 

In onore del dio Sole, le statue di tutti gli dei, insieme alle offerte sacre nei templi, gli ornamenti imperiali e i cimeli di valore, venivano trasportate dalla cavalleria e dall’intera guardia pretoriana.

Pianta e ricostruzione prospettica del tempio di Elagabalo (in Coarelli, Roma, cit., p. 191)

Gli arcani sacrifici 

Tra le irregolarità e le stravaganze introdotte da Elagabalo rispetto alla consuetudine e in spregio al mos, i patri costumi, le fonti annoverano l’introduzione a Roma di una divinità straniera e di averle attribuito “onori assolutamente fuori dal comune”, dandole “anche maggior importanza di Giove medesimo” (Dione lxxix, 11; HA 11, 1-7; Erod. 5, 3, 6-8; 5, 3-4).

Perché, se è vero che i Romani prevedevano che la lista dei propri dei si potesse allungare per includere quelli degli altri, vicini o lontani, con i quali avessero avuto rapporti più o meno amichevoli o duraturi, non era consentita una “abdicazione” o una sconfessione delle proprie divinità in favore di un dio straniero. E comunque, gli dei che entravano nel pantheon di Roma diventavano a tutti gli effetti romani.

Attraverso il voto del Senato, Elagabalo fu nominato sacerdote del dio con il titolo di sacerdos amplissimus dei invicti Solis Elagabali. Poiché il sacerdozio a Elagabalo lo prevedeva, si fece circoncidere e si astenne dal mangiare carne di maiale.

gli inni barbarici che Sardanapalo cantava in onore di Elagabalo insieme alla madre e alla nonna, e gli arcani sacrifici che gli offriva non solo immolando fanciulli e ricorrendo a riti magici, ma anche chiudendo vivi un leone, una scimmia e un serpente nel suo tempio, gettandovi anche dei genitali umani, commettendo diversi altri atti di empietà e servendosi sempre di innumerevoli amuleti (Dione lxxix, 11).

Erodiano (5, 5, 8) riferisce inoltre di sacrifici di tori e di pecore su altari cosparsi di aromi e di vino pregiato mescolato a sangue.

A parte queste nefandezze, Elagabalo fece una cosa che Dione definisce “ridicola” (lxxix, 12-13): fece sposare il dio Sole con una donna, non una qualsiasi certo, ma Urania dea di Cartagine, una statua che si diceva fosse stata eretta da Didone in persona. Dopo averla fatta venire direttamente da Cartagine, la collocò nel Palatium e raccolse per lei doni nuziali da tutti i sudditi.

Questa divinità è identificabile con la cartaginese Tanit, la fenicia Astarte, dea della fecondità naturale (kourotrophos, nutrice di fanciulli), per i Greci Afrodite Urania mentre per i Romani, che chiamavano Astarte Dea Syria, Tanit era Giunone Celeste, entrambe caratterizzate da attributi lunari. Una sorta di ieros gamos, nozze mistiche tra l’aspetto solare e quello lunare, idea aliena alla tradizione religiosa romana che motiva lo sprezzante giudizio dello storico.

— Sulla dualità Afrodite Urania/Afrodite Pandemos leggi anche: La verità, vi prego, sull’amore.

L’imperatore, inizialmente, aveva provato a unire in matrimonio il dio Sole con Minerva, facendo trasferire presso l’Heliogabalium la statua del Palladio, che i romani veneravano nascosta, invisibile. Ma questa unione non durò a lungo, poiché, alla compagnia di una dea “troppo guerriera e amante delle armi”, quale era Minerva, il dio Sole preferì quella della dolce dea cartaginese (Erod. V, 6, 3; HA 6.9).

Elagabalo e le donne

A proposito di ambiguità sessuale, le fonti attestano che Elagabalo “fu sia marito sia moglie, dal momento che egli si comportava tanto da uomo quanto da donna e in entrambi i ruoli commetteva e subiva indicibili perversioni”. Avrebbe inoltre chiesto ai medici di ricorrere alla propria arte per farlo diventare bisessuale tramite un intervento chirurgico nella parte anteriore (Dione lxxix, 5, 5).

Ebbe diverse mogli. La prima si chiamava Giulia Cornelia Paola, sposata tra il 219 e il 220 perché voleva diventare padre al più presto, “proprio lui che non poteva essere nemmeno un uomo” (lxxix, 9, 1). In quell’occasione elargì doni al Senato e all’ordine equestre ed anche alle loro mogli, e offrì un ricco banchetto al popolo e ai soldati. La abbandonò con il pretesto che la donna aveva delle macchie sul corpo, e non rispecchiava i suoi canoni di bellezza.

In seconde nozze sposò Aquilia Severa. Nozze corrotte e sacrileghe, all’apice dell’impietas contro le tradizioni religiose romane perché Aquilia era sacerdotessa di Vesta. Con lei, l’imperatore riteneva di poter generare “figli divini” e, per averla, non solo avrebbe violato l’area sacra del tempio di Vesta con una scorribanda in compagnia dei suoi depravati sodales, ma avrebbe anche profanato il culto tentando di impossessarsi della statua del Palladio lì custodita. Ma anche questo matrimonio durò ben poco.

La bella e nobile Annia Faustina, nipote di Marco Aurelio da parte di madre, vedova di Pomponio Basso che il principe aveva condannato a morte perché non approvava la sua condotta, fu la terza moglie: “la fece sua sposa senza nemmeno concederle di piangere la perdita del marito” (Dione lxxix, 5, 4)

Oltre a queste menzionate, l’imperatore ebbe molte altre mogli e con molte più donne intrattenne relazioni illegittime, abbandonandosi con loro a rapporti promiscui (Dione lxxix, 13).

Elagabalo ebbe anche un marito prescelto, Ierocle, un ex schiavo della Caira per il quale nutriva una passione tanto intensa quanto insana (si faceva picchiare da lui dopo essere stato appositamente scoperto in flagranza di adulterio), che finì assassinato insieme al sovrano nel 222. 

La caduta

Siamo nell’anno 221, il penultimo del breve regno dello stravagante sovrano. Nel desiderio di avere un erede cui delegare le questioni di governo per dedicarsi completamente al sacerdozio, alle funzioni divine e alle gozzoviglie, Elagabalo adotta il cugino di primo grado Bassiano, figlio di Mamea, all’epoca ancora un bambino di 10 o 11 anni: il futuro Alessandro Severo

A suggerirgli l’idea è sua nonna Mesa, che già tramava per detronizzarlo, nel timore che gli eccessi e le eccentricità del nipote (“in tutto e per tutto un idiota senza cervello”, Erod. 5.7.1) potessero ben presto condurre alla rovina tutta la famiglia.

È lo stesso Elagabalo ad attribuire al nipote il nome Alessandro, affermando che era stato il dio in persona a ordinarglielo. E non è questo il solo elemento prodigioso della storia che precede l’introduzione a Roma del futuro Alessandro Severo:

Poco tempo prima, infatti, un daimon apparso da non so dove, che diceva di essere Alessandro il Macedone e che gli assomigliava tanto nell’aspetto quanto nell’abito, era partito dalle regioni intorno all’Istro [Danubio] e aveva attraversato la Mesia e la Tracia invasato dal furore bacchico insieme a quattrocento uomini muniti di verghe di tirso e di pelli di cervo, i quali non provocarono alcun disordine. […] né alcuno osò mai contraddirlo o opporsi […]: anzi, come già anticipato, fu condotto di giorno in una sorta di corteo solenne fino a Bisanzio. Poi, salpato da lì, giunse nella regione di Calcedonia, dove, dopo aver celebrato nottetempo dei riti sacri e aver sotterrato un cavallo di legno, scomparve.

A raccontare questo episodio, di cui era venuto a conoscenza quando si trovava in Asia, è Dione, “convinto che tutto questo sia in realtà avvenuto in seguito all’intervento di un dio” (lxxix, 17-18). E così Alessandro viene nominato Cesare davanti al Senato.

Subito si accrescono le simpatie di tutti nei riguardi del futuro imperatore, che per volere della madre, aveva ricevuto una educazione corretta e modesta, secondo il sistema greco e quello romano. Elagabalo non tarda ad accorgersene e comincia a covare rancore, sdegno e sospetto e a pentirsi di averlo adottato.

Tutti i tentativi di complotto per togliere Alessandro di mezzo, però, falliscono, perché il ragazzo era ben protetto dalla madre, dalla nonna e dagli stessi pretoriani che lo avevano in simpatia. Al culmine di queste tensioni, Elagabalo revoca al cugino-figliastro il titolo di Cesare e quindi l’incarico imperiale. Un’ultima, ennesima provocazione che fa infiammare il popolo e i soldati. Quando, tra 1’11 e il 13 marzo 222, viene trucidato dai pretoriani nello stesso castro pretorio insieme ai suoi servi e compagni, e a sua madre che lo teneva abbracciato, l’imperatore era appena diciottenne. 

I corpi furono decapitati e denudati e trascinati in giro per la città. Quello di Elagabalo fu gettato nel Tevere. Erodiano (5, 8, 9) afferma invece che le salme di Elagabalo e Soemiade furono lasciate insepolte perché potessero essere trascinate e vilipese da chiunque lo desiderasse, finché vennero gettate nelle fogne che affluiscono al Tevere. Nessuno si salvò tra coloro che sotto di lui erano ascesi a ruoli di potere. I pretoriani proclamarono allora Alessandro imperatore e lo condussero nel palazzo.

Quanto al dio Sole, fu bandito definitivamente da Roma.

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