Nell’immaginario collettivo greco, fin dalla remota antichità, devono aver suscitato grande impressione le delegazioni che gli Iperborei, misterioso popolo dell’estremo Nord che si dice appartenesse al dio Apollo, inviavano presso l’isola di Delo con l’incarico di recare doni e offerte al santuario di Apollo e Artemide, tanto che la loro memoria sopravvisse per molti secoli. Queste ambascerie, che giungevano da tanto lontano, erano composte da due a quattro fanciulle e cinque uomini di scorta. Alcune di loro morirono e furono sepolte a Delo e le loro tombe, poste all’interno del santuario, erano divenute a loro volta luogo di culto e venerazione.
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Un popolo fatato / Le ambascerie iperboree / Le sacre offerte / Nelle doglie del parto: Iperoche e Laodice / Ilizia, colei che giunge / Artemide soccorritrice / Un’ode, un cantore, un profeta: Opi ed Ecaerge / Il viaggio nell’aldilà / Due culti diversi
Un popolo fatato
Gli Iperborei sono un popolo leggendario e misterioso di cui sappiamo poco. Delle fonti più antiche, li avrebbero nominati Esiodo ed anche Omero, in dei passi che però sono perduti (Erodoto, Storie, IV, 32).
Tra gli Iperborei e Apollo esisteva un legame molto profondo, legame che fa pensare a un’origine asiatica o settentrionale del dio. Il mitico popolo del Nord si dice infatti appartenesse ad Apollo.
Il poeta Alceo (ca. 625/620-ca. 580 aev), dice che quando Apollo nacque, sull’isola di Delo, suo padre Zeus gli diede una fascia d’oro, una lira e un carro trainato da cigni. Alla guida di questo carro, Apollo sarebbe dovuto andare dalla ninfa della fonte Castalia, “che sgorga da sorgenti d’argento”, presso Delfi, e ottenere da lei giustizia e diritto per gli oracoli della Grecia.
Una volta salito sul carro, però, Apollo fece rotta verso la terra degli Iperborei e vi rimase un anno, lasciando nello sgomento e nell’afflizione gli abitanti di Delfi che lo attendevano e lo supplicavano di arrivare, intonando inni e tenendo danze di giovani attorno ai tripodi. Poi, quando decise che fosse giunto il momento, Apollo si recò a Delfi; era d’estate, gli usignoli cantavano e la terra era splendente.
Trad. ing. anche in Collected Fragments of Alcaeus, Delphi Classics, 2001.
Alceo, Inno ad Apollo, in Lyra Graeca, vol. 1, pp. 318, 320, via Internet Archive |
Per questa caratteristica “ritrosia” di Apollo ad apparire, a manifestarsi e ad essere presente, in molte sedi di culto a lui dedicate come Delfi e Delo si riteneva che nei mesi invernali il dio si ritirasse in luoghi inaccessibili, chiamati Iperborei, dove né per mare né a piedi si può approdare (Pindaro, Pitica 10, 29) e dove vive un popolo beato, una stirpe sacra (ἱερᾷ γενεᾷ, 42) che non muore, non invecchia, non soffre e vive senza paura “della severa Nemesi” (ὑπέρδικον Νέμεσιν, 44). In queste terre felici, le fanciulle danzavano al suono di flauti e lire intrecciando ghirlande di alloro dorato tra i capelli.
Lasciando gli Iperborei nel periodo estivo, Apollo tornava ogni anno presso i luoghi di culto in Grecia, accompagnato dai suoi cigni e salutato dagli inni sacri, portando canti e vaticini.
— Sulla nascita di Apollo a Delo e l’istituzione del culto a Delfi leggi anche il commento all’Inno omerico ad Apollo.
Quel poco che sappiamo sugli Iperborei lo dobbiamo agli abitanti di Delo, di cui Erodoto riporta storie miste di leggenda (Storie, IV, 33, 1). Il loro paese si trovava nell’estremo Nord oltre la “barbara” Scizia, corrispondente alla Russia meridionale, al di là delle terre degli Arimaspi, bellicosi uomini con un solo occhio, e si estendeva fino al mare. Erano di natura mite, in quanto si dice non abbiano mai invaso i loro vicini (Storie, V, 13, 1-2) né siano mai ricorsi alle guerre (πόνων δὲ καὶ μαχᾶν ἄτερ / οἰκέοισι, “vivono senza fatiche e senza battaglie”, Pindaro, Pitica 10, 42-43).
Fin dall’antichità, verosimilmente, devono esserci stati scambi e contatti tra l’Europa settentrionale e quella sud-orientale, anche legati a comuni luoghi di culto in terra greca presso i quali le altre popolazioni venivano a rendere onori e omaggi.
Ma, oltre al motivo mitico fornito dalla poesia e dalla letteratura, non ci sono indizi che collegano questo popolo lontano, barbaro (cioè non greco), in modo così devoto al culto di Apollo, a meno che non si pensi a un gruppo di discendenti di coloni greci che si spinsero verso nord-est, oltre la valle del Danubio e i Carpazi, oppure a una origine nord-asiatica del dio.
Horace Vernet (1789-1863), The maiden’s lament, via Wiki Art |
Le ambascerie iperboree
Per onorare la divina coppia di fratelli Apollo e Artemide, gli Iperborei usavano quindi inviare sacre offerte a Delo attraverso delle delegazioni, composte da alcune fanciulle accompagnate da uomini di scorta (Storie, IV, 33). Alcune di loro, però, morirono a Delo e furono sepolte con tutti gli onori all’interno del santuario.
Gli Iperborei quindi smisero di inviare di persona i loro omaggi, rattristati di non veder ritornare in patria i propri delegati, forse per le difficoltà dovute al lungo viaggio; e così escogitarono un modo originale, e più sicuro, per “spedire” i doni e le offerte.
Si trattava in pratica di una lunga staffetta: le offerte, avvolte in paglia di grano (ἐν πυρῶν καλάμῃ, Storie, IV, 33, 4), venivano lasciate al confine con la Scizia, e a loro volta gli Sciti le consegnavano ai loro vicini occidentali che continuavano a trasportarle fino all’Adriatico (ἐπὶ τὸν Ἀδρίην, Storie, IV, 33, 1). Da qui venivano mandate verso sud dove toccavano il suolo greco, a Dodona, nell’Epiro, per poi scendere per il golfo Maliaco, in Tessaglia, e ancora attraverso l’Eubea, dove la popolazione le trasmetteva di città in città fino a Caristo, quindi a Teno e, senza nessun’altra sosta, finalmente a Delo.
In memoria di questa particolare modalità di spedizione delle offerte sacre, Erodoto accenna all’usanza da parte delle donne della Peonia e della Tracia di compiere i riti per Artemide Regina (βασίλεια, basíleia, Storie, IV, 33, 5) recando le offerte avvolte in paglia di grano (πυρῶν καλάμης).
Le sacre offerte
In cosa consistessero le offerte spedite in questo modo non è chiaro; oltre alle lamine di bronzo nominate nel dialogo pseudoplatonico (vedi sotto, Il viaggio nell’aldilà), solo Pausania parla genericamente di primizie (ἀπαρχαί, Descrizione della Grecia, 1, 31, 2).
Nel De musica (14), l’autore ci informa inoltre che, nei tempi antichi, le ambascerie iperboree che giungevano a Delo per recare i sacri doni erano accompagnate dai suoni di diversi strumenti musicali, flauti, siringhe (zampogne) e cetre, ed alcuni ritenevano fosse lo stesso Apollo a suonare il flauto:
καὶ τὰ ἐξ Ὑπερβορέων δ᾽ ἱερὰ μετ᾽ αὐλῶν καὶ συρίγγων καὶ κιθάρας εἰς τὴν Δῆλόν φασι τὸ παλαιὸν στέλλεσθαι. ἄλλοι δὲ καὶ αὐτὸν τὸν θεόν φασιν αὐλῆσαι.
Sebbene non sia possibile risalire all’esatta cronologia di queste informazioni (φασι, “dicono”, è un riferimento troppo vago), questo passaggio fa supporre che le offerte degli Iperborei, almeno tra il V e il III secolo, giungessero durante una particolare celebrazione quali le grandi feste Delie, o Apolonnie, che probabilmente si tenevano a maggio ed erano collegate alla nascita del dio.
Nelle doglie del parto: Iperoche e Laodice
Le prime due fanciulle iperboree di cui ci informa Erodoto (Storie, IV, 33-34) sono Iperoche (Ὑπερόχη) e Laodice (Λαοδίκη). Furono le prime a portare ad Artemide il tributo che gli Iperborei le rendevano per il rapido parto, e per questo la dea è qui chiamata con l’attributo Ilizia (Εἰλείθυια, Eileíthuia, “colei che giunge”, Erodoto, Storie, 35, 2), per via del suo ruolo di soccorritrice delle donne che la invocano nelle doglie del parto. Ilizia era infatti la dea del travaglio, poi assimilata ad Artemide.
Le tombe di Iperoche e Laodice si trovavano sulla sinistra dell’ingresso al tempio di Artemide, e sopra vi era cresciuto un ulivo sacro (τὸ δὲ σῆμα ἐστὶ ἔσω ἐς τὸ Ἀρτεμίσιον ἐσιόντι ἀριστερῆς χειρός, ἐπιπέφυκε δέ οἱ ἐλαίη, Erodoto, Storie, 34, 2).
In onore delle vergini iperboree che andarono a Delo e vi morirono, le ragazze e i ragazzi di Delo si tagliavano i capelli; le ragazze prima del matrimonio si recidevano una ciocca intonsa, cioè mai tagliata dalla nascita, la avvolgevano attorno a un fuso (ἄτρακτος) e lo deponevano sulla tomba. Anche i ragazzi usavano tagliarsi un ricciolo di capelli, o la prima lanugine di barba, avvolgerlo in un ciuffo d’erba e deporlo sulla tomba. Questo sanciva il loro passaggio alla pubertà.
Ilizia, colei che giunge
A proposito delle vergini Iperoche e Laodice, Erodoto racconta che la destinataria delle offerte recate a Delo dagli Iperborei era Ilizia, dea del travaglio, per il rapido parto. Ilizia ha un ruolo importante nella stessa nascita di Apollo.
Quando, nel suo vagabondare, la dea Leto chiese a tutte le isole di ospitarla per partorire e tutte si erano rifiutate per paura di accogliere il dio potente che doveva nascere, solo Delo, piccola, sterile isola rocciosa, rispose amichevolmente, chiedendo in cambio che il primo tempio fosse costruito proprio lì.
Per nove giorni e nove notti Leto fu in preda alle doglie, trafitta dal dolore, e tutte le dee l’assistevano, tutte eccetto Era, che aveva trattenuto presso di sé Ilizia nascondendola dietro nubi dorate, affinché non aiutasse la sua rivale.
Allora le dee mandarono Iride la messaggera a prendere Ilizia, e le promisero in dono una grande ghirlanda di nove cubiti (circa quattro metri) tessuta di fili d’oro (μέγαν ὅρμον, / χρυσείοισι λίνοισιν ἐερμένον, ἐννεάπηχυν, Omero, Inno ad Apollo, vv. 103-104; il poeta allude forse alle ghirlande di grandi dimensioni usate nelle cerimonie e nelle processioni). Appena messo piede sull’isola, Leto partorì felicemente.
Il collegamento tra Ilizia e gli Iperborei è poi confermato da Pausania, secondo il quale anzi la dea giunse a Delo proprio dagli Iperborei (ἐλθοῦσαν ἐξ Ὑπερβορέων ἐς Δῆλον, Descrizione della Grecia, 1, 18, 5).
Artemis Kourotrophos, 400 aev ca., via Wiki Commons |
Artemide soccorritrice
Il legame tra Ilizia e Artemide è da ricercare in alcuni dei molti attributi della dea cacciatrice, luminosa sorella di Apollo. Seppur vergine, e perciò senza figli, Artemide ha infatti la funzione di soccorritrice delle donne nel momento del parto.
Sarebbe infatti nata per prima, e non sull’isola di Delo ma a Ortigia, toponimo piuttosto diffuso nel mondo greco antico e perciò di difficile identificazione, forse un’isola vicina, ma comunque due località distinte (Inno omerico ad Apollo, v. 16):
τὴν μὲν ἐν Ὀρτυγίῃ, τὸν δὲ κραναῇ ἐνὶ Δήλῳ
partoristi lei in Ortigia e lui in Delo rocciosa.
Con l’aiuto di Artemide, Latona avrebbe poi dato alla luce Apollo (Apollodoro, Biblioteca, 1.4):
γεννᾷ πρώτην Ἄρτεμιν, ὑφ᾽ ἧς μαιωθεῖσα ὕστερον Ἀπόλλωνα ἐγέννησεν
generò per prima Artemide, con l’aiuto della quale partorì Apollo.
Così anche Callimaco, con l’attributo “soccorritrice” (βοηθός, boethós, Inno ad Artemide, v. 153) chiama Artemide in generale per la sua benevolenza, a chi volge sorridente e propizia lo sguardo, ma, in maniera specifica, con riferimento proprio a questa funzione nei confronti delle partorienti (vv. 20-25):
[...] πόλεσιν δ᾽ ἐπιμείξομαι ἀνδρῶν
μοῦνον ὅτ᾽ ἐξείῃσιν ὑπ᾽ ὠδίνεσσι γυναῖκες
τειρόμεναι καλέουσι βοηθόον, ᾗσί με Μοῖραι
γεινομένην τὸ πρῶτον ἐπεκλήρωσαν ἀρήγειν,
ὅττι με καὶ τίκτουσα καὶ οὐκ ἤλγησε φέρουσα
μήτηρ, ἀλλ᾽ ἀμογητὶ φίλων ἀπεθήκατο γυίων.
visiterò le città degli uomini / solo quando, da acute doglie tormentate, / mi invocheranno in aiuto le donne; a loro soccorso, / quando nacqui, mi assegnarono le Moire, / poiché nel parto mia madre — e ancora portandomi in grembo — / non patì doglie, ma senza sforzo mi depose dalle sue membra.
In questo senso, Artemide è una vera e propria dea del parto, come Diana Lucina (attributo che nel mondo romano è condiviso anche con Giunone). Di nuovo Callimaco (Aitia, III):
(Argomento) Quando [le donne] hanno un parto difficile in[vocano] Artemide, che [pure] è vergine: o perché è nata [senza doglie], o perché Ilizia, [per ordine] di Zeus, [le] ha conferito tale onore particolare, o perché, quando sua madre stava partorendo Apollo, fu lei a dare sollievo alle sue doglie.
(fr. 79) E per quale motivo [...] [invo]cano?
Τεῦ δὲ χάριν[...]ο [... κικλήσ]κουσιν
L’epiteto di Artemide perduto nella lacuna potrebbe essere stato proprio Λοχίην, ovvero Λοχεία (Lokheía) o Λοχία, “del parto”, “protettrice del parto”.
Un’ode, un cantore, un profeta: Opi ed Ecaerge
Prima ancora di Iperoche e Laodice, altre due vergini iperboree erano giunte in ambasceria a Delo e vi morirono, e anche di loro rimase grande eco: Arge e Opi (τὴν Ἄργην τε καὶ τὴν Ὦπιν, Erodoto, Storie, IV, 35, 1). Anch’esse hanno la loro tomba all’interno del santuario e un proprio culto.
A differenza di Iperoche e Laodice, che semplicemente recavano doni, Arge e Opi furono investite di un riconoscimento particolare, in quanto si dice che fossero giunte accompagnate dagli dei in persona (ἅμα αὐτοῖσι θεοῖσι, Erodoto, Storie, IV, 35, 2) con riferimento probabilmente alla coppia Apollo-Artemide).
Sia Arge (Ecaerge) sia Opi/Upi, infatti, sono epiteti della stessa Artemide e identificate con la divinità.
A loro viene tributato un culto differente rispetto alle conterranee Iperoche e Laodice. Le donne di Delo le invocano insieme in un inno che Olen, un antico poeta originario della Licia, compose per loro (ἐν τῷ ὕμνῳ τόν σφι Ὠλὴν ἀνὴρ Λύκιος ἐποίησε, Erodoto, Storie, IV, 35, 3) insieme ad altri antichi inni che si cantavano a Delo.
Questa modalità di venerazione delle vergini Arge e Opi era stata adottata non solo dalle donne dell’isola ma anche dalle abitanti della Ionia. Olen fu il primo profeta di Apollo (πρῶτος Φοίβοιο προφάτας, Pausania, Descrizione della Grecia, 10, 5, 8), il primo a cantare gli oracoli in esametri (καὶ ᾁσαι πρῶτον τὸ ἑξάμετρον, 10, 5, 7).
Oltre a Olen, poi, un altro antico poeta, il mitico Melanopo, compose un’ode a Opi ed Ecaerge, giunte dagli Iperborei a Delo ancor prima di Achea (Ἀχαία, epiteto di Demetra di Attica) (Pausania, Descrizione della Grecia, 5, 7, 8).
Le donne di Delo, poi, spargevano sulle tombe di Arge e Opi, dedicando loro, le ceneri delle ossa bruciate sull’altare (di Artemide, presumibilmente), com’era d’uso nei sacrifici, in involucri di grasso insieme ad altre parti della vittima.
Le loro tombe (si trovano dietro il tempio di Artemide (ὄπισθε τοῦ Ἀρτεμισίου) rivolte a est, verso l’alba (πρὸς ἠῶ) (Erodoto, Storie, IV, 35, 4).
Callimaco la chiama Ecaerge (Ἑκαέργη, Hekaérge) da Ἑκάεργος, “lungisaettante”, versione femminile di un epiteto di Apollo. Il nome Opi o Upi (Οὖπις) è invece collegato all’attributo εὐῶπις, dal bello sguardo, dal bel viso (Inno a Delo, v. 292). Ecaerga era anche una ancella di Artemide, figlia di Borea.
Insieme a Ecaerge e Upi, Callimaco nomina anche Loxò (Οὖπίς τε Λοξώ τε καὶ εὐαίων Ἑκαέργη, “Upi, Loxò e la beata Ecaerge”: versione femminile dell’epiteto Loxias (Λοξίας), attribuito ad Apollo, che letteralmente significa obliquo, ambiguo, con riferimento forse all’ambiguità dei suoi oracoli ma anche al corso del Sole e al giro obliquo dello Zodiaco.
Il viaggio nell’aldilà
Nel dialogo pseudo-platonico Assioco (o Sulla morte, 371a) Ecaerga è, assieme a Opi (Upis, Upi), una fanciulla iperborea che ha recato al santuario di Delo delle offerte. Queste offerte erano costituite da lamine di bronzo, su cui era trascritta la descrizione del viaggio dell’anima dopo la morte.
Il passo è questo: per ragioni militari e di sicurezza, il nonno di Serse fu mandato sulla sacra isola e lì avrebbe letto, su delle tavolette di bronzo (ἔκ τινων χαλκέων δέλτων) portate a Delo dalle vergini iperboree Opi ed Ecaerga, che, una volta liberata dal corpo, l’anima viaggia verso la dimora sotterranea (κατὰ τὴν ὑπόγειον οἴκησιν), dominio di Plutone (ἐν ᾗ βασίλεια Πλούτωνος).
Lungo questa strada, i propilei sono saldamente serrati con chiavi di ferro e solo i morti vi possono accedere. Colui che apre le serrature ed entra nel regno, deve poi attraversare i fiumi Acheronte e Cocito prima di essere condotto al cospetto di Minosse e Radamante (ἐπὶ Μίνω καὶ Ῥαδάμανθυν), in quella che viene chiamata la valle della Verità (ὃ κλῄζεται πεδίον ἀληθείας).
Due culti diversi
Il termine con cui Erodoto designa la tomba di Iperoche e Laodice è σῆμα (séma), diversamente la tomba di Arge e Opi è chiamata θήκε (théke); entrambe appartengono a un gruppo di sepolture attestate a Delo nell’età del bronzo. Ma perché questa differenza? Le stesse coppie di vergini, da quello che dicono le fonti, appaiono diverse.
Iperoche e Laodice richiamano l’aspetto di Artemide legato al parto e al passaggio dei fanciulli e delle fanciulle all’età adulta. La devozione nei loro confronti è circoscritta all’isola di Delo e sembra avere luogo nell’ambito di un rituale privato (la deposizione delle ciocche sulle tombe).
Le altre due mitiche fanciulle iperboree, Arge/Ecaerge e Opi, invece, le prime a giungere a Delo, ricevevano un culto più esteso, inserito in un contesto di celebrazioni pubbliche e probabilmente calendarizzate (un inno liturgico, i sacrifici compiuti sull’altare), e sembrano non avere direttamente a che fare con la nascita di Apollo.
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Fonti consultate:
Alceo, Inno ad Apollo (600 aev)Inno omerico ad Apollo (VII sec. aev?)
Pindaro, Odi pitiche (498 aev); Odi olimpiche (476 aev)
Erodoto, Storie (ca. 450 aev)
Callimaco, Inno ad Artemide; Inno a Delo (ca. 270 aev)
Apollodoro, Biblioteca (II sec. aev)
Pseudo-Platone, Assioco (I sec. aev)
Pausania, Descrizione della Grecia (II sec. ev)
Riferimenti: M. Sale, The Hyperborean Maidens on Delos, in “The Harvard Theological Review”, 54, 2, 1961, pp. 75-89; C. T. Seltman, The Offerings of the Hyperboreans, in “The Classical Quarterly”, 22, 3/4, 1928, pp. 155-9. Traduzione e note dell’Inno omerico ad Apollo e di Callimaco in Inni omerici, a cura di G. Zanetto, Bur, Milano 2000; Callimaco, Opere, a cura di G. B. D’Alessio, Bur, Milano 2023.
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