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Sangue di drago e sorellanze feeriche

Pensando alla simbologia mitologica e letteraria, si è soliti richiamare il serpente al maschile, complice anche una tradizione iconografica che ha spesso amato rappresentarlo, tutt’al più, avvinto al corpo di una donna. Eppure sono molti, e più profondi, i legami tra questo animale e il genere femminile: dai “misteri” della preistoria, passando per alcune delle più antiche forme geroglifiche che raffigurano un serpente sormontato da una testa femminile, sembra di poter individuare una “classe” alla quale apparterrebbero le snake maidens, le donne-serpente, eternamente giovani e bellissime.

Le donne serpente / Il segreto delle fate / Possedere e soggiogare / Presso il fiume di fuoco / La giovinezza perduta / Peccato e taboo

Prateep Kochabua, Good dream, 2008, Museum of Contemporary Art Bangkok, via Google Arts and Culture

Le donne-serpente

Tra i personaggi femminili che nel mito e nella letteratura hanno assunto forma di serpente si ricorda certamente Armonia, sposa e compagna di disavventure dell’eroe tebano Cadmo. Egli apparteneva alla quinta generazione dei re primitivi e vantava una discendenza divina del tutto eccezionale che gli assicurò una posizione eminente nel mondo degli dei: suo progenitore era Zeus, Posidone il nonno, Ares e Afrodite i suoceri, inoltre sua figlia Semele, madre di Dioniso, fu assunta in cielo assieme al figlio (cfr. K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 267-74). 

Di peregrinazione in peregrinazione, seguendo le orme di una giovenca che recava su entrambi i fianchi l’emblema della luna piena, Cadmo raggiunse il paese dei Traci e qui si sarebbe fatto iniziare ai misteri. Durante le cerimonie notò, tra le ragazze, la bionda Armonia, figlia di Ares e di Afrodite che, come dice il nome stesso, significa “l’unificatrice”, “colei che riunisce”. 

Le prime nozze terrene si svolsero in Samotracia, sullisola dei misteri. Vi convennero tutti gli dei, che lasciarono per l’occasione le dimore divine portando i loro doni. Lo stesso Zeus avrebbe banchettato al tavolo di Cadmo e Apollo camminava presso il cocchio che scortava il corteo nuziale, trainato da animali straordinari, mentre le Muse e le Grazie onoravano gli sposi con il loro canto (lo riportano Teognide, Poemi elegiaci, vv. 15-18, ed Euripide, Baccanti, v. 881):

ὅ τι καλὸν φίλον ἀεί.
Ciò che è bello rimane caro per sempre.

Fu dopo le nozze, attraversando di nuovo vari paesi alla ricerca della vacca, che Cadmo ricevette il responso dell’oracolo di Delfi, che lo mandava più lontano ancora per assolvere al suo compito di fondatore, dopo aver ucciso “il terribile custode del dio della guerra”. E così giunse in Beozia, dove avrebbe fondato la città di Tebe. Prima della sua azione fondatrice, in questo luogo non esisteva nulla, non viveva alcun popolo, vigeva una solitudine primordiale.

Mentre Cadmo preparava il sacrificio, i suoi compagni furono uccisi da un terribile drago-serpente, rampollo di Ares, che sorvegliava la vicina sorgente sopra la quale abitava, in una caverna. Come l’oracolo aveva predetto, Cadmo si accinse, da solo, a uccidere il gigantesco drago, e lo fece alla maniera corrispondente alla vita “primitiva”, senza armi, senza spada, con una pietra, nudo con un mantello da pellegrino sulle spalle. Dal seme del drago (Atena stessa gli avrebbe consigliato di usare i denti del drago come sementi) nacque dalla terra un popolo di guerrieri.

Non è dato sapere quando e come la coppia divina si fosse veramente trasformata in serpenti (cfr. Apollodoro Mitografo, Biblioteca, 3, 5, 4). Lasciata Tebe su un cocchio trainato da giovenche, si diressero a nord-ovest raggiungendo, attraverso l’Adriatico, la penisola balcanica settentrionale, dove nacque uno dei loro quattro figli, Illirio; si raccontava che un serpente lo avesse cullato tra le sue spire e lo avesse fatto crescere forte. 

Poi i due sposi abbandonarono la terra, accompagnati da Zeus (o Ares) presso l’isola dei Beati. Proprio in Illiria, che prese il nome dal fanciullo, le tombe di Cadmo e Armonia erano ornate con due pietre a forma di serpenti. Ai viventi appaiono come coppia di serpenti.

Il segreto delle fate

Nella tradizione popolare inglese incontriamo la fata Gentilla, nella favola Il principe invisibile (cfr. Fairy tales or The Court of Oberon, London 1828). C’era una volta un principe deforme e di animo malvagio, di nome Furibon, che, invidioso del bello e buon Leandro, figlio del suo istitutore, lo mandò in esilio in un castello lontano. 

Qui Leandro viveva felice: andava a caccia, a pesca, faceva lunghe passeggiate, leggeva e si dilettava con diversi strumenti. Un giorno, mentre suonava il flauto in un boschetto ombroso, vide una grossa vipera dai mille colori meravigliosi, e la portò con sé al castello; nell’attesa che facesse la muta, la mise in una stanza e ogni giorno le recava crusca, latte, frutta e fuori profumati, perciò l’animale iniziò a mostrargli, a suo modo, amore e gratitudine. 

Intanto a corte tutti erano tristi per l’assenza del bel Leandro, provocando ancor di più l’invidia e la gelosia di Furibon. Leandro fu allora costretto a lasciare anche quel lontano castello, se non voleva essere ucciso dal principe durante qualche battuta di caccia. Prima di partire, entrò nella stanza dove teneva il serpente e con sorpresa vide, al suo posto, una bella e giovane donna, dall’aria nobile e maestosa, vestita di seta purpurea e ornata di perle e diamanti, che gli sorrise graziosamente.

Io sono la fata Gentilla, famosa per le sue abili imprese; noi viviamo per cento anni in una fiorente giovinezza, senza dolore né malattie; quando il tempo è scaduto diventiamo serpenti per otto giorni, e solo in questo periodo ogni pericolo può esserci fatale [...] se ci capita di essere uccise, non rivivremo mai più.

Per riconoscenza, la fata Gentilla donò a Leandro un mantello incantato in grado di renderlo invisibile come uno spirito; grazie ad esso, dopo molte avventure in paesi lontani, Leandro riuscì a sconfiggere il malvagio Furibon e a sposare la principessa, con la quale visse felice per molti anni.   

A questa “famiglia” di fate-serpente apparterrebbe anche la bella Melusina «smaltata di blu e di bianco» cantata da Jean D’Arras nel celebre romanzo medioevale scritto nel 1392-93, ispirato a un’antica cronaca di cui, però, non rimane traccia (cfr. M. Grodet, Le secret de Mélusine dans les romans français et l’iconographie aux XIVe et XVe siècles, in “Questes”, 16, 2009, pp. 64-83).

Melusina custodisce un segreto. Figlia di una fata e del re di Scozia, è condannata a trasformarsi in serpente ogni sabato: è la maledizione da scontare per aver rinchiuso il proprio padre in una montagna, colpevole di aver infranto il divieto di andare a trovare la moglie dopo che aveva dato alla luce i suoi figli. Tuttavia, se un uomo l’avesse sposata accettando di non vederla in quei giorni, lei sarebbe diventata una donna come tutte le altre.

E così incontra Raimondo. Il matrimonio si rivela prospero e felice: la fata costruisce per il suo sposo città e castelli e gli dà dieci figli, alcuni dei quali destinati a diventare personaggi importanti. La doppia natura di Melusina, la sua appartenenza al mondo del meraviglioso, non costituisce un problema, fino a questo punto della storia: al suo fianco ha spesso un piccolo drago, che si comporta come un normale animale da compagnia, e lei stessa può trasformarsi talvolta in drago.

Un sabato, spinto dai cattivi consigli del fratello, Raimondo si decide a spiare la moglie mentre fa il bagno, attraverso un buco che egli stesso ha praticato nella porta, e la vede, metà donna e metà serpente (il manoscritto pudicamente tace sulla descrizione di ciò che Raimondo vede, conservando però una miniatura che lo rappresenta). 

Pur continuando entrambi a far finta di nulla, l’incantesimo si spezza e porta con sé una serie di tragiche conseguenze, fino alla pubblica accusa di Raimondo nei confronti della moglie, davanti a una numerosa assemblea. Melusina è quindi costretta a scomparire e vola via sotto forma di drago, continuando però a tornare a casa di notte per prendersi cura dei figli più piccoli.

Il divieto e il silenzio imposti da Melusina al marito hanno lo scopo di proteggere il segreto della sua natura magica, al centro della trama. La sua doppia natura, umana e mostruosa, è priva di effetti negativi fino a quando il segreto è custodito tra le mura domestiche, condiviso tra persone intime e amiche, ma diviene drammatico nel momento in cui il patto viene infranto e il segreto divulgato.

Illustrazione dal Roman de Mélusine, XV sec. (BnF)

Tra i racconti medioevali sulle fate e sul loro mondo meraviglioso, si possono distinguere due filoni. Nei racconti “melusiniani”, appunto, la fata cerca di integrarsi nel mondo degli uomini; in questo caso, il segreto di Melusina risponde a ragioni religiose (acquisire un’anima, cioè trascendere la sua condizione e vivere e morire da cristiana) oltre che amorose (preservare il suo matrimonio). L’altro filone è quello dei racconti cosiddetti “morganiani” dove, al contrario, è l’uomo ad essere letteralmente e figurativamente attratto dal mondo fatato. 

In entrambi i casi, questi amori sono avvolti da segreti: o la fata vieta al suo amante di parlare della loro relazione, oppure gli impone un divieto che, se trasgredito, rivelerebbe la sua vera natura. Il segreto è la condizione per lo sbocciare di un amore innaturale.

Possedere e soggiogare

Non certo in questa forma erotizzata doveva essere pensato il terribile Ahi, il serpente strangolatore, sconfitto da Indra, o prima di lui Vritra, demone di ogni calamità, nuvola senza pioggia, il serpente che morde, o ancora il rosso fratricida Seth o il fiabesco dragone alato che si aggira minaccioso sui villaggi degli uomini. 

Nella sua valenza “malvagia”, il serpente non ha a che fare tanto con il genere femminile quanto con un elemento, l’acqua, ambivalente e pericoloso: l’abbondanza d’acqua è una ricchezza, ma vicino alle fontane succede spesso che vi siano ristagni paludosi e malsani, dai quali ci si “difenderebbe” attribuendo alle prime l’immagine simbolica piacevole di una giovane donna o di un tesoro nascosto, ai secondi quella di un terribile mostro dalle fattezze di rettile.

Alle rappresentazioni “negative” apparterrebbe anche il drago che sputa fuoco della mitologia e del folklore nordeuropei, la pestilenziale creatura che tiene in scacco paesi, città e regni interi con le sue mortali esalazioni, che si aggira di notte, soffiando orribilmente il suo veleno sul mondo addormentato, depredando e divorando senza discriminazioni fino a che i suoi famelici appetiti non siano stati appagati... E quando, allo spuntare del sole, decide di lasciare quella terra distrutta e desolata, pur nella mostruosità se ne vola via con grazia serpentina.

Girl with a Snake, illustrazione, 1802-36 ca., via British Museum

Presso il fiume di fuoco

La figura del drago è tra le più complesse e meno chiare nell’ambito del folklore e delle religioni, e il suo significato non è univoco, ma multiforme e sfaccettato: ogni tentativo di trarne una conclusione generalizzante rischia di travisarne l’essenza. Il drago è un fenomeno storico che nel tempo muta le sue funzioni e le sue forme, e pertanto deve essere studiato nel suo evolversi e non staticamente (cfr. V. J. Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 2004, pp. 336-99).

Contrariamente a quanto avviene nell’iconografia libresca, nelle fiabe popolari il drago non viene mai descritto nelle caratteristiche esteriori del suo corpo e non sempre si dice che è un essere che vola. L’unica costante immancabile del drago è quella di avere molte teste e numerose fauci, immagine ipertrofica della sua capacità di divorare, con un rafforzamento di questa funzione ottenuta mediante la moltiplicazione numerica.

Il suo aspetto, così come ci è noto dalla letteratura, si evolve solo dopo che è stata elaborata la sua funzione mitica e si presenta come l’unione ibrida di due animali che rappresentano l’anima, il serpente per il mondo sotterraneo e l’uccello, per i regni lontani.

Se l’aspetto del drago non è del tutto chiaro, una caratteristica costante del drago nella fiaba è quella di avere un nesso con il fuoco. Il drago porta il fuoco dentro di sé e lo erutta, lo vomita; tuttavia anche l’acqua è in stretta relazione con questo essere. La natura acquatica è anzi peculiare del drago da tempo immemorabile: il mostro regola il flusso delle acque a beneficio degli uomini, ma con lo sviluppo dell’agricoltura questa funzione viene demandata agli dei i quali uccidono il drago e donano agli uomini l’acqua che il drago tratteneva.

Egli è il re dell’acqua, vive nell’acqua e ne è il custode e il difensore. Per gli abitanti dell’Australia sud-orientale il drago, chiamato Kurreja, viene descritto come un mostro simile a un serpente di dimensioni enormi, o un’enorme anguilla, che vive in bacini profondi e perenni e possiede proprietà risanatrici: il malato, nuotando nell’acqua, può riottenere la propria salute.

Le proprietà terapeutiche del serpente-drago, in particolare del suo liquido ematico, sono note dall’antichità e, per tutto il Medioevo, considerate efficaci soprattutto contro le ferite da arma, persino le più letali: gli eroi che sono abbastanza fortunati da procurarsi questo elisir sono resi invulnerabili, come Sigfrido che, ucciso il drago, si bagna nel suo sangue e diviene invincibile. Il serpente-drago è dispensatore di miracolosi rimedi, che salvano gli eroi e concede loro l’immortalità della gloria. 

(La giovinezza di Sigfrido, compresa la vicenda del drago, è raccontata in fonti norrene, in particolare nella Saga dei Völsungar, sotto il nome di Sigurd; ma una tradizione germanica, riscrittura della Saga dei Nibelunghi, ne racconta la vita completa. Cfr. Volsunga Saga, trad. ing. di W. Morris ed E. Magnusson, 1888; The Saga of the Volsungs, trad. ing. di R. G. Finch, 1965. Cfr. anche il William Morris Archive.)

Nelle antiche culture, si pensava che il drago acquatico si trovasse negli stagni, nei bacini, nei fiumi, nel mare: tutti luoghi che fungevano da accesso nell’altro regno: la strada per l’altro regno passa attraverso le fauci del drago e attraverso l’acqua. Questo riconduce al ruolo di guardiano assunto dal drago: stando presso l’acqua o nell’acqua, egli ne è a guardia. Ma anche il drago di montagna riveste questa funzione, in quanto sta a guardia delle grotte che sono accessi all’altro regno. è per questo che il drago vive negli antri

L’elemento igneo e quello acquatico non si contraddicono e non si escludono a vicenda, al contrario convivono nella natura ibrida di questo essere. Il drago acquatico, anche se spaventoso, è inizialmente un essere benefico: è lui a donare l’acqua, eruttandola, e perciò fecondità agli uomini e fertilità alla terra. Quale essere acquatico, oltre che elargire questo bene fondamentale, egli può però abusare dei suoi poteri e cioè trattenere le acque (da qui l’idea del drago inghiottitore) causando la siccità o, al contrario, vomitarne una tale quantità da provocare inondazioni. Il drago è pertanto un essere duplice, e non solo nell’aspetto. Il dualismo nell’immagine del drago rappresenta i diversi stadi evolutivi: originariamente buono, si trasforma nel suo opposto, e solo allora si forma l’idea del drago-mostro condannato a essere combattuto e ucciso.

Lungo questa direttrice si sviluppa successivamente anche l’immagine del drago ctonio (legato al mondo dei morti) e solare. Al contrario di quello acquatico, il drago celeste, frutto di una speculazione posteriore, è sempre e soltanto ostile.

Indipendentemente dalla sua forma, il drago nella fiaba tradizionale compie azioni e svolge precise funzioni, la più importante delle quali è quella di rapire le fanciulle: «arrivò in volo un drago e cominciò ad avvinghiarsi alla principessa», «il drago porta via la principessa sulle ali di fuoco»... Oppure, sotto forma di spirito maligno, si insedia in una fanciulla viva e la tormenta, oppure ancora costringe una fanciulla morta a mangiare i vivi. 

Talvolta egli minaccia, assedia una città e chiede che gli venga consegnata quale tributo una donna da divorare o da sposare. Questo elemento erotico, pure immesso nelle concezioni religiose esistenti e in particolare nell’idea della morte rapitrice, non è tra i più arcaici e compare più tardi (nelle società primitive non c’è posto per manifestazioni di erotismo individuale): mano a mano che procede lo sviluppo sociale prende forma anche l’idea del soddisfacimento sessuale.

Da questi elementi emerge con sufficiente chiarezza il nesso tra il drago e la morte, ma esiste anche una connessione con la nascita: come costruzione simbolica relativamente tarda, il drago, simbolo del fallo, può infatti presentarsi come il principio paterno diventando, dopo qualche tempo, l’antenato, l’avo.

Nel complesso, la fiaba popolare ha tramandato il processo di trasformazione del drago benefattore nel suo opposto, presentandosi ancora una volta come un prezioso deposito di fenomeni culturali da tempo scomparsi dalla nostra coscienza.

La giovinezza perduta

In un capitolo dedicato ai miti di origine della morte, Dario Sabbatucci (Sui protagonisti di miti, Editrice universitaria, Roma 1981, pp. 143-53), commentando un articolo di Brelich su “Smsr” nel 1958, riporta una storia riferita da Nicandro (Theriaka, 343):

Zeus dona ai mortali (hemerioi) la giovinezza come premio per aver denunciato il “ladro del fuoco” Prometeo; i mortali la caricano su un asino; l’asino viene morso al collo da un serpente chiamato dipsas (sete, si diceva che il suo morso producesse una sete ardente); l’asino comincia a bruciare dentro e prega il serpente di togliergli l’arsura; il serpente acconsente, ma vuole in cambio il carico dell’asino; in tal modo s’impossessa della giovinezza, sottraendola ai mortali che da allora “incalza la cattiva vecchiaia”.

In questo mito, che lo stesso poeta ellenistico definisce “antichissimo”, Brelich individua il mito di origine della morte umana, a causa della perdita dell’eterna giovinezza, di cui diviene fruitore il serpente: l’immortalità spettante, in origine, all’uomo, in seguito a un errore, inganno o altro accadimento avvenuto nel tempo del mito, passa al serpente che da allora, cambiando pelle, ringiovanisce periodicamente, mentre all’uomo spetta in sorte la vecchiaia e la morte. 

Per non cadere in riduzioni generiche, è tuttavia da sottolineare che al serpente non spetta, propriamente, l’immortalità, ed è significativo che nel mito greco non si parli di perdita dell’immortalità ma della giovinezza. Questo perché, secondo la specificità della cultura greca, la morte è talmente connaturata alla condizione umana che non è pensabile l’una senza l’altra, neppure nel tempo del mito, quando ancora tutto poteva accadere; al massimo, si arriva a congetturare un “paradiso perduto” in cui l’uomo resta giovane per tutta la durata della sua vita, ma è comunque mortale.

La distanza tra la Grecia arcaica e zone molto lontane nello spazio e, soprattutto, a livello culturale come Sumatra o la Guinea britannica, dove sono state rinvenute varianti di questo tema mitico, è tale da non rendere plausibile una ipotesi diffusionista. A fornire un anello di collegamento è invece una cultura ben più antica di quella greca, ma più vicina nelle forme culturali, cioè quella mesopotamica. 

Nell’undicesimo canto dell’Epopea di Gilgamesh, l’eroe va alla ricerca di un modo per sconfiggere la morte dopo aver perduto il fraterno amico Enkidu (leggi anche: Gilgamesh nella foresta dei cedri). Sotto le sue pressanti richieste, l’immortale superstite del Diluvio, Utanapishtim, gli indica il modo di procurarsi la pianta che in maniera piuttosto esplicita si chiama “l’uomo-diventa-giovane-nella-vecchiaia”. Gilgamesh si immerge fino in fondo alle acque primordiali e riesce a venirne in possesso, ma per breve tempo: infatti un serpente, improvvisamente apparso, gliela porta via prima che possa farne uso. 

Il serpente diventa, questa volta sì in maniera specifica, il fruitore dell’immortalità perduta dall’uomo, il che consente di comprendere meglio anche i miti sull’origine della morte ‒ come quello greco ‒ in cui il serpente compare con altre funzioni. In entrambi i casi, il serpente è posto in alternativa all’uomo come l’immortalità lo è alla condizione mortale umana. 

Diverso ancora il caso del racconto biblico in cui il serpente non fruisce dell’immortalità, ma si presenta come alternativa e in contrapposizione a Dio. In questi miti di perdita dell’immortalità e quindi dell’origine della morte, in qualche modo incentrati sull’azione di un serpente, il cambiamento di funzione denota proprio le differenze e la specificità di ciascuna cultura.

Peccato e taboo

Jung afferma che serpenti e draghi sono rappresentazioni simboliche della paura per le conseguenze dell’infrazione del divieto sessuale per eccellenza, l’incesto, svolgendo al tempo stesso anche la funzione di “guardiani del tesoro”, cioè la madre. Raffigurazioni di alberi avvolti da un serpente, in particolare, sarebbero espressioni di questa simbologia sottintesa, significando la madre che viene protetta dal pericolo (Collected Works, Routledge, London 2015, pp. 1759-60). 

La possibilità che l’incesto accada e al tempo stesso la garanzia che questa infrazione non avvenga ricadrebbero entrambe nell’enigmatico simbolismo serpentino, dove, commenta Jung, la libidine lotta contro la libidine, l’istinto contro l’istinto, l’inconscio è in conflitto con sé stesso, mentre l’“uomo mitologico”, senza alcun sospetto, percepisce tutte le avversità e contrarietà della natura esterna quando in realtà non fa che scrutare sullo sfondo buio e paradossale della sua stessa coscienza...

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