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Una scena di necromanzia nella Pharsalia di Lucano

Nella Pharsalia, o Bellum civile, di Marco Anneo Lucano, sono narrate le vicende legate alle lotte tra Cesare e Pompeo, dall’espisodio del Rubicone fino allo scontro, avvenuto in Tessaglia, a Farsàlo appunto, che segnerà la vittoria di Cesare. Alla vigilia, Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, consulta la maga tessala Eritto per conoscere in anticipo l’esito della battaglia e assistiamo così a una scena di necromanzia: gli incantesimi della maga ridanno breve vita al cadavere di un soldato ucciso che predice l’infausto destino dell’armata pompeiana, ultimo baluardo a difesa della repubblica.  

Eritto, John Hamilton Mortimer

Evocazione dei morti e destino di Roma

Nato a Cordoba nel 39, Lucano era un giovane ed estroso letterato alla corte di Nerone, salvo poi, forse nel 62, trasformarsi in oppositore del regime neroniano, con il progressivo manifestarsi delle tendenze assolutistiche dell’imperatore. 

Influenzato, come lo zio e mentore Seneca, dalle dottrine stoiche, è verosimile che Lucano si fosse formato in ambienti legati alla tradizione repubblicana. Sul piano politico lo stoicismo, scuola filosofica greca che ha goduto di prestigio e fortuna nella cultura latina fin dal II secolo a.C., contrapponeva il concetto di libertas repubblicana a quello di principatus, che porta in sé il rischio di degenerare negli eccessi del dispotismo (sugli influssi dello stoicismo nella letteratura tardoantica leggi anche Astrologia “barbarica”. Gli Aratea di germanico e gli Astronomica di Manilio).

Lo stoicismo a Roma ha contribuito a venare di motivazioni filosofiche l’etica tradizionale romana, a creare un abito morale fatto di senso del dovere e di forza d’animo, giustizia e moderazione, mantenendo vivo il culto dell’antica repubblica. Ha però avuto un ruolo ambiguo nei confronti del potere, nel tentativo di mantenere un compromesso tra ideologia senatoria, in dissenso nei confronti del regime, e realtà del principato. Soprattutto con Seneca, vero e proprio ideologo di regime e coinvolto in prima persona nei delitti di corte, si arrivano a giustificare i peggiori misfatti dell’imperatore in nome della ragion di stato, creando tra gli stoici romani una spaccatura che verrà ricomposta solo con il sangue, dopo la repressione di Nerone. Lucano morì suicida nel 65 dopo il fallimento della congiura di Pisone, nella lunga scia di condanne a morte, esili e suicidi forzati che ne seguì.

Tutto l’episodio dell’evocazione magica del soldato defunto, contenuto nel liber VI, vv. 685-821, è costruito specularmente al libro VI dell’Eneide, che narra la discesa di Enea nell’Ade, in un gioco costante di richiami e opposizioni. Obiettivo di Lucano è quello di rivoluzionare i canoni del genere poetico, opponendosi non alla tradizione romana antica, ma al modello virgiliano, monumento dell’ideologia augustea.

Lucano magico

Il poema di Lucano ha rappresentato la più ricca fonte di terribilia per tutta la letteratura successiva, mediolatina e romanza. Pur rifiutando, per motivi ideologici, il “meraviglioso” della tradizione virgiliana, compresi gli elementi mitici e divini ‒ come stoico, credeva nella predestinazione delle vicende umane ‒, Lucano ricorre spesso a episodi di mantica, secondo le varie tecniche (astrologia, oracoli, aruspicina): anche se il divenire storico è il risultato di un concatenamento necessario di cause ed effetti, in certe condizioni e con certi procedimenti, è possibile conoscere gli sviluppi futuri

Diverso è il caso del rituale descritto nel liber VI, che avviene non nel contesto del culto pubblico, ma segretamente, secondo pratiche magiche che a Roma erano proibite. Alla vigilia della battaglia di Farsalo, per conoscere in anticipo l’esito dello scontro, Sesto Pompeo non si rivolge agli oracoli ufficiali ma a una delle più nefande maghe tessale, l’orribile strega Eritto, come fosse il nefasto preludio alla sanguinosa sconfitta. 

Con questo episodio, e soprattutto con la presenza di Eritto, Lucano mette in scena il soprannaturale macabro e orrorifico, anzi nella descrizione della strega insiste sugli elementi più ripugnanti del suo aspetto e della sua attività, allo scopo di dare più risalto al rovesciamento della profezia di Anchise nell’Eneide in chiave antivirgiliana. Ai vv. 508-510 viene introdotta Eritto:

Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis
Effera damnarat nimiae pietatis Erichtho,
Inque novos ritus pollutam duxerat artem.
La feroce Eritto aveva condannato, tacciandoli di eccessiva pietà, questi
riti scellerati e delittuosi di quella gente crudele ed aveva introdotto
in quell'arte nefanda rituali orrendi.

Fantasmagoria dell’orribile

Il tema prosegue, alla ricerca di effetti sempre più vistosamente terrificanti: Eritto vive presso le tombe abbandonate e i tumuli da cui ha espulso le ombre, il volto terribile è avvolto da chiome arruffate, oppresso da un mortale pallore. Esce solo quando le nuvole nascondono gli astri, ha il potere di inaridire i campi che calpesta, di appestare l’aria e si compiace di sottrarre i cadaveri degli impiccati, di cui raccoglie le viscere e le midolla essiccate al sole. Poiché gli dei temono di ascoltare i suoi carmina maledetti, gode di una particolare libertà e tutto le viene concesso, anche l’impossibile. 

Né esita a uccidere i figli nel seno materno quando i riti richiedono sangue fresco, o a strappare dal rogo le ceneri fumanti dei cari estinti (vv. 564-569):

Saepe etiam caris cognato in funere dira
Thessalis incubuit membris: atque oscula figens,
Truncavitque caput, compressaque dentibus ora
Laxavit: siccoque haerentem gutture linguam
Praemordens, gelidis infudit murmura labris,
Arcanumque nefas Stygias mandavit ad umbras.
non poche volte, perfino, durante il funerale di un congiunto, la spietata strega tessalica si getta sulla cara salma e, imprimendovi baci, ne mutila la testa ed allarga con i denti la
bocca irrigidita del cadavere, sì che, mordendo la parte anteriore della lingua che aderisce all’arido palato, infonde tra le labbra gelate un mormorio ed invia un empio messaggio alle ombre dello Stige.

Alla richiesta di Sesto Pompeo, che la raggiunge mentre è seduta su una roccia scoscesa da dove guarda i campi di Farsalo presto teatro di una immane carneficina, Eritto si dichiara disposta a far rivivere il cadavere di un guerriero morto di recente per ottenere la profezia. 

Ascensio Hermetica

Così la strega Eritto si aggira nel campo dopo una battaglia alla ricerca di un cadavere che avesse le mandibole in buono stato, in modo che potesse usarle per parlare. Trovatone uno appropriato, lo porta nella sua caverna dove ne riempie la bocca con sangue caldo... (Sull’evocazione dei defunti a scopo divinatorio leggi Lessico necromantico.)

Per la ricostruzione delle vicende narrate nella Pharsalia, che copre gli anni 49-47 a.C. (le origini della guerra, il passaggio del Rubicone, la sconfitta di Pompeo per concludersi con il suicidio di Catone, capo dei superstiti delle truppe pompeiane), Lucano si è servito di fonti storiche di prim’ordine; ma l’episodio narrato nel liber VI non trova riscontri altrove, sembra essere frutto della fantasia del poeta, che dallo sviluppo del tema magico trae una forte e intensa gamma di effetti espressionistici. 

D’altra parte è difficile rintracciare corrispondenze tra l’azione rituale della maga e i formulari contenuti in altri testi magici, né sappiamo se Lucano fosse iniziato alle dottrine ermetiche e orfico-pitagoriche, al cui patrimonio comune apparteneva il rituale di Eritto; ma è ragionevole pensare, da parte sua, a una conoscenza almeno indiretta di questi riti.

L’episodio di Eritto non è solamente un excursus ma ha un ruolo cruciale nella costruzione generale della narrazione, è il preludio all’avvenimento centrale del poema e della storia di Roma. L’azione della maga permette al poeta di colorare di pessimismo tutta la vicenda narrata, rinunciando anche alla coerenza filosofica per soddisfare esigenze artistiche e ideologiche. 

(Cfr. L. Paoletti, Lucano magico e Virgilio, in “Atene e Roma”, 1, 4, 1993, pp. 11-26.)

La traduzione integrale della Pharsalia di Lucano è su Progetto Ovidio. Qui il testo originale. La traduzione dei vv. 685-821 è in G. F. Gianotti, A. Pennacini, Società e comunicazione letteraria di Roma antica, Loescher, Torino 1986, pp. 370-9, commento a pp. 34-40.

Pharsalia, liber VI, vv. 685-821

Prima di iniziare il rituale vero e proprio, Eritto si appresta ad invocare le divinità dell’oltretomba (vv. 685-694):

E la sua voce allora. potente più di tutte le erbe nell’evocare gli dei del Lete, mescola prima mormorii difformi, molto diversi dalla lingua umana. Ci sono i latrati dei cani, c’è l’ululato dei lupi, c’è il singhiozzante lamento del gufo e del barbagianni notturno, [690] lo stridore ed il gemito ferino col sibilare del serpente; ne viene insieme il fragore dell’onda che batte gli scogli, del vento che batte le selve, del tuono che squarcia le nubi; l’unica voce di tante cose! E presto altri suoni si levano in cantilena tessalica di lingua che penetra il Tartaro.

E questa è la preghiera, dove non mancano gli attributi delle singole divinità, farcita di particolari raccapriccianti che riguardano la stessa Eritto e le sue pratiche, nel tipico stile lucaniano che tende all’orrido e al ripugnante. La preghiera segue il consueto schema: invocazione, descrizione delle azioni compiute e gradite agli dei, richiesta (vv. 695-719): 

[695] Eumenidi, orrore di Stige, segrete di pena, e avido Chaos inghiottitore di mondi infiniti [Eumenides, Stygiumque nefas, poenaeque nocentum / Et Chaos innumeros avidum confundere mundos], o reggitore della terra che spasimi attendendo la morte degli dei [Dite che attende la distruzione dell’universo], in ritardo per lunghe generazioni, Stige ed Elisi negati ad ogni donna di Tessaglia, [700] Persefone che aborri cielo e madre, terza forma dell’Ecate nostra [Persephone nostraeque Hecates pars ultima] nel cui nome scambiamo segreti, i morti ed io, tu portiere del regno desolato [probabilmente Eaco] che getti le viscere nostre al cane crudele, o sorelle che maneggiate fili per strapparli [le Parche], passatore dell’onda ribollente [705] vecchio ormai stancato dalle ombre che fanno a me ritorno, alle mie suppliche porgete ascolto [exaudite preces] se questa bocca con cui v’invoco è contaminata ed empia abbastanza, se mai digiuna di carne umana non ho cantato questi incantesimi, se spesso vi ho dato i busti gonfi ed aperti lavati col cervello ancora caldo [lavi calido prosecta cerebro], [710] se ogni fanciullo che pose sui piatti vostri la testa e le viscere era vivo e vitale, alle mie preghiere ubbidite [parete precanti]. Non richiediamo un’anima sprofondata nell’antro tartareo e già da tempo abituata alle tenebre, ma che da poco ha perso la luce scendendo fra voi, che s’aggrappa ancora sull’orlo del pallido abisso [715] dell’Orco [primo pallentis hiatu haeret adhuc Orci] e che pure obbedendo ai miei filtri verrà tra i Mani una volta soltanto. Che l’ombra di un soldato ancora nostra vaticini il destino pompeiano al figlio del suo comandante, se le guerre civili hanno meritato bene di voi [si bene de vobis civilia bella merentur].

Il primo tentativo sembra destinato al fallimento, tecnica narrativa cui Lucano evidentemente ricorre per accrescere il pathos dell’azione e rendere più ansiosa l’attesa (vv. 720-729):

[720] Quando con queste parole sollevò la bocca schiumante, vide levata l’ombra del cadavere sgomenta di fronte alle membra esanimi, segrete odiose del carcere antico. Le fa paura discendere nel busto aperto, in viscere e carni spaccate dal colpo mortale. è la sventura d’esser privato ingiustamente dell’ultimo bene che ci riserva la morte, [725] di non poter più morire [A miser extremum cui mortis munus inique eripitur, non posse mori]. Si meraviglia Eritto che questi indugi siano dati al destino e con un vivo serpente nel pugno per rabbia contro la morte flagella il cadavere immoto [irataque Morti verberat immotum vivo serpente cadaver]; poi nelle fenditure della terra aperte dai suoi incantesimi [carmine] manda il suo ringhio alle ombre e rompe il silenzio del regno. 

La preghiera viene rinnovata, ma questa volta con toni furibondi e minacciosi perché le divinità non l’hanno esaudita (vv. 730-749):

[730] Megera indifferente alla mia voce, e Tisifone [Tisiphone vocisque meae secura Megera: di nuovo le Eumenidi], non caccerete quest’ombra infelice a frustate attraverso il vuoto dell’Erebo? Ma col vero nome ormai vi trarrò fuori e le cagne di Stige lascerò sotto la luce dell’alto [in luce superna destituat]; [735] insonne spia di roghi e funerali vi caccerò da tutti gli ossari, vi strapperò dalle bare. E quanto a te che sei solita presentarti agli dei con volto non tuo, davanti a loro ti svelerò Ecate, spettro fatto di putredine, fermando il tuo volto infernale [Hecate, pallenti tabida forma, ostendam faciemque Erebi mutare vetabo]. Rivelerò quali festini ti trattengano, [740] Ennea [Hennaea, Proserpina, perché rapita ad Enna], sotto l’immensa mole della terra, per quale patto concedi l’amore al triste re della notte [maestum regem noctis], per quale tuo contagio non volle Cerere farti tornare. Per te, triarca pessimo del mondo [pessime mundi arbiter, Plutone] negli aperti burrati lancerò Titano [il Sole] a ferirti di rapida luce. Voi non obbedite e dovrò rivolgermi a chi [745] col suo nome di tremiti scuote la terra, colui che scruta la Gorgone in volto, che prostra sotto i suoi colpi l’attonita Erinni, che sta nel Tartaro a voi sconosciuto per cui voi siete i celesti e sull’onde di Stige spergiura?

La descrizione delle modalità con cui il cadavere resuscita riporta vividamente tutti i più macabri dettagli. Il tono è volutamente freddo, tecnico, crudo, puntellato qua e là con qualche “fremito” di particolare efficacia (palpitat artuspercussae trepidant fibrae, subrepens vita, tenduntur nervi...) (vv. 750-760):

[750] Il sangue raggrumato si scaldò ristorando le nere ferite d’un tratto e correndo fluì verso le vene ed in tutte le membra. Nel gelido tronco le fibre irrorate hanno un palpito, la nuova vita vi penetra e fin nelle ossa di già disavvezze si va a mescolare alla morte. Ecco che tutti fremono gli arti, [755] si tendono i nervi e non a poco a poco si leva da terra il cadavere, ma spinto da una forza del terreno d’un tratto è subito in piedi, si spalancano le palpebre sugli occhi. Non ancora figura d’un vivo era già quella d’un agonizzante, inerzia e pallore gli restano [760] e stupisce di giungere al mondo [stupet inlatus mundo].

Per indurlo a parlare e rivelare il futuro, la maga Eritto gli promette di concedergli la pace, ovvero che mai più la sua anima sarà richiamata da lei né da altro mago (vv. 763-773):

per l’intera durata del mondo se m’avrai detto la verità ti renderanno libero [le mie parole] [765] da tutte le arti tessaliche; in tale sepolcro, su tale legname con tal cantilena infernale brucerò le tue membra, sicché poi potrà sempre resistere l’ombra agli incantesimi di tutti i maghi [tali tua membra sepulchro, talibus exuram Stygio cum carmine silvis, ut nullos cantata magos exaudiat umbra]. Questo vale il ritorno alla vita: che formule e filtri non oseranno, quando t’avrò io dato la morte, toglierti il sonno lungo del Lete [nec verba nec herbae audebunt longae somnum tibi solvere Lethes a me morte data]. [770] Ai tripodi ed ai vati degli dei s’addicono le oscure profezie [sors obscura]: chi domanda il vero alle ombre, chi affronta con forza gli oracoli della spietata morte, abbia certezza [certus discedat, ab umbris / quisquis vera petit duraeque oracula Mortis / fortis adit]. Ti scongiuro, non essere restio! devi dire le cose per nome... 

La risposta del soldato emerso dalle ombre è laconica, niente affatto esplicativa. Tutto l’episodio non è evidentemente incentrato sul responso, scontato, che si sapeva dover essere funesto per la coalizione pompeiana, ma sull’azione rituale: «Del tuo destino non chiedere: te lo faranno conoscere le Parche [Tu fatum ne quaere tuum: cognoscere Parcae dabunt] anche se io non lo rivelo. [...] Sventurata progenie, nel mondo non avrete rifugio sicuro [820] più della Tessaglia medesima».

Così dispiegati i destini, il cadavere rimane «dritto e dolente a chiedere ancora di morire» [stat vultu maestus tacito mortemque reposcit, vv. 820-821].

in [ religione_romana ]

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