Passa ai contenuti principali

Il tempo è un mostro che divora. Conclusioni iconografiche su Aion-Chronos

C’è nell’iconografia mitraica un elemento che sicuramente non appartiene al mondo classico: è una figura mostruosa, alata, con la testa di leone, il corpo avvolto nelle spire di un serpente. È una immagine del tempo che ogni cosa divora e consuma; le ali accennano alla rapidità del suo trascorrere, il serpente che si attorciglia, con il capo che di solito poggia sulla testa leonina, allude al ciclo eterno dei moti stellari che presiedono al fluire del tempo¹. I suoi simboli, oltre al serpente e le ali, sono due chiavi, che tiene in mano, con riferimento al sole che nel suo corso apre e chiude le porte del cielo; altri attributi frequenti sono lo scettro, simbolo di signoria che il tempo esercita su tutte le cose, e così il globo, il cratere, l’altare.

Figura leontocefala da Sidone. Qui la divinità si presenta con le braccia distese lungo i fianchi invece che, come usuale, ripiegate in avanti sul petto. Pettazzoni, La figura mostruosa del tempo, cit., tav. VII

L’eresia del tempo infinito

A voler cercare un’origine di questo peculiare personaggio mitraico, non si fatica a risalire al nucleo iranico: sotto il nome Zervân (o Zruvân, il Tempo), l’ortodossia zoroastriana indicava una creatura di Ahura Mazda; quando, sotto la dinastia sassanide, lo zoroastrismo divenne religione ufficiale, fiorì una setta, detta degli zervaniti, che riteneva il “Tempo infinito” (Zervân akarana) il principio superiore e antecedente al Bene e al Male (leggi anche Il Medioevo persiano e il primo mitraismo; sulla specificità del culto di Mithra cfr. Le religioni del mistero, un’introduzione, da un contributo di Ugo Bianchi).

La nozione religiosa del tempo risale quindi al primitivo patrimonio iranico, ma non altrettanto chiara è la sua rappresentazione iconografica, che nell’arte classica non ha eguali. Questa, ad esempio, la descrizione di un rilievo da Ossirinco:
la testa leonina dalla folta criniera è circondata da un ampio nembo radiato che conferisce alla figura un carattere indubbiamente solare [...]. Le ali sono quattro, due alle spalle, volte all’insù, e due sul dorso, volte all’ingiù. Le gambe, dalle anche in giù, sono abbondantemente villose, e terminano con due piedi ferini a zoccolo fenduto con duplice unghia appuntita. Le braccia sono piegate simmetricamente sul petto, dove nel mezzo, fra le due mani, si vede un oggetto oblungo che, integrato probabilmente a colori, rappresentava un fulmine [...]. Le due mani reggono nel pugno chiuso ciascuna una chiave; la destra, in più, una fiaccola. Da ciascuna mano scende un serpente, l’uno a destra fino a lambire la fiamma di un altare, l’altro a sinistra fino ad abbeverarsi in un cratere, simboli complementari del fuoco e dell’acqua. Un terzo serpente esce dalla bocca e scende lungo il fianco destro, fino a lambire anch’esso con la testa le fiamme dell’altare.
Altrove, come nell’esemplare scoperto presso villa Barberini a Castel Gandolfo e conservato ai Musei Pontifici, tra i ciuffi della criniera spuntano due orecchie ferine, e la bocca spalancata lascia intravedere tra le zanne «una grossa lingua che si torce e si appuntisce all’estremità come una fiamma» e altri particolari iconografici riscontrati qui per la prima volta, come gli elementi decorativi (protomi) a tema leonino sull’addome e sulle ginocchia. Inoltre, in alto sul petto, la statua presenta un grande occhio umano aperto. 

Anche le mani, perdute, dovevano essere quattro (e probabilmente reggere ciascuna un oggetto diverso), poiché le braccia si biforcano all’altezza del gomito in altrettanti avambracci. Nella statua di Castel Gandolfo, poi, i serpenti non si avvinghiano attorno alla figura divina ma strisciano sopra due tronchi d’albero ai lati della composizione, uno verso l’alto, l’altro in senso inverso verso il basso.

Figura mitraica da Roma. Il dio è in piedi su un globo, tra le mani strige due chiavi; un serpente si attorciglia a lui tre volte, poi protende la testa in avanti verso il collo del leontocefalo. In Cumont, Textes et monuments, cit.

Roma e il mostro

Le prime raffigurazioni del leontocefalo sono state riportate alla luce a Roma a partire dalla seconda metà del 1500, ma solo nel Settecento sono state collegate alla religione mitraica; Athanasius Kircher la ritenne una divinità di origine egizia, fino all’intuizione del monaco ed erudito Montfaucon (1655-1741), che interpretò anzi il mostro come un’immagine dello stesso Mithra. 

Ma solo verso la fine del XVIII secolo si fa strada l’idea che il leontocefalo fosse una raffigurazione del tempo: l’archeologo danese Jörgen Zoega, in vista a Roma verso il 1800, per primo propose il nome di Aion, che godette di una discreta fortuna, mentre altri (Cumont, di cui si rimanda al fondamentale Textes et monuments figurés relatifs aux Mystères de Mithra, 1896-99) preferirono l’epiteto greco Chronos o Kronos (Saturnus).

L’ombra di Osiride

Continua a rimanere oscura, fino a questo punto dell’indagine, l’origine dei simboli e delle fattezze del dio-mostro. Accertata l’affiliazione mitraica di queste raffigurazioni votive, si riscontrano dei particolari che richiamano con insistenza l’Egitto, al punto che anche le analogie proposte da Kircher non sembrano poi così fantasiose. 

Un altro erudito, Stefano Raffei (1712-1788), aveva notato una vaga affinità formale nelle «lunghe gambe unite e senza mossa, alla maniera delle statue d’Egitto», e le somiglianze si estendono ad alcune rappresentazioni di Osiride in forma di mummia; Cumont stesso ammette con cautela che figure del genere si riscontrano in Egitto, sebbene egli propenda per una derivazione assira.


Personaggio avvolto da un serpente che presenta i segni dello zodiaco, falsificazione moderna, provenienza francese. In Cumont, Textes et monuments, cit.

L’ibrido divino

Un’analogia tra il leontocefalo mitraico e l’Egitto sarebbe confermata anche dalla doppia natura, ferina e umana. Il leone, in particolare, ricorre nelle immagini egizie di Sekmet “la possente”, dalla testa leonina, mentre un “dio leone” (Mios, Miysis) è riscontrato a Leontopoli, nel Basso Egitto. Molto, insomma, nella divinità mitraica sembra riecheggiare quell’hellénisme égyptien dove, per alcuni, se ne sarebbero potute trovare le origini.

Rilievo dal mitreo di Ostia Antica con dedica 190 ev, In Cumont, Textes et monuments, cit.

Eppure resta difficile individuare nell’Egitto la culla del tempo-mostro: qui la presenza del mitraismo, fatte salve alcune testimonianze letterarie del V secolo che accennano a due mitrei ad Alessandria, poi distrutti dai cristiani nel 361 e nel 391, risulta provata solo in epoca tarda, e per mediazione romana. Tranne in alcune località costiere, come appunto Alessandria, questa religione iranica non sarebbe mai penetrata in Egitto, come in altre zone della vasta area ellenistica. Forse alla presenza di una importante guarnigione persiana stanziata a Memfi sin dalla dominazione achemenide si deve il ritrovamento di due rilievi con scene di tauroctonia, e anche un leontocefalo, nudo fino alla cintola e con un lungo drappo a frange annodato sul davanti alla maniera egiziana.

E se i riscontri scultorei sono rari, i papiri tacciono. Il soprannome “Mithres” è attribuito a un certo Marco Aurelio Andronico in un papiro di Ossirinco del 214 ev; prima di questa data, l’unico riferimento è un documento del III secolo aev, proveniente dalla regione del Fajum, dove si parla di un mitreo e di “persiani” di varia origine e provenienza, menzionati in molti altri papiri a partire da quel periodo. Sempre dall’altoegiziana Ossirinco, poi, l’altra testimonianza, citata supra, di un Chronos scolpito a rilievo su una lastra calcarea alta circa un metro di cui rimane traccia di pittura gialla dorata, rossa e azzurra, conservato al Museo di Alessandria.

Il rilievo Colonna in un disegno della Collezione R. Topham, in Rossetti, Il rilievo con leontocefalo, cit., p. 378

La creatura a tre teste

Tra i molteplici simboli che ricorrono nell’iconografia del leontocefalo, uno in particolare colpisce per assoluta originalità: in alcune riproduzioni, come il menzionato rilievo del Chronos mitriaco di Castel Gandolfo, è raffigurato anche un altro animale, seduto sulle zampe posteriori e con tre teste: una di cane, una di lupo e l’altra, quella al centro, di leone. Una creatura simile era stata menzionata da Macrobio (Saturnali, I, 20, 13-14) a proposito del celebre simulacro alessandrino di Serapide sul trono con accanto
la figura di un essere tricipite, la cui testa mediana era di leone, quella di destra di cane mansueto e quella di sinistra di lupo rapace¹.

Questo animale, commenta Macrobio, rappresenta il tempo, e spiega che la testa di leone, posta nel mezzo, corrisponde al presente, quella del cane al futuro e il lupo al passato. La ricerca riconduce quindi, dai giardini dei Castelli romani, di nuovo alla terra bagnata dal Nilo.

Una concentrazione di forze divine

Anche il particolare del numero delle ali trova riscontro in una rappresentazione proveniente dall’Alto Egitto. Non si tratta di un dio leonino ma del dio Bes, che in un’iscrizione viene chiamato Hor il falcone e presenta due coppie di ali spiegate più altre due chiuse a formare la “coda”. La figura è completata da un copricapo adornato di corna d’ariete e serpenti, ed è ritratta nell’atto di incedere su un piano dove un serpente uroboro descrive con il proprio corpo un rettangolo. 

Non solo, ma la composizione è arricchita da altri elementi iconografici animaleschi, come le protomi di serpenti che spuntano dai piedi e dalle ginocchia e otto piccole teste di animali rappresentanti ciascuna una divinità: Hor è il falco, il cane è Anubi, il coccodrillo il dio Sobek e così via, riuniti nella natura “pantea” di Bes, garantendone così una straordinaria efficacia magica e apotropaica.

L’“accumulazione” di forze divine trova espressione anche nell’arte greco-romana: il leontocefalo vaticano, ad esempio, riporta tra le due chiavi un fulmine, simbolo di Giove, in basso un martello e una tenaglia, simboli di Vulcano, e dall’altra parte un caduceo mercuriano, il gallo di Asclepio e la pigna di Attis.

Non solo le ali e le protomi animali ci riconducono nella terra dei faraoni, ma anche l’uroboro, il serpente che si morde la coda: sullo zoccolo cilindrico incastrato a una base marmorea proveniente dal Vaticano, che reca la scritta Numini Invicto Soli Mithrae, è scolpita la decisa curva a “O” di un serpente che attorno alla testa presenta una cresta e dei raggi, simboli solari, mentre nell’ultimo tratto della coda, prima dell’apertura della bocca, si distingue una falce di luna.

I richiami all’Egitto non sono ancora esauriti. In un’altra statua di Chronos proveniente dal mitreo di Sidone, le due chiavi «presentano una specie di manico ad anello che le fa somigliare a due croci ansate (ankh)».

A volersi spingere più oltre, si ricorda che l’iconografia religiosa indiana riporta spesso figure divine con molte braccia, e non è mancato chi abbia ipotizzato la possibilità di un influsso diretto dall’India meridionale verso l’Africa orientale, forse attraverso la civiltà meroitica; ma l’ipotesi, suggestiva, non è supportata dai dati storici, per i quali la statuetta a quattro braccia/ali di Bes risalirebbe a un tempo, la XXVI dinastia, in cui è difficile pensare a una penetrazione culturale indiana. 

Altra questione è la diversa interpretazione delle due nozioni storico-religiose, quella iranica del “tempo infinito” come principio dell’essere e del divenire, e quella egiziana del perenne fluire del tempo scandito dal corso del sole.

Il leontocefalo Colonna

Rilievo in marmo bianco, dalla forma pressoché quadrata, rigida e compatta, alto circa 74 cm. La figura, che campeggia sulla superficie levigata con le gambe leggermente divaricate e le braccia distese lateralmente, ciascuna reggente una fiaccola, è un essere mostruoso dal corpo umano e la testa di leone, vestito di lunghi e aderenti calzoni, il torace nudo. 

Ha quattro ali: due spuntano dalle spalle, due dalla schiena si protendono verso il basso; attorno a ciascuna di essa si avvolge sinuoso un serpente. La testa è massiccia, circondata da una folta criniera lavorata a ciocche concentriche. Al di sotto delle robuste e prominenti ossa frontali, gli occhi sono incavati, le pupille ricavate con fori di trapano. Dalle ampie fauci spalancate, che lasciano ben visibili i canini,

fuoriesce un soffio impetuoso reso plasticamente, che va ad alimentare il fuoco acceso su un altare circolare, ai piedi del mostro².

1. R. Pettazzoni, La figura mostruosa del tempo nella religione mitriaca, in “L’Antiquité Classique”, 18-2, 1949, pp. 265-77.
2. A. M. Rossetti, Il rilievo con leontocefalo del giardino Colonna, in “Archeologia classica”, 45, 2004, pp. 373-92.

Commenti

Articoli correlati