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Le ancelle d’oro di Efesto

Ogni forma artistica, come mezzo di approccio e comunicazione con il divino e il soprannaturale, riceve le sollecitazioni del pensiero religioso e filosofico di cui fa parte. Analogamente alla documentazione letteraria, le opere d’arte offrono una visione multiforme rispetto all’evolversi del pensiero greco, fino alla profonda crisi religiosa del V secolo dovuta al conflitto tra le fitte trame del mito e un nuovo sapere, che portò a rappresentare la divinità in maniera radicalmente diversa da quella tradizionale.

Edward Burne-Jones, The Golden Stairs (1876-80), via Wiki Art

L’immagine vivente del dio

La linea cronologica di sviluppo dell’arte figurativa greca si svolge attraverso una progressiva articolazione dei modelli del reale: da una compenetrazione del mondo umano e divino nel VI secolo aev alla comparsa, tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, di statue mosse e viventi

L’affermarsi del pensiero razionalistico nel V secolo comporta il completo distacco della divinità dalla vicenda umana, per cui la divinità è rappresentata come ξόανον (xoanon), simulacro in legno, fino allo sdoppiamento della sua immagine scultorea, muta spettatrice della realtà umana, figura fuori campo la cui esistenza sfugge ai personaggi dell’azione. Lo xoanon e l’immagine vivente del dio riassumono la rottura all’interno della tradizione religiosa e iconografica.

Il tema del doppio, in particolare, investe la natura stessa della divinità raffigurata. Si tratta di moltiplicazioni iconografiche — sia nella scultura sia nel rilievo — corrispondenti a due o tre differenti nature o culti del dio (ad esempio Atena o Hermes), o associazioni indicanti l’unità di due divinità (come Dioniso ed Hermes o Afrodite ed Hermes).

L’espressione figurativa del divino

Le prime forme d’arte attraverso cui furono rappresentati e venerati gli dei erano chiamate δαίδαλα (dàidala), nella forma di semplici blocchi di pietra o legno, termine che usa Pausania per indicare le statue (Descrizione della Grecia, 9, 3, 2, II sec. d.C.) dal nome di Dedalo, mitico statuario ateniese che fu a Creta ai tempi di Minosse e Pasifae e a cui è attribuita la costruzione del labirinto. Poi, insieme alle espressioni e alle peculiarità delle singole divinità, si svilupparono dapprima le immagini della testa, come segno di attributo intellettuale, quindi il busto e infine la figura intera, che veniva ornata di drappeggi a colori vivaci. 

L’accuratezza dell’espressione e dei dettagli non era dovuta solo alla bravura e alla fantasia dell’artista, ma rispettava rigorosi precetti religiosi che legavano la realizzazione delle statuine a determinate forme, come avveniva in Egitto. 

Il cosiddetto periodo dedalico, nell’arte statuaria, è attestato fino al V secolo ed è contraddistinto dall’apertura degli occhi e dei piedi e dalle mani che si estendono in avanti, mentre prima erano posate lungo i fianchi (vedi anche: L’Apollo di Mantiklos). Gli scultori che si riconoscevano in questo stile erano chiamati Dedalidi e rivendicavano una discendenza diretta dal fondatore della stirpe.

Statue animate 

In conseguenza di questi miglioramenti, gli antichi scrittori descrivono le statue di Dedalo (ovvero dei Dedalidi) come caratterizzate da una peculiare espressione di vita: in particolare Platone (Menexenus) e Aristotele, i cui ultimi due passaggi di Politica (1, 4) sembrano alludere all’esistenza di statue animate meccanicamente, chiamate “autòmata”:
Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo e, come dicono che fanno la statue di Dedalo o i tripodi di Efesto i quali, a sentire il poeta, «entrano di proprio impulso nel consesso divino» (Aristotele, Politica, 1, 4).
Di Dedalo come mirabile costruttore di statue ci parlano Plutarco (Theseus, 18) e di nuovo Pausania (Descrizione della Grecia, 7, 4, 5). Dedalo era maestro in Atene dell’arte della scultura, e quando suo nipote (Calos, Talus o Perdix), al quale aveva insegnato il mestiere, lo superò in bravura, preso da invidia, lo uccise. Per questo gesto fu condannato a morte dall’Areopago e si diede all’esiliò a Creta, dove la fama della sua bravura aveva già raggiunto il saggio re Minosse conquistandone il favore. 

Prodigi divini e grandezza umana

Personaggio mitologico sotto il cui nome gli scrittori greci personificarono i primi sviluppi delle arti della scultura e dell’architettura, tra Atene e Creta Dedalo era un mortale, un artigiano dalle qualità talmente eccezionali da farlo assurgere al rango di eroe la cui storia si intreccia con quella del ciclo cretese

Mentre Dedalo soggiornava a Creta, fu chiamato da Pasifae, moglie di Minosse, perché con la sua abilità costruisse una mucca artificiale dentro la quale nascondersi per potersi accoppiare con uno splendido toro del quale si era innamorata, che si diceva fosse stato mandato da Zeus in persona (Libanio, 314-392/393 ca., Narrationes, 23 e Mythographus Vaticanus 1. 47). L’inganno ebbe successo e la regina partorì un bambino con la testa di toro, il Minotauro, che visse nascosto nei più interni recessi del labirinto dai mille meandri, altro ingegnoso artificio di Dedalo.

L’epilogo della sua vicenda mortale ci è noto attraverso Ovidio (Metamorfosi, 8 188). Dopo la morte del figlio Icaro, caduto nel mar Egeo durante un tentativo di volo, Dedalo parte di nuovo e approda in Sicilia presso Cocalo, re dei Sicani, e quindi in Sardegna (Igino, Fabulae 40, 44). E ancora, secondo Diodoro, Dedalo fu anche in Egitto dove imparò l’arte statuaria e fu venerato come un dio. Secondo Luciano (De astrologia, 14 ss.) fu maestro nella scienza delle stelle e trasmise il proprio sapere a suo figlio, il quale perse la ragione e precipitò negli abissi della follia. 

A Dedalo si ascrivono numerose opere d’arte di eccezionale fattura e dalle proprietà portentose, come il coltello magico dalla splendida lama, che non poteva colpire il suo padrone, donato dagli dei a Peleo come premio della sua virtù (in Apollodoro Mitografo, grammatico ateniese del II sec aev, 3, 13, 3). Molti santuari in Grecia, Italia e Libia sono attribuiti alla sua mano, come il tempio di Afrodite sulla sommità del monte Erice (dei templi di Apollo a Capua e Cuma ci parla Virgilio, En. VI, 14), e molte statue in legno, ora perdute, descritte nelle fonti antiche (Pausania): di Artemide Britomartis e di Atena a Creta, di Eracle in Beozia, a Corinto, in Arcadia e così via.

Maestro in molte discipline, dall’architettura navale alla carpenteria, a Dedalo è riconosciuta una grande abilità nel combinare arte e meccanica. I suoi strumenti del mestiere sono l’ascia, la sega, il filo a piombo e la colla. 

Le ancelle d’oro di Efesto

Considerata la grande e diffusa fama di Dedalo, è strano che Omero non lo nomini se non in un passo oltretutto dubbio (Iliade 18, 591), inserito nella descrizione dello scudo di Achille, dove si dice che per la principessa Arianna egli costruì un bel luogo per danzare (o un gruppo di danzatori) in pietra bianca. Questa assenza fa supporre che Dedalo non sia, per Omero, un personaggio a sé, con una propria trama mitologica, ma un attributo dei dio Efesto, il prodigioso artigiano divino, il fabbro degli dei nella cui misteriosa fucina si compiono prodigi, si muovono figure meravigliose e si esercitano poteri soprannaturali. 

Efesto sapeva plasmare con metalli preziosi creature animate, ambigue, in grado di interagire, del tutto simili nell’aspetto agli originali umani. L’eccezionalità di questa dote non consiste solo nella bellezza della fattura, ma nella capacità di infondere la vita. Al contrario Dedalo, seppure dotato di una abilità tale da essere ritenuto capace di compiere miracoli, è pur sempre un mortale e le sue opere non prendono vita perché in loro la vita è solo un’illusione.


K. Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, 2002, pp. 98 e 452 ss.
M. Pugliara, Il mirabile e l’artificio: creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, L’Erma di Bretschneider, 2003, pp. 49 ss., 79 ss., 161 ss.
M. De Cesare, Le statue in immagine: studi sulle raffigurazioni di statue nella pittura vascolare greca, L’Erma di Bretschneider, 1997, pp. 77 ss.

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