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Gli dei degli oggetti

Non diremo che Italo Calvino era politeista. Era uno scrittore profondamente laico, sebbene, nelle Lezioni americane (Rapidità), ammetta di tributare «un culto speciale» a Hermes-Mercurio, dio della comunicazione e della mediazione, sotto il nome di Thoth inventore della scrittura. Calvino non era politeista, almeno non in senso propriamente “religioso”. E tuttavia, i mondi — e le città — di cui scrive, fondati su “connessioni invisibili” dove regna la dispersione, sono spesso popolati da divinità poliadi che richiamano il pantheon greco-romano. O come gli “dei degli oggetti” a cui rende omaggio il signor Palomar nel suo personalissimo pantheon domestico, piccoli dei nascosti nelle cose e nelle stratificazioni della coscienza. 

Man Ray, Venus Total Eclipse, 1934 (via Google Arts & Culture

Un culto speciale a Mercurio

Ecco, per esteso, cosa scrive Calvino nella sua seconda Lezione americana:

Ma tutti i temi che ho trattato questa sera [...] possono essere unificati in quanto su di essi regna un dio dell’Olimpo cui io tributo un culto speciale: Hermes-Mercurio, dio della comunicazione e delle mediazioni, sotto il nome di Thoth inventore della scrittura, e che, a quanto ci dice C. G. Jung nei suoi studi sulla simbologia alchimistica, come “spirito Mercurio” rappresenta anche il principium individuationis.

Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e disinvolto, stabilisce le relazioni degli dei tra loro e quelle tra gli dei e gli uomini, tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti. Quale migliore patrono potrei scegliere per la mia proposta di letteratura?

Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle corrispondenze tra psicologia e astrologia, tra umori, temperamenti, pianeti, costellazioni, lo statuto di Mercurio è il più indefinito e oscillante. Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. 

Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero. Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute. Certo il mio carattere corrisponde alle caratteristiche tradizionali della categoria a cui appartengo: sono sempre stato anch’io un saturnino, qualsiasi maschera diversa abbia cercato d’indossare. Il mio culto di Mercurio corrisponde forse solo a un’aspirazione, a un voler essere: sono un saturnino che sogna di essere mercuriale, e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte.

Ma se Saturno-Chronos esercita un suo potere su di me, è pur vero che non è mai stato una divinità di mia devozione; non ho mai nutrito per lui altro sentimento che un rispettoso timore. C’è invece un altro dio che ha con Saturno legami d’affinità e di parentela a cui mi sento molto affezionato, un dio che non gode d’altrettanto prestigio astrologico e quindi psicologico non essendo il titolare d’uno dei sette pianeti del cielo degli antichi, ma che pur gode d’una gran fortuna letteraria fin dai tempi d’Omero: parlo di Vulcano-Efesto, dio che non spazia nei cieli ma si rintana nel fondo dei crateri, chiuso nella sua fucina dove fabbrica instancabilmente oggetti rifiniti in ogni particolare, gioielli e ornamenti per le dee e gli dei, armi, scudi, reti, trappole. Vulcano che contrappone al volo aereo di Mercurio l’andatura discontinua del suo passo claudicante e il battere cadenzato del suo martello.

Anche qui devo riferirmi a una lettura occasionale, ma alle volte idee chiarificanti nascono dalla lettura di libri strani e difficilmente classificabili dal punto di vista del rigore accademico. Il libro in questione, che ho letto quando studiavo la simbologia dei tarocchi, si intitola Histoire de notre image, di André Virel (Genève, 1965). Secondo l’autore, uno studioso dell’immaginario collettivo di scuola — credo — junghiana, Mercurio e Vulcano rappresentano le due funzioni vitali inseparabili e complementari: Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva. 

Mercurio e Vulcano sono entrambi figli di Giove, il cui regno è quello della coscienza individualizzata e socializzata, ma per parte di madre Mercurio discende da Urano, il cui regno era quello del tempo “ciclofrenico” della continuità indifferenziata, e Vulcano discende da Saturno, il cui regno era quello del tempo “schizofrenico” dell’isolamento egocentrico. Saturno aveva detronizzato Urano, Giove aveva detronizzato Saturno; alla fine nel regno equilibrato e luminoso di Giove, Mercurio e Vulcano portano ognuno il ricordo d’uno degli oscuri regni primordiali, trasformando ciò che era malattia distruttiva in qualità positiva: sintonia e focalità.

Da quando ho letto questa spiegazione della contrapposizione e complementarità tra Mercurio e Vulcano, ho cominciato a capire qualcosa che prima d’allora avevo solo intuito confusamente: qualcosa su di me, su come sono e su come vorrei essere, su come scrivo e come potrei scrivere. La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe prendano forma gli attributi degli dei, cetre o tridenti, lance o diademi. 

Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio d’immediatezza ottenuto a forza d’aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera.

«Una folla di dei imperiosi»

Gli dei ai quali crede il signor Palomar si nascondono negli oggetti quotidiani; ogni mattina aprendo la finestra saluta e interroga gli dei delle tende, gli dei dei vetri, gli dei del davanzale, delle persiane; più in là gli dei della finestra di fronte, della grondaia, del lampione.

(La coscienza del signor Palomar è fatta di molti strati sovrapposti, sottili e trasparenti come scorze di cipolla; ogni scorza racchiude una diversa concezione del mondo o metodo di pensiero o religione; una di queste scorze non ha dubbi sull’esistenza degli dei.)

Sono una folla di dei piccolissimi e imperiosi; non si presentano mai isolati ma in gruppo, appollaiati sugli oggetti attraverso i quali esercitano il loro dominio; non hanno nomi che li distinguano, ma gli dei dell’attaccapanni sono inconfondibili dagli dei del soprabito, gli dei del portaombrelli da quelli del paracqua.

Forse sono l’ultimo residuo della potenza dell’Olimpo polverizzata dopo il crollo: la buca delle lettere riflette i doni di Mercurio, il termosifone raccoglie l’eredità di Vesta, lo zerbino rinnova sul pianerittolo la presenza di Giano bifronte. (Le scorze che credono agli dei, nella cipolla mentale del signor Palomar, sono più d’una, e gli permettono ora di ricorrere al sistema greco-romano rinascimentale, ora a Brahma, Shiva, Visnu, ora alle inesauribili risorse dell’animismo primitivo.)

Le grandi energie delle origini animano ancora gli dei degli oggetti, ma come fossero agli ultimi guizzi: le forze della vegetazione spirano nella sigaretta, le potenze astrali scintillano nell’accendino, le divinità sotterranee covano nel portacenere. Solo il messaggio di queste ultime non illude e non delude sulle sorti umane; per questo i portacenere ispirano al signor Palomar un devoto orrore.

Attraverso gli oggetti i piccoli dei interferiscono nel comportamento degli uomini: gli dei del cacciavite, ostinati e analitici, perpetuano l’idea che il mondo si può scomporre e ricomporre; gli dei del chiodo e del martello impongono arbitrarietà ed esattezza nella scelta d’un punto nello spazio tra tutti i punti possibili; gli dei delle forbici insinuano la loro ferocia mutilatrice nei lavori più miti.

Il signor Palomar sa di portare con sé dei che esercitano influssi divergenti distribuiti nelle sue tasche. Nelle chiavi di casa abitano Lari rassicuranti e introversi che si esprimono in uno scatto di serratura sempre uguale; nelle chiavi della macchina demoni nervosi e centrifughi che si manifestano nella sfrigolante balbuzie del motorino d’avviamento. Il predominio di queste presenze possessive e metalliche è reso meno assoluto dal fluttuare nelle tasche di qualche biglietto della metropolitana o dell’autobus, che danno asilo a dei umili, labili, fedeli.

Preoccupati emissari di Plutone si contraggono nelle monete e nei biglietti di banca: non parlano che a numeri. Mentre gli dei del libretto degli assegni trattengono il respiro sospesi nel vuoto, nel silenzio degli spazi non scritti.

Il signor Palomar sfila di tasca la penna per stendere un elenco degli dei cui non deve mancare di rendere un pio omaggio ogni giorno. È una penna a sfera, abitata da dei che volteggiano fluenti sulla carta e concedono per un momento al signor Palomar l’illusione che il suo pensiero scorra lineare e continuo; poi s’impuntano, tossicchiano, si raggrumano: il corso del pensiero si fa ora sbiadito ora sbavato, l’anima d’inchiostro s’estenua, i suoi dei hanno ormai abbandonato la penna che graffia il foglio bianco senza lasciare altra traccia.

Ricordare il futuro

Il signor Palomar, rileggendo l’Odissea, si era soffermato sul fatto che il primo e maggior pericolo che Ulisse corre è quello di perdere la memoria: non la memoria del passato, ma quella del futuro, del punto d’arrivo del suo viaggio. Eduardo Sanguineti ha commentato e integrato queste osservazioni con molta finezza. A proposito dell’espressione omerica: «scordare il ritorno», Sanguineti scrive:

Perché non bisogna dimenticare che il viaggio di Ulisse non è mica un viaggio d’andata, ma un viaggio di ritorno. E allora c’è da domandarsi un momento, proprio, che razza di futuro gli sta davanti: perché quel futuro che Ulisse si va cercando è poi il suo passato, in verità. Ulisse vince le lusinghe della Regressione perché è tutto proteso verso una Restaurazione. Si capisce che un giorno, per dispetto, il vero Ulisse, il grande Ulisse, sia diventato quello dell’Ultimo Viaggio: per il quale il futuro non è niente un passato, ma la Realizzazione d’una Profezia — cioè d’una vera Utopia. Mentre l’Ulisse omerico approda al recupero del suo passato come un presente: la sua saggezza è la Ripetizione, e lo si può riconoscere bene dalla Cicatrice che porta, e che lo segna per sempre.

Sanguineti dice bene, e non è che il signor Palomar si fosse dimenticato che il futuro di Ulisse nell’Odissea è soltanto un ritorno al passato, la restaurazione dei suoi diritti al trono di Itaca. Ma ha anche pensato che nel linguaggio dei miti, come in quello delle fiabe e nel romanzo popolare, ogni impresa apportatrice di giustizia, riparatrice di torti, riscatto da una condizione miserevole, viene di regola rappresentata come la restaurazione d’un ordine ideale anteriore; la desiderabilità d’un futuro da conquistare viene garantita dalla memoria d’un passato perduto.

Ulisse o Guerin Meschino o Robin Hood prima di subire le loro traversie erano re o figli di re o nobili cavalieri, insomma la premessa da cui si parte è un passato visto come regno della giustizia, al quale è succeduto, per colpa d’una usurpazione, uno stato d’infelicità o d’ingiustizia, l’eroe, trionfando sui suoi nemici, restaura la società dei giusti e riesce a far riconoscere la sua vera identità.

Resterebbe da chiedersi la ragione della fortuna che questi racconti di restaurazione hanno sempre avuto presso un pubblico popolare, che del passato non ha nulla da rimpiangere; come essi sono riusciti a convogliare una carica d’utopia, un embrionale progetto rivoluzionario. Il diseredato identificava sé stesso e la sua causa nel principe del racconto che vestiva i panni del mendico, del pastore o del brigante, perché quel personaggio incarnava un diritto a uscire dallo stato di miseria o d’asservimento che il diseredato sentiva come proprio diritto. Nell’inconscio collettivo, il principe travestito da povero è la prova che ogni povero è in realtà un principe che ha subito un’usurpazione e che deve riconquistare il suo regno. Le idee si impongono come immagine prima che come astrazione concettuale: Ulisse sotto le spoglie d’un mendico nella sua reggia caduta in mani altrui (e così tutte le situazioni simili che l’arte del raccontare a voce o per scritto svilupperà in seguito) è l’emblema in cui per la prima volta l’idea di povertà viene associata con quella d’un diritto calpestato, di un’ingiustizia da riparare.

La convinzione che tutto ciò che rende umana la vita umana è un diritto che spetta a ogni uomo e a ogni donna comincerà a farsi strada solo dopo che la Rivoluzione francese avrà affermato universalmente i “diritti dell’uomo”. Ed è solo da allora che si comincia a vedere la storia come spinta verso il futuro e non più soltanto come recupero del passato.

Eppure, quante volte da allora rivoluzioni nazionali e sociali, quante volte processi di liberazione dal passato e programmi innovatori, si sono presentati come restaurazione d’un passato ideale, recupero d’un paradiso perduto! Le strutture mitiche del pensiero continuano a essere forti, e hanno pure una forza da trasmettere all’operare storico, ma hanno certo i loro svantaggi: impongono un’immagine che non tarderà a essere smentita dai fatti e impediscono che ci si faccia un’idea chiara di dove si sta andando, di quello che si sta costruendo.

Che il passato abbia una parte così importante nel viaggio e nel futuro di Ulisse non disturba il signor Palomar: quello che lo disturba sono le immagini edulcorate e mistificatorie del passato (come quella degli scrittori italiani che hanno il coraggio di rimpiangere la “civiltà contadina”, questo inferno in terra).

Gli viene in soccorso Sanguineti, il quale (per evitare che il suo discorso su Ulisse venga frainteso come «una specie di romantico incitamento all’imprevedibile, quando poi è quasi il contrario, direttamente») cita un pensiero di Walter Benjamin, «amico davvero, a un tempo, della Memoria e della Profezia». Benjamin si preoccupa che la classe operaia non dimentichi le sofferenze del passato, proiettandosi in un’immagine di sé stessa come «redentrice delle generazioni future» che appaghi la sua spinta rivoluzionaria; l’accanimento nella lotta e la volontà di sacrificio — egli dice — «si alimentano all’immagine degli avi asserviti e non all’ideale dei liberi nipoti».

Al signor Palomar la citazione di Benjamin cade proprio bene, come chiave per tradurre nei termini della storia attuale la rivincita del travagliato Odisseo. Solo, gli viene subito da osservare che Benjamin scriveva ai tempi della Germania di Weimar, quando forse c’era chi si illudeva ancora con le prospettive d’un futuro radioso. le smentite sono state dure e oggi è proprio una immagine del futuro che manca, e nessuno sa dire dove stiamo andando.

Contrariamente a quello che Benjamin credeva, le spinte emotive alla lotta non sono mai venute meno; ahimè, in questa nostra epoca di sopraffazioni e massacri. Ciò che fa difetto è più che mai la previsione razionale, la strategia dei mezzi e dei fini, il progetto della città costruenda e costruibile. «Ricordare il futuro» continua a essere il problema di Ulisse.

Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1996; Id., Gli dei degli oggetti, in “Corriere della Sera”, 14 ottobre 1975.

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