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Idoli, feticci, fatture. Etimologia e dogma

Feticismo: dal portoghese fetiço, oggetto incantato, sortilegio che si suppone racchiuda o che sia associato a una forza o a un essere soprannaturale e che ha un utilizzo rituale. Nonostante abbia avuto una certa fortuna, soprattutto a proposito delle religioni dell’Africa occidentale dove è stata particolarmente indagata, oggi questa nozione è poco usata in etno-antropologia perché sotto di essa vi ricadono fenomeni diversissimi che, isolati dal loro specifico contesto culturale, non costituiscono una categoria operativa a sé. 

Jean Arp, Idol (1961), via The Cleveland Museum of Art

L’originale portoghese deriva dal latino facticius (da facere), e mostra alla radice stessa della parola il concetto di cui si riveste: in magia, è “il fare” par excellence — fattura in italiano e faiture in francese antico. 

Nel latino tardo si sviluppa il significato di potentemente magicofacturari, stregare, factura, stregoneria, da cui forse il termine anglosassone colloquiale fake (cfr. M. Panoff, M. Perrin, Dizionario di etnologia, Newton Compton, Roma 1975).

“Feticcio” riprende quindi la forma passiva di facticius e letteralmente significa “fatto ad arte”, ovvero artificiale. Il termine fu probabilmente applicato per la prima volta a immagini, idoli o amuleti fatti a mano, fino a includere successivamente per estensione tutti gli oggetti dotati di potere magico, cioè stregati. 

Nella storia degli studi, è stato definito feticismo il culto di oggetti inanimati, materiali e tangibili, considerati dotati di un potere “sacro” per sé stessi e non come simbolo, immagine o ricettacolo anche occasionale di una divinità. 

Idolo (dal gr. èidon, lat. video, vedo), εἲδωλον, vuol dire letteralmente simulacro, immagine, figura, ritratto, ma anche fantasma, spettro, e da qui fantasia, immaginazione; οὐρὰνια εἲδωλα sono le costellazioni per Apollonio Rodio (Argonautica, 3, 1004). Andrà ad assumere un’accezione negativa in epoca tarda, nel greco ecclesiastico, a partire dalla traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento

L’idolo è ciò che si vede, un simulacro, una forma, formula è il suo diminutivo. In latino, se forma vuol dire, tra gli altri, aspetto, figura, ritratto, immagine, statua, larva, apparizione, fantasma (formae deorum, apparizioni di dei, Cic.; terribiles visu formae, apparizioni terribili a vedersi, Verg.)..., la parola assume anche il significato giuridico di norma, esempio, regola stabilita dalla consuetudine e dalla legge. Formula, nello specifico, andrà a significare regolamento, contratto, accordo, convenzione a cui ci si deve attenere (cfr. Castiglioni, Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Loescher, Roma 1990, ad voc.). Anche l’azione magica, come qualsiasi azione rituale, deve seguire un ordine esatto, scrupoloso, da ripetersi sempre uguale, che ne garantisce uniformità e continuità: una formula, appunto. 

L’azione che crea la forma

Sono dunque, idolo e feticcio, due strumenti diversi? Se il feticcio è quello che si fa, l’idolo è quello che si vede. Nel primo caso, l’accento ricade sull’azione che crea, plasma la manifattura, mentre nell’altro sull’oggetto votivo come risultato dell’opera manifatturiera, quello che viene percepito attraverso la vista e quindi riconoscibile (una statua antropomorfa, ad esempio). Solo più tardi assumerà un’accezione negativa (idolatria come culto di un “falso”  dio), retaggio della tensione biblica tra un “incontaminato” monoteismo e l’ammissione dell’esistenza di altri dei (cfr. A. C. Haddon, Magic and fetichism, London 1906).

Teraphim Lares, stampa vittoriana (1850 ca), Via old-print.com

Nella tradizione biblica, gli idoli sono i Teraphim, Urim e Thummim (rivelazione e verità, o luce e perfezione, oggetti connessi alla divinazione) nell’Antico Testamento.

La prima allusione al culto degli idoli è in Genesi 31:19, quando si dice che Rachele rubò i Teraphim che appartenevano a suo padre e che ricordano il culto di antichi dei venerati dai progenitori di Labano, a “Ur dei Caldei” in Mesopotamia: piccoli idoli in cera chiamati “i loro dei” (Bible Study Tools), statuette di geni tutelari che venivano consultate in ogni occasione. Rachele le avrebbe sottratte a suo padre affinché egli, attraverso di loro, non venisse a sapere dove fossero lei e suo marito Giacobbe. Non già la paura dell’ira di Dio, ma solo la paura dell’indiscrezione degli dei... Rachele, d’altronde, la quale acconsentì a far giacere suo marito con sua sorella Leah in cambio di alcune mandragore, non era nuova a magie e sortilegi (Genesi 30:15).

E, similmente, si parla di èidola, idoli, per i Cabiri, i Lari e i Cherubini. E se, a proposito dei Teraphim, Ugo Grozio (filosofo ed esegeta del XVI sec.) traduce “angeli” o simboli della presenza angelica, e nel cristianesimo è ammesso parlare di “mediatori” attraverso cui si manifesta la presenza divina, perché non applicare lo stesso criterio anche agli “idoli” (statue, immagini, raffigurazioni) pagani?

Le opinioni dei Padri della Chiesa, spesso esuberanti e categoriche, furono fin dal principio di decisa condanna verso queste pratiche, anche se non unanimemente condivise da tutti i primi cristiani (a proposito della posizione giudaico-cristiana sull’idolatria, cfr. A. Coco in François Guizot, 1983, p. 47). 

Il giudizio di Tertulliano, nel De idolatria, è molto duro (cap. III): si tratta di “figure varie e molteplici” create “per opera diabolica”, e il culto tributato agli idoli è “la colpa principale del genere umano” al pari della frode, dello stupro e dell’adulterio. In questa categoria ricade 
quell’insieme di atti e che risultano dal bruciare incensi, dal compiere sacrifici o dal fare offerte e voti,
e in particolare qualsiasi arte che riproduca statuette e immagini di ogni fattura e materia di cui l’idolo sia formato,
sia di gesso, sia a colori, sia di pietra, di bronzo, d’argento o magari di filo.
L’avversione diviene un vero orrore iconoclasta che si esaspera fino al bisogno incoercibile di rifuggire ogni arte e mestiere che avesse il minimo rapporto con la produzione o l’ornamento degli idoli, un’intransigenza che finisce per stridere con l’equilibrato rapporto che unisce la pratica religiosa e la funzione civile nel mondo pagano.

Il revival occultista

Il XIX secolo scientista e moderno ha rifiutato la credenza in queste pratiche. Ma è anche il secolo dello spiritismo e dello spiritualismo, del revival occultista e della teosofia, dell’ipnotismo, un secolo ricco di suggestioni “psichiche” e di pratiche di magia nera più o meno riconosciute. 

Nella dottrina teosofica di Madame Blavatsky, “feticcio” e “idolo” non differiscono di significato ricadendo entrambi nell’idea per cui certi oggetti, statue, immagini o amuleti, servono da temporanea o persino perenne residenza di una divinità, un genius o uno spirito — ipotesi che sembra essere stata condivisa da intellettuali di tutti i tempi, da Pitagora allo “scettico” Luciano (H. P. Blavatsky, Animated Statues, in “Theosophist”, novembre 1886, via blavatskyarchives.com).

Per Madame Blavatsky quindi il feticcio e l’idolo sono la stessa cosa, non l’uno una particolare declinazione dell’altro: il feticismo è l’adorazione di qualsiasi oggetto, sia vivente che non, di piccole o grandi dimensioni, in cui — o in connessione con il quale — qualsiasi spirito, una forza intelligente e invisibile, buona o cattiva, abbia manifestato la sua presenza

Da un punto di vista storico-religioso, non è una questione di credere o non credere nelle immagini “animate”, ma di ammettere che di queste pratiche rituali esistono tracce per diverse migliaia di anni fin dalla più remota antichità. 

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