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I demoni di Gilles de Rais

Vissuto come un mostro, morto come un santo. Gilles de Rais (o de Retz secondo altra trascrizione, 1404-1440) fu uomo bizzarro, forte e maestoso, prodigo, inquieto, intrepido luogotenente di Giovanna d’Arco durante la guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra; fregiato col titolo prestigioso di maresciallo di Francia a soli 26 anni, la storia gli avrebbe assegnato un posto da eroe se non se ne fossero scoperte le macabre orge, i riti di magia nera, le evocazioni demoniache e gli abominevoli infanticidi che egli stesso con meticolosità ebbe a confessare nel corso del processo, divenendo l’infame par excellence nella tradizione popolare che lo ha identificato con il “più accettabile” (ed eterosessuale) uxoricida seriale Barbablù – ben lontano dall’essere una fiaba per i più piccini, ha tramandato nel corso dei secoli, in particolare attraverso la versione di Charles Perrault, la memoria delle orribili violenze che si sono consumate per oltre otto anni nelle segrete stanze del suo castello.

Philippe Hériat e Simone Genevois nei panni di Gilles de Rais e Giovanna d’Arco in La Merveilleuse Vie de Jeanne d’Arc, fille de Lorraine (1929), via Wiki commons

Rimasto orfano a soli 11 anni, Gilles diviene uno dei più ricchi ereditieri di Francia e tra gli uomini più potenti di tutta l’Europa medievale in seguito alla morte di suo nonno e tutore Jean de Craon; gli atti del suo processo, conservati negli archivi di Nantes, contengono dozzine di testimonianze e le confessioni dei suoi atti criminosi perpetrati con l’ausilio dei suoi complici, un entourage di fedelissimi, che riportano con dettagli raccapriccianti le torture a sfondo erotico inferte alle giovanissime vittime che poi venivano finite tramite decapitazione, strangolamento o smembramento.

La perversione spettacolarizzata

Quello che più colpisce dei documenti del processo è la “teatralizzazione” dell’intero apparato giuridico e più precisamente l’accuratezza con cui lo stesso sembra farsi complice del desiderio di spettacolarizzazione che l’imputato voleva incentrare su di sé – volle egli stesso che venissero diffusi i dettagli delle sue deposizioni, affinché fosse più evidente la riabilitazione religiosa che poteva conseguire con il perdono di Dio. Il processo ebbe luogo in una grande stanza del castello di Tour Neuve a Nantes alla presenza di un folto pubblico e le carte riportano con estrema vividezza il contrasto tra quanto Gilles andava confessando e la partecipazione emotiva di chi vi assisteva da una parte, e la formalità delle procedure inquisitoriali dall’altra; sebbene le autorità ecclesiastiche stesse, pur denunciando l’enormità e la natura scandalosa dei crimini, finirono con il contribuire a rendere il processo un evento sensazionale allo scopo di consolidare il potere ideologico delle proprie istituzioni sulla comunità dei credenti.

Gilles de Rais affronta il processo e la morte con una incoerenza che respinge ogni logica, apparendo perverso e al tempo stesso infantile, in continuo moto da un eccesso all’altro, una bestia feroce lacerata dai rimorsi. Il paradosso più evidente della vicenda di Gilles de Rais risiede proprio in questo: più le accuse si andavano aggravando, maggiore risultava la drammatizzazione della sua stessa brutalità e più senso acquisiva, ai suoi stessi occhi, la redenzione divina.

Apologeti antichi e moderni

Un certo filone “revisionista” ha portato le ricerche di alcuni storici a una rilettura del processo di Gilles come una cospirazione politica contro personaggi scomodi e in qualche modo indesiderabili (Rais apparteneva alla nobiltà bretone), finendo con il ritenere il processo come un vero e proprio abuso di potere e invocando l’ingiustizia dei procedimenti giuridici medievali come prova dell’innocenza di Gilles. Il primo assertore di questa tesi è stato Salomon Reinach, Gilles de Rais, in “Cultes, mythes et religions”, 1904; tesi degna d’attenzione perché per la prima volta pone l’accento sui contrasti tra la corona di Francia e i nobili che aspiravano a spartirsi il reame, in particolare dopo la sconfitta di Azincourt, ma non sostenibile, perché non c’è nulla negli atti del processo che faccia pensare a una costruzione ad arte dello stesso.

Sul finire del Diciannovesimo secolo si assiste comunque a un risveglio dell’interesse per questo personaggio, soprattutto in seguito alla pubblicazione “pioneristica” della sua biografia storica da parte di Eugène Bossard, Gilles de Rais, maréchal de France dit Barbe-Bleue (Paris, 1885). Margaret Murray, in The Witch-Cult in Western Europe. A Study in Anthropology (Oxford 1921), ne fa niente più che il “martire” di una segreta Antica religione. Celebre è, negli ultimi decenni, lo scritto che gli ha dedicato il filosofo e antropologo francese Georges Bataille, Le procès de Gilles de Rais (Paris 1979), ma precedente a questo è Requiem per Gilles de Rais di Georges Bordonove (ed. or. 1961, trad. it. Longanesi, Milano 1976), primo tra gli autori moderni a rivolgersi direttamente agli archivi di Nantes, e da cui sono tratte le citazioni riportate infra.

Anche gli occultisti contemporanei hanno seguito l’onda crescente di questa riscoperta. Aleister Crowley, in The Banned Lecture. Gilles de Rais – discorso tenuto il 3 febbraio 1930 presso la Oxford University Poetry Society ‒, ridimensiona in parte la portata dei crimini del barone de Rais e asserisce che, in ultima analisi, il suo destino e quello di Giovanna d’Arco hanno coinciso: nel senso che le interpretazioni successive (soprattutto quella anglosassone d’epoca shakespeariana) hanno riportato di lei le infamie e le esagerazioni, per cui anche la giovane visionaria d’Orleans ha finito con il divenire simbolo di ogni viltà, cialtronaggine e ipocrisia.

In realtà questo processo di “riabilitazione” comincia al momento stesso della sua morte: si dice che fu accompagnato alla forca da una nutritissima folla che pregava per il condannato, e qualche anno più tardi sua figlia Marie fece costruire una fontana memoriale sul luogo dell’esecuzione, un altare espiatorio detto Grotto di Bonne Vierge de Cree-Lait. Nel Cinquecento il cronista Monstrelet, da parte sua, tenta di convincere i lettori che Gilles fu uomo toccato dalla grazia e pio, anch’egli tacitamente partecipando al desiderio di reintegrare questa figura deviata all’interno di quello stesso codice etico che era stato così orribilmente violato. Da allora fino agli storici moderni, tutti sembrano concordare sul fatto che, dopo l’esecuzione, il corpo di Gilles fu sottratto alle fiamme prima che fosse ridotto in cenere, rinchiuso in una bara e trasportato nella chiesa dei Carmelitani a Nantes, dove fu sepolto privatamente e senza cerimonie, mentre i resti dei suoi complici dispersi al vento e alle acque della Loira.

Allo stesso modo andrebbero letti anche i successivi tentativi (radicali o moderati) di razionalizzare i crimini di Gilles per riconciliarlo con l’ordine morale e sociale, e in questo senso lo strumento della storia sarebbe utile a trasferire, almeno in parte, la responsabilità di quell’orrore a fattori esterni, più ampi. Fatto sta che, nonostante gli atti del processo siano stati riportati con tale scrupolo e dovizia di particolari, continua a sfuggire l’essenziale di Gilles; non avendo chiarito affatto, neanche la sua confessione, il segreto di quei crimini mostruosi di fronte ai quali ogni giudizio sembra arretrare.
Hélas! Monseigneur, vous vous tourmentez et moy avecques... Vrayment... je vou aj dit de plus grans choses que n’est cest cy, et assez pour faire mourir dix mille hommes (Ahimè, monsignore, vi state tormentando e me con voi... veramente... ho confessato tanto da far morire diecimila uomini. G. de Rais).

Anch’io sono stato un angelo

Dice di lui la sua nutrice, chiamata a deporre la propria testimonianza, che egli non fu mai, neppure da bambino, una creatura comune. I “demoni” lo hanno tormentato sin dalla nascita, come se per lui non ci fosse mai stata una età dell’innocenza. Il dolore della violenza inferta era dolce ai suoi sensi e ne piegava la volontà, fin dalle prime scoperte di questi piaceri sadici e della «gioia atroce» che gli procurava togliere la vita, al punto di arrivare a «invocare l’aiuto del diavolo quando mi impuntavo a volere un ragazzo perché troppo restio e ottuso, e dopo averlo ottenuto, mi precipitavo in chiesa e mi scioglievo in pianto e in preghiere per acquistarmi il perdono».

Insieme all’impunità che accompagna per anni i suoi omicidi, Gilles finisce con il perdere anche la ragione, la stima del re e gran parte delle sue ricchezze, coperto di debiti e sempre più inseguito dai sospetti. Così si rivolge alla magia nera. Questa, attraverso le sue stesse parole, è la descrizione del primo approccio:
Il demonio! Si era fatto soldato e mi aspettava in una segreta del castello di Angers. [...] Il soldato, chiamato Dumesnil il Trombettiere, era stato condannato di recente come eretico. Venni a sapere che possedeva un libro di magia. Non potei resistere alla tentazione. Andai a trovarlo nella sua prigione. Gli promisi di intercedere in suo favore. Egli acconsentì [...] a prestarmi il libro che trattava di alchimia e di invocazioni demoniache. Ne copiai in fretta i passi principali. Già il sogno funesto germogliava in me.
Il suo intento, tuttavia, non era da principio quello di evocare il diavolo ma di riuscire a compiere una trasformazione dei metalli.
Il libro diceva che l’oro è una miscela di zolfo e di mercurio e dosando queste due sostanze si poteva facilmente produrlo. Che un altro metodo consisteva nel ripetere la gestazione di questo metallo nel seno della terra, dove si forma e cresce come un embrione sotto l’influsso di determinati pianeti. Ma, diceva inoltre, chi aveva la fortuna di possedere la pietra filosofale, o il grande Elisir, o il gran Magistero, poteva fabbricare l’oro a suo piacere. Vi erano esposte le due teorie: quella della magia bianca in cui si invocava l’aiuto del Creatore e quella della magia nera in cui si faceva appello ai demoni.
La pietra filosofale poteva variare di natura e di colore a seconda del tempo e del luogo: ora solida, ora liquida, ora color zafferano o scarlatta, oppure verde smeraldo e talvolta azzurra o turchese, ma a tutti quelli che la possedevano donava gioventù e vigore, potenza e fortuna inesauribili. Così si appassiona alla ricerca, viene rapito da quelle formule misteriose che sapevano «di miracolo e di eternità», incantato dai «luccicori rossastri delle fiamme sotto gli alambicchi, i fumi che sfuggivano dal loro beccuccio e adornavano la volta di goccioline multicolori», fino a circondarsi di una vera e propria legione di maghi ai quali forniva tutti gli strumenti necessari, oro e zolfo, nella sala sotterranea del castello di Tiffauges.

E se Dio non ascoltava, fu al suo opposto, il principe tenebroso, che si rivolse infine per riuscire a produrre l’oro di cui aveva bisogno, e in una notte oscura, in un bosco folto di cespugli, consumò la sua prima evocazione. Passò da un mago all’altro, poiché tutte le esperienze risultarono fallimentari e non si riusciva a trattare con i demoni il prezzo del loro aiuto a causa anche dello spavento che spesso faceva arretrare Gilles di fronte agli incantesimi solenni dei suoi operatori rituali. Finalmente gli venne consigliato di impegnarsi in prima persona e firmare con il sangue un’obbligazione, ma ancora il diavolo rifiutava di manifestarsi. Gilles finisce con il perdere la pazienza e la speranza, quell’esercito di maghi gli costavano caro e i suoi forzieri continuavano a svuotarsi.

I veri alchimisti si trovano in Toscana

A questo punto della storia entra un italiano, mastro Francesco Prelati, mandato a chiamare direttamente da Gilles dopo ulteriori ricerche: «ecclesiastico tonsurato, dotto in tutte le arti», giovane di appena 23 anni, «di pelle olivastra e di una grazia che sa di perdizione». Diceva mastro Francesco di essere stato edotto nelle arti magiche da Giovanni Fontanel, medico di Firenze, «famoso tra tutti i maghi», e di avere un rapporto diretto e privilegiato con un demone chiamato Barron, «notissimo nel regno delle ombre [...] tutto vestito d’azzurro, con un mantello viola, giovanissimo e bello».

A Tiffauges Francesco si mette all’opera con molto zelo, accrescendo gli entusiasmi e le speranze di Gilles. Quindi fece conoscenza con un medico che abitava nel sobborgo del villaggio, il quale gli prestò
un libro di alchimia [...] rilegato in cuoio nero, scritto in parte su papiro in parte su pergamena, pieno di allegorie e di figure misteriose. [...] decidemmo di tentare un grande esperimento. [...] Scegliemmo [...] una sala del castello di Tiffauges le cui finestre erano disposte a croce, cosa eccellente per gli esorcismi. Ci recammo là verso mezzanotte, a piedi nudi e vestiti di bianco; [...] [sistemammo] alcuni vasi di terra, pieni di carboni ardenti, coppe e vasi contenenti aromi: incenso, mirra, aloè. Portarono il libro nero. Terminati i preparativi, Francesco tracciò parecchi cerchi con la punta della sua spada; vi incrisse croci di diversa grandezza, caratteri che non potei decifrare e segni a guisa di scudi. [...] Rimasti soli, prendemmo ciascuno una torcia di cera bianca. E ora camminando, ora in ginocchio, ora seduti, ora leggendo le pagine di quel libro, ora salmodiandole a memoria, a turno e poi all’unisono, supplicammo Barron di apparirci.
Ma Barron rimase muto. Furono tentate altre evocazioni, inutilmente. La formula era sempre la stessa: «Vi scongiuro, Barron, Satana, Belzebù, per il Padre, il Figliolo, lo Spirito santo, per la Vergine Maria e per tutti i santi, di comparire qui in persona per parlare con noi e fare la nostra volontà», e tutto ciò non bastava. Gilles si fece prendere dalla delusione e dall’amarezza, nonché dal dubbio sulla reale efficacia dei demoni e, soprattutto, su quella del maestro Francesco. Il quale da parte sua, rinchiuso in una cella, ammette di non aver mai stimato il suo mecenate che pure lo amava ardentemente, né che vi sia mai stato un diavolo chiamato Barron: era un inganno, confessò.

Oblazioni di sangue

Ma che fosse un inganno o meno, Gilles, nel rapido e fatale corso della sua follia, si lascia trasportare al fondo dell’abiezione. «Gli spettri si affollavano in massa intorno a me quando venivano spente le candele», con «le loro piccole bocche gelide», e proseguivano le evocazioni. Poi un suggerimento, dolcemente insinuato dal prete illegittimo Eustache Blanchet: mettere in atto sacrifici umani e offrire al demonio le membra dei fanciulli che ordinariamente uccideva per lussuria e unire, per così dire, l’utile al dilettevole. Iniziavano a diffondersi ovunque le voci più orribili: il maresciallo massacrava bambini e adolescenti consacrandoli al diavolo, e con il loro sangue scriveva un libro di magia che doveva renderlo invulnerabile. Ormai folle, sempre più spesso in preda a crisi mistiche («I piccoli spettri non mi davano più tregua. Uscivano dai muri. Salivano sul mio letto. Mi precedevano e mi seguivano lungo le scale. Ero in pace solamente nella cappella»), ridotto a un rudere d’uomo, il 24 settembre 1440 fu arrestato, processato, quindi arso sul rogo a Nantes il 26 ottobre dello stesso anno.

Il piacere nella crudeltà

Edonismo radicale: ne parla Erich Fromm (Avere o essere, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1977) e consisterebbe nel perseguire l’unico scopo della vita ritenuto possibile, vale a dire la felicità, il massimo godimento, la soddisfazione indiscriminata di ogni desiderio. Gilles de Rais apparteneva a quella categoria di esseri umani secondo i quali l’esistenza stessa di un desiderio costituisce il fondamento del diritto a soddisfarlo; tra questi bisogni occorrerebbe però distinguere tra quelli puramente soggettivi e quelli oggettivamente validi, i primi in parte dannosi per lo sviluppo umano e i secondi invece in accordo con l’eudaimonia, il “vivere bene”.

Va da sé che la ricerca di questa soddisfazione può per alcuni diventare forsennata, peggio ancora se si dispone di mezzi illimitati per poter conseguire l’appagamento di ogni tipo di piacere senza restrizioni, e trovarvi un senso alla propria esistenza. Il coronamento di questa filosofia è la “sublime” sintesi di De Sade, per il quale l’obbedienza a impulsi crudeli è legittima per la semplice ragione che essi esistono, e aspirano a essere realizzati.

Riferimenti, fonti e una postilla morale

G. Penney, The World of Perversion. Psychoanalysis and the Impossible Absolute of Desire, State University of New York Press, Albany 2006, pp. 35 ss.; M. A. Rothenberg, D. A. Foster, S. Žižek, Perversion and the Social Relation: sic IV, Duke University Press, Durham-London 2003, pp. 128 ss.; B. Parsons, Sympathy for the Devil: Gilles de Rais and His Modern Apologists, in B. I. Gusick, M. Z. Heintzelman (eds.), Fifteenth-Century Studies, vol. 37, Camden House, 2012, pp. 113 ss.; T. Wilson, Blue-Beard. A Contribution to History and Folk-lore, New York-London 1889.

Open source: De Rais G. (1404-1440), Le procès inquisitorial de Gilles de Rais, maréchal de France, Bibliothèque des curieux, Paris 1921. La “favola macabra” di Perrault Barbe-Bleue (qui in traduzione inglese del 1924) è stata portata sul grande schermo nel 1901 da Georges Méliès: il nobile signore Barbablù sta cercando colei che diventerà la sua ottava moglie, dopo la morte delle prime sette. Molte famiglie portano le proprie giovani a incontrarlo, ma nessuna accetta di sposarlo. Ma Barbalù è ricchissimo, e alla fine un padre decide di offrire la mano della figlia e lei, riluttante, cede. Dopo una festa di nozze dedicata a ogni eccesso, la ragazza inizia la sua nuova vita; c’è una chiave, che apre una stanza segreta, l’unica che non ha il permesso di usare. Ma la curiosità finisce con avere la meglio sulla volontà, e la giovane sposa, un giorno in cui il marito era fuori per affari, apre la camera, e scopre di trovarsi in un gran brutto guaio. La “morale” della storia è stata a lungo soggetta al pregiudizio per cui “la curiosità è femmina”, una debolezza muliebre che sottrae il mostro alla sua responsabilità. Barbablù è un sadico assassino, conserva i corpi delle mogli in una segreta del suo castello, ma è come se fosse in parte assolto perché giustificato dalla disobbedienza delle donne.

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