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La “materia prima” degli dei

Niente ci è meno estraneo del genio del paganesimo, il mondo greco antico e il mondo africano tradizionale hanno tra loro più di un punto in comune e, qualunque siano i valori e le appartenenze da noi rivendicati, la nostra vita quotidiana obbedisce in larga misura a logiche pagane che impregnano la letteratura, la creazione artistica e la filosofia occidentali (tratto da Marc Augé, Prefazione Genio del paganesimo, Bollati Boringhieri, Torino 2008).

Testa di Giove, I sec. ev, Museo di Storia dell’Arte di Vienna.

Di cosa sono fatti gli dei? Secondo Marc Augé, etnoantropologo parigino “dei mondi contemporanei” noto per la sua definizione di “non luogo”, la loro esistenza non ha a che fare con  l’antropomorfizzazione della natura (per Freud si tratterà di una “negoziazione”), perché questa sarebbe una interpretazione arbitraria di stampo evoluzionista, che ritiene l’impersonale preesistente al personale, come la magia anticiperebbe la religione.

La retorica del divino

Il fatto religioso può essere analizzato secondo due prospettive di senso contrario:
o il divino costituisce [...] la materia prima degli dei ai quali gli uomini avrebbero attribuito progressivamente un’identità e un volto; oppure [...] come la traccia evanescente dell’intimità perduta,
che conferisce alla storia dell’uomo una valenza retrospettiva e una realtà metafisica (la salvezza) alla sua esistenza individuale.

Secondo una concezione evoluzionista e “primitivista” criticata da Dumézil nella Religione romana arcaica (1966), la nozione di deus sarebbe uno sviluppo (nel senso di una personificazione) di quella di numen, forza impersonale a sua volta associata al mana come da parte di alcuni ellenisti è stato proposto per il greco δαὶμων

A proposito di Marte, ad esempio, è stato fatto notare come le lance, suo attributo guerriero per eccellenza, vengano spesso descritte “vibrare” sponte sua, di per sé, come se avessero un potere proprio di cui il dio non sarebbe che una incarnazione tardiva, ovvero il mero esecutore di una energia già contenuta nell’oggetto.

A queste interpretazioni Dumézil oppone due serie di argomenti. La prima riguarda la simbolizzazione, processo che appartiene a qualsiasi forma di linguaggio, articolato o gestuale, attraverso il quale si tenta di stabilire delle relazioni tra gli esseri e le cose secondo un principio di contiguità e somiglianza; gli dei, argomenta Dumézil, non venivano rappresentati dai primi romani non perché non esistessero ancora come figure antropomorfe, né, come vorrebbe Varrone, per mancanza di maturità artistica, ma
per timore di racchiuderle in rappresentazioni [...]. Resta il fatto che nei luoghi di culto e in occasione dei sacrifici, essi simbolizzavano i vari dei con oggetti che corrispondevano alle loro funzioni o alle loro rispettive qualità: il fuoco del focolare per Vesta, la selce e la pietra focaia per Juppiter Lapis o tonante, la lancia per il guerriero Marte.
Il secondo argomento a sfavore di una interpretazione “predeista” consiste in dati linguistici che escluderebbero l’esistenza di un potere impersonale nella religione tradizionale romana: il termine numen, infatti, è sempre accompagnato dal genitivo di un nome divino specifico, della collettività divina in generale o di quella umana (numen Jovis, deorum, senatu, popoli ecc.) e la sua etimologia richiama l’atto di fare un “cenno del capo” quando si esprime una determinata volontà; inoltre la parola indoeuropea deus non è meno antica di numen, a cui sono stati gli autori di età augustea ad attribuire il senso indifferenziato di potenza divina.

Alla critica di Dumézil segue tuttavia una presa d’atto della difficoltà di interpretare la religione romana, in particolare quella arcaica.

Il vero è l’intero

Secondo la filosofia primonovecentesca, in particolare l’attualismo (la citazione del sottotitolo è di Hegel), forma e contenuto vanno identificandosi nella “totalità”: essendo i contenuti “oggettuali”, nient’altro che astrazione e apparenza, è difficile attribuire loro un valore di verità, poiché verità e quindi realtà pertengono solo all’Atto puro o Spirito assoluto, inteso come totalità autosciente, cioè spirituale.

L’Atto non è vincolato all’intrascendenza, può non avere necessità razionali ma esperienziali. Di più: uomo (cioè individuo nella sua accezione non antropologica, piuttosto etimologia di “indivisibile”) e assoluto coincidono, tra di loro non c’è distanza, allo stesso modo per cui la totalità stessa non ha inizio né fine in quanto circolare (Giovanni Gentile, L’atto del pensare come atto puro, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913).

L’uomo è poca cosa, fuori del tutto

Per Benedetto Croce, secondo il quale ogni ambito del reale è Spirito in modo diverso in base a un grado differente di complessità più che di qualità, sussiste una sostanziale identità tra l’individuo e la sua opera o attività, tanto da far vacillare lo stesso concetto di “singolo” (cfr. tra gli altri Contributo alla critica di me stesso, da cui la citazione del sottotitolo). Secondo questo assunto, la filosofia dello Spirito consentirebbe in una identificazione diretta tra Spirito assoluto e spirito umano. 

Di questa individualità spirituale fanno parte diversi ambiti, tra cui quello economico e quello estetico assumono il carattere di immediatezza. Secondo l’estetica crociana, le opere d’arte sono producibili e percepibili solo sul piano dell’immediatezza.


Croce è stato soggetto a diverse critiche per aver preteso di circoscrivere in “ambiti stabili” l’atto spirituale, che invece ha infinite possibilità di articolazione. Per entrambe le posizioni, comunque, forma e contenuto sono indissolubili e nelle opere d’arte si coordinano perfettamente.

Fenomenologia dell’esperienza

In filosofia, un argomento dello scetticismo, ripreso in diverso modo da Cartesio e Husserl, è l’idea che il mondo dell’esperienza possa non essere altro che un inganno, un’illusione, il progetto “diabolico” maturato dalla volontà di qualche sconosciuta intelligenza superiore; e che la nostra realtà possa essere, nell’ipotesi più radicale, il sogno di un sogno di un sogno. 

In realtà, tra la struttura più profonda del reale (essere) e la sua percezione (apparire), che è in mutevole divenire, non c’è antitesi ma unità. Apparenza non ha, quindi, il significato di fittizio o di mutevole, ma semplicemente pertiene al piano dell’immediatezza dell’esperienza, dove essere e apparire si incontrano componendo un intero che smentisce la possibilità stessa di un dualismo. 

Brani scelti da Genio del paganesimo di Marc Augé 

Universalità delle domande, diversità delle risposte:
L’esperienza antropologica è duplice, perché deriva da un doppio movimento: si va dagli altri ma, per andare veramente dagli altri, bisogna uscire da sé. Ora, l’uscita (parziale) da sé non implica affatto che si sia arrivati dagli altri (Prefazione, p. 7).
La pericolosa bellezza dell’altro:
Lo sguardo occidentale sugli altri non ha cessato di essere sprezzante se non per diventare estetico. [...] Si riteneva che un rapporto perduto nei confronti della natura e della vita potesse essere ritrovato poro e intatto nella coscienza pagana: un’arte di vivere, un’arte di vedere (ma non è proprio questo l’essenziale?...). Non vi è niente di vero in tutto ciò, se non il richiamo alla relatività dei valori e delle culture (Introduzione, p. 11).
Lo statuto intellettuale della differenza:
Nessuno si augura veramente di riconoscere le differenze, forse perché assumo nel linguaggio dei bianchi l’aspetto di ossessioni e di fantasmi; poligamia, cannibalismo, stregoneria, possessione: parole grondanti sesso e sangue che raggiungono i vocabolari specializzati delle storielle piccanti, del folklore, dei giornali scandalistici o della psicanalisi. Solo l’etnologia ha tentato di rendere loro un senso sociologico e politico, ma non è riuscita a rendere conto del sentimento duplice e contraddittorio di fronte al paganesimo, tanto di una estraneità familiare quanto di una strana familiarità (Introduzione, p. 13).
Un problema di senso:
Se ogni religione non monoteista si risolve in magia o in filosofia, ciò è dovuto a un’intolleranza di principio che non può ammettere, in questo campo, alcun relativismo. La categoria della superstizione è l’arma di questo dibattito, oppure accordando a esse un valore metaforico inconciliabile con la fede. La logica di questo incontro può esistere sul filo del puro e semplice malinteso (cap. 1, p. 34).
Se una religione può considerare la maggioranza delle altre come superstizioni, sta nel fatto che essa non giudica se stessa allo stesso modo delle altre; la religione prende in considerazione quella del colonizzato soltanto nel momento in cui, sicura dell’esito della prova di forza, la sottomette alla prova di senso (cap. 1, pp. 35-6).

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