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Allucinogeni olmechi (e alcune ricette a base di rospo)

Funghi, cactus e piccoli animali: utilizzati per mettersi in comunione con il mondo degli dei e degli antenati, nelle pratiche divinatorie, per ottenere visioni e raggiungere uno stato superiore di autocoscienza, oltre che come fonte di svago e divertimento, gli allucinogeni hanno rivestito e continuano a rivestire un ruolo fondamentale nella vita religiosa mesoamericana. 

Culture mesoamericane

L’area mesoamericana si estende quasi interamente nella fascia tropicale e comprende gli attuali Guatemala, Belize, Salvador, la parte occidentale di Honduras, Costa Rica, Nicaragua e gran parte dello stato del Messico. In questo territorio dai forti contrasti ambientali, dalle pianure costiere ai climi semidesertici dell’altipiano settentrionale fino alle due catene montuose (“sierre”) che delimitano il Messico centrale, sono sorte, fiorite e scomparse numerose popolazioni anche molto diverse tra loro (1). Monumenti, bassorilievi, sculture, oppure le testimonianze dei colonizzatori sono le fonti usate per tracciare la storia di queste culture, in assenza di una propria tradizione letteraria. 

La storia della Mesoamerica viene convenzionalmente divisa in tre periodi.

Nel lungo periodo preclassico (2500 aev-200 ev) si formano e consolidano culture a vocazione agricola la più importante delle quali è quella olmeca, cui si deve la costruzione dei grandi centri cerimoniali sulla costa meridionale del Golfo del Messico come San Lorenzo, Lo Vento, Laguna de los Cerros e Tres Zapotes. Il nome è stato attribuito convenzionalmente dal momento che non se ne conosce la denominazione originaria, ed è lo stesso usato per indicare la capitale, politica e religiosa, dove risiedevano principalmente governanti e sacerdoti, mentre la popolazione rurale vi veniva ad assistere alle cerimonie.

Il periodo classico (200-900 ev) segna la massima fioritura degli stati teocratici. Le popolazioni di Teotihuacan e dei centri maya raggiungono un livello culturale, artistico e architettonico che ancora sorprende per la grandiosità dei centri cerimoniali, le decorazioni in pietra, giada e altre pietre preziose, ceramica, e anche per le conquiste in campo astronomico e matematico.

Il periodo postclassico inizia con le invasioni di Toltechi e Aztechi (detti anche Mexica), popoli bellicosi provenienti da nord, e termina nel 1521 con la conquista spagnola. In questa fase, lo stato diventa militaristico-teocratico mentre, a livello religioso, colpisce la frequenza di sacrifici umani anche di massa, fenomeno attestato anche in precedenza, ma ora decisamente incrementato (2).

Pietra precolombiana maya raffigurante un Uomo Fungo (terapeak.com)

Funghi, semi, cactus

Piccole sculture in pietra a forma di fungo, rinvenute a Kamanaljuyú e in altri siti montuosi fino al Pacifico, attestano l’utilizzo del fungo psilocybe (Psilocybe mexicana) nel tardo periodo preclassico. Come ancora oggi accade tra i contemporanei Mixtechi di Oaxaca, che polverizzano i funghi allucinogeni prima di consumarli, queste sculture sono spesso associate a tavolette di pietra usate per la macinazione (metates). 

Nel tardo periodo postclassico, poi, l’utilizzo del fungo psilocybe è ben documentato nelle zone montuose del Messico. 

Il preispanico Codex Vindobonensis – risalente al 1500 e trascritto tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento dall’incisore Agostino Aglio – contiene una scena che illustra l’origine e l’uso del fungo sacro. Il vento, forma mixteca di Ehecatl (rappresentante Quetzalcoatl nella sua forma, appunto, di dio Vento) è raffigurato nell’atto di recare il fungo agli altri dei, mentre Xochipilli, dio dei fiori, piange. Il fungo è rappresentato da due donne soprannaturali e da una lucertola, mentre le lacrime sono considerate simbolo di portentosi eventi futuri (3).

Un altro potente allucinogeno molto diffuso in Messico e Perù erano i semi della Turbina corymbosa, pianta rampicante chiamata ololiuhqui in lingua nahuatl. Un trattato di epoca coloniale, redatto da Ruíz de Alarcón, offre un resoconto dettagliato delle modalità di utilizzo: consumati di notte da speciali operatori rituali, i semi erano usati per raggiungere una conoscenza superiore, scoprire l’origine di una malattia, individuare un ladro o l’autore di un misfatto, ritrovare persone o oggetti smarriti. 

I semi stessi erano considerati delle divinità, venerati con rispetto e timore e conservati in speciali piccoli contenitori che venivano tramandati di generazione in generazione da operatori rituali appositamente addetti alla divinazione.

Da un gruppo di nove statuine a forma di fungo rinvenute nei pressi di Città del Guatemala insieme a due metates, forse rappresentanti i nove signori Maya della notte (The Metropolitan Museum of Art

Non manca, in questa lista di potenti allucinogeni naturali, il piccolo cactus conosciuto con il suo nome nahuatl peyotl (Lophophora williamsii), nativo dei deserti a nord del Messico ma ampiamente diffuso tramite commercio anche in tempi antichi. 

Ruíz de Alarcón ne attesta l’utilizzo nel XVII secolo e dal XVI tra gli Aztechi. Il Codice fiorentino lo descrive come un efficace medicinale contro la febbre, mentre le prime rappresentazioni potrebbero essere testimoniate da alcune ceramiche protoclassiche del Messico occidentale.

Sacralità della memoria ancestrale

Sull’articolata ritualità tradizionale mesoamericana che accompagna l’assunzione del peyote e il suo assurgere a elemento simbolico diun nuovo movimento indigenista (Native American Church) ha scritto Vittorio Lanternari (4):

Il peyote ha origine nel Messico, dove fu osservato fin dal XVI secolo fra gli Huicol [...], i Cora e i Tarahumara.

Tra i messicani Huicol, in particolare,

il pasto del cactus peyote, di cui si mangiano le gemme (“bottoni”) ma anche piccole porzioni della pianta sradicata fresca o disseccata, è praticato per procurarsi, in virtù del suo contenuto in mescalina (alcaloide allucinogeno), una condizione estatica allucinatoria grazie alla quale l’uomo conquista uno speciale potere di guarigione dalle malattie: egli supera fatica e fame, si protegge dai pericoli e, soprattutto, può accedere all’esperienza di visioni sovrannaturali, nelle quali si presentano figure, entità, situazioni pertinenti all’intero corredo del mondo mitico tradizionale.
In virtù delle sue speciali doti terapeutiche e allucinatorie si diffuse da antica data anche fra le tribù del golfo caraibico, tra le tribù del sud-ovest degli Stati Uniti (hopi, taos, isleta) oltreché tra etnie di indiani delle praterie meridionali (caiowa, caddo, wichita, comanci). Fu da questi ultimi che intorno al 1870, all’epoca delle riserve indiane, dopo la vana lotta di resisistenza al potere bianco, fu elaborato un nuovo movimento sociale e religioso, il peyotismo, ampiamente diffuso in seguito tra numerose etnie nordamericane come movimento nativista di adattamento alla nuova condizione di emarginazione.

E coì, mentre nei tempi più antichi il consumo della pianta sacra aveva uno scopo terapeutico-allucinatorio, nel nuovo contesto rituale rappresenta

la simbolica rammemorazione e celebrazione di emarginazione in nome della sacralità della memoria ancestrale.

L’essenza della “rospità”

Rospo, che sotto la fredda pietra / Trentun giorni e notti / Hai trasudato veleno dormendo / Bollisci prima tu nella pentola incantata... (Shakespeare, Macbeth). 

In assenza di una tradizione letteraria, per comprendere le antiche culture mesoamericane si deve ricorrere alle – pur numerose e sorprendenti – testimonianze artistiche, dai monumenti ai bassorilievi, dalle sculture di giada e altre pietre preziose e di ceramica. 

Una delle rappresentazioni più controverse è la figura in pietra conservata al Princeton University Art Museum (800 aev ca.), identificata come uno sciamano in posa di trasformazione che presenta i tratti caratteristici di un rospo, con ghiandole parotidi tratteggiate e incise sulla fronte della figura inginocchiata. 

Figurina medio-olmeca di sciamano in trasformazione (Princeton University Art Museum)

Molte creature del pantheon olmeco sono composite e presentano attributi zoomorfi, simbolo di forze che, con il tempo, hanno acquisito un significato totemico o dinastico, specialmente nelle forme artistiche delle élite. Nelle tradizioni popolari, invece, il significato ancestrale di questi spiriti si sarebbe preservato nella forma di medicine animali (5).

La natura delle sostanze allucinogene utilizzate dagli olmechi è stata oggetto di numerose ricerche. In esse è stata rilevata la presenza di bufotetina, triptamina contenuta in alcune specie locali di rospi (Bufo marinusche può essere letale ma che, in dosi non cospicue, produce effetti allucinogeni intervenendo direttamente sul sistema nervoso centrale. 

Questo animale gigante, che vive in alcune zone della Costa del Golfo e tuttora molto diffuso nelle aree caraibiche e del Pacifico, presenta sulla fronte, divisa da una profonda depressione intraorbitale, delle creste craniche che comunicano con le potenti ghiandole parotoidi (molto evidenti se viste di profilo, sopra le spalle, sopra e dietro gli occhi e il timpano, raffigurate come strutture rigonfie ovali), le quali secernono un veleno riconosciuto e usato anche come insetticida naturale. 

La sua rappresentazione presso gli olmechi e in tutta l’arte mesoamericana è a volte esplicita, dai tratti apertamente naturalistici, a volte idealizzata e combinata con caratteristiche di altri animali (felini, ad esempio), o ancora riprodotta secondo il principio della pars pro toto (le zampe, le gengive, le creste a fiamma).

Codice fiorentino, Libro XI

Le ghiandole del rospo elaborano e secernono almeno ventisei costituenti velenosi differenti e pertanto sono delle vere e proprie fabbriche chimiche. Il processo di selezione è, comprensibilmente, molto complesso e difficilmente verificabile, poiché si tratta di composti altamente bioattivi che reagiscono in modi metabolici diversi. Già Michael Scott, astrologo e alchimista alla corte di Federico II, pare ne avesse scoperto gli effetti (6): 

Si mettono cinque rospi in un recipiente, e si dà loro da bere il succo di varie erbe misto ad aceto, come prima tappa nella preparazione di un prodigioso elisir, a scopo di trasformazione.

Nel Seicento il frate domenicano Thomas Gage, in Guatemala, descrive la preparazione di una miscela fatta d’acqua, miele, zucchero di canna, foglie di tabacco, radici varie «di cui essi conoscevano gli effetti potenti» e, infine, un rospo vivo

Questa miscela, chiamata chica, veniva tenuta chiusa in un recipiente per due settimane o un mese (7), 

finché tutto quello che vi si trovava dentro non fosse accuratamente macerato, il rospo evaporato, e la pozione divenuta ben forte.

Ci sarebbe, nel rospo, «qualcosa di sorprendentemente umanoide, quasi fetale», che richiama il periodo della vita intrauterina, così in alcuni miti cosmogonici sudamericani «i primi uomini del primo periodo del mondo» erano in principio rospi, poi trasformati, mentre il nome maya di questo animale, much o muts, avrebbe la stessa radice della parola usata per designare gli organi genitali femminili. Inoltre, la posizione accovacciata, o delle “gambe a rana”, è stata identificata come postura del parto, nota anche in spagnolo come postura india, rappresentata a Monte Albàn e documentata dagli etnografi in area Oaxaca. Dal punto di vista farmacologico, infine, il veleno di rospo aumenta e facilita le contrazioni dell’utero (8).

Supposizione generale degli archeologi è che i rospi non costituissero una fonte alimentare di proteine, nonostante le numerose ossa, ritrovate soprattutto della zona di San Lorenzo, sembrino chiaramente resti alimentari o rituali. Il primo a sostenere la tesi che potessero invece essere consumati per altri scopi è stato Michael D. Coe (9): 

I rospi sono un enigma poiché non è possibile spellarli senza che entri nella carne un veleno estremamente pericoloso. Ora stiamo esaminando l’ipotesi che gli Olmec li usassero per una sostanza allucinogena chiamata bufotenina, uno dei suoi ingredienti attivi.

Alla studiosa Dobkin de Rios si deve la prima ipotesi scientifica e non divulgativa che i rospi, così come il fungo e le ninfee nell’arte maya, fossero rappresentati per le loro proprietà psicopompe, sebbene alcune critiche si siano in un primo momento focalizzate contro il carattere vago e poco approfondito della sua documentazione (10). 

In particolare, da un punto di vista chimico si è sottolineato come la bufotenina, nella sua forma isolata, raffinata o sintetica, non riesca ad attraversare la barriera del sangue-cervello se non in seguito a un “trattamento” adatto, che ne aumenti la solubilità per facilitarne l’assorbimento.

La prova (empirica) dell’uso di rospi come allucinogeno è stata fornita dall’etnografo e antropologo Timothy Knab (11), il quale afferma di essere riuscito a penetrare i segreti dei curanderos di quell’area scoprendo i dettagli di una ricetta che elimina i composti più tossici delle ghiandole parotoidi del Bufo marinus e ne potenzia gli effetti allucinogeni:

Si prendono dieci esemplari di questo rospo, se ne asportano le ghiandole parotoidi e si macinano finché non formano una densa pasta. Si aggiunge del cedro e le ceneri di una pianta chiamata tamtwili preparata arrostendo la pianta su un comal. Si aggiunge acqua e si continua a bollire finché non scompaia “un certo cattivo odore”, procedimento che può durare una notte o più a lungo. Alla miscela si aggiunge birra di frumento inacidita e si filtra il tutto con fibra di noce di cocco. Il liquore che ne risulta viene mescolato con la masa, acqua di cedro prodotta da frumento macerato, e 5 grani di granturco in germoglio macinati con la masa. Il miscuglio viene poi esposto al sole per diversi giorni, durante i quali fermenta leggermente ed evapora. Quando il conglomerato viene considerato pronto, il liquido che resta viene evaporato collocando la miscela accanto al fuoco in un recipiente aperto, finché non brucia leggermente. La pasta indurita che ne risulta (piedrecita) può essere conservata indefinitamente, e viene conservata nella foresta, lontana dalle abitazioni. In epoca più antica, si costruivano capanne speciali in cui si conservava la droga.

Il quadro sintomatico che ne deriva, piuttosto sgradevole, consiste in brividi, delirio e tachicardia, simile all’esperienza visionaria prodotta da un rito di passaggio iniziatico.

(1) P. Pecchi, Le religioni precolombiane, 1, Società e senso del sacro, Esd, Bologna 2005, pp. 20-3. (2) Ibid

(3) M. E. Miller, An illustrated dictionary of the gods and symbols of ancient Mexico and the May, Thames and Hudson, New York 1997.

(4) V. Lanternari, Religione, magia e droga. Studi antropologici, Manni, Lecce 2006, pp. 172 ss.)

(5) E infra: E. Nailey Kennedy, Ecce Bufo: il rospo in natura e nell’iconografia degli Olmec, in Quaderni di Semantica, 8, pp. 229-63 (or. Ecce Bufo: The Toad in Nature and in Olmec Iconography, in “Current Anthropology”, 23, 1982, pp. 273-90).

(6) in Thorndike, History of Magic and Experimental Science, 1923. 

(7) J. E. Thompson, Maya history and religion, University of Oklahoma Press, Norman 1970, p. 120.

(8) M. Pérez Ramirez, El enigma del arte prehispánico, 1960.

(9) M. D. Coe, The shadow of the Olmecs, in “Horizon”, 1971, pp. 66-74.

(10) D. de Rios, The influence of psychotropic flora and fauna on Maya religion, in “Current Anthropology”, 1974, 15, pp. 147-52.

(11) T. Knab, Narcotic Use od Toad Toxins in Southern Veracruz (1974); cfr. anche W. Davis, Bufo marinus, new perspectives of an old enigma, in “Revista de la Academia Colombiana de Ciencias Exactas, Físicas y Naturales”, 16, 63, 1988, pp. 151-7.

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