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Addio nostra Signora dei serpenti

Cosa succede al popolo messicano? Eppure questo recente articolo su Wild Hunt spiega bene e con numeri alla mano la presenza di comunità neopagane nel paese che vanta il 90% di battezzati con culto cattolico. Lo riporta un articolo su Lifesite News del 7 settembre, Mexican Catholics protest sculpture mixing Virgin Mary with pagan goddess: decine di centinaia di cattolici messicani sono scesi in piazza nella città di Guadalajara protestando contro l’erezione di una imponente statua di 9 metri che rappresenta un “sincretismo iconografico” tra la Vergine di Guadalupe e la dea procreatrice atzeca Cihuacóatl (Coatlicue). La scultura Sincretismo di Ismael Vargas è visualizzabile qui.

Una pagina del Tovar Codex, attribuito al gesuita messicano del Cinquecento Juan de Tovar, raffigurante due dee, Toci o Tonantzin (sulla sn), “nostra venerabile madre”, che indossa piume, reca fiori e ha un osso tra le narici, e Xochiquetzal (ma le attribuzioni sono dubbie), via Wiki commons

La Vergine di Guadalupe e il compimento dell’evangelizzazione deculturativa

L’opera d’arte sarebbe, per i suoi detrattori, «offensiva» perché «profana» uno dei più importanti simboli della crisianità mischiandovi elementi “pagani” nel senso più dispregiativo, ovvero appartenenti a quelle culture che 500 anni fa sono state cancellate da una colonizzazione che si legittimava sul piano spirituale della conversione.

La protesta diviene politica ma ne sorride il sindaco di area riformista Enrique Alfaro, che difende la scelta dell’amministrazione e del programma artistico ricaduta sulla scultura in questione la quale, come spiega lo stesso autore Ismael Vargas, «rappresenta un semplice e rispettoso resoconto del processo storico che ha permesso alla spiritualità delle culture amerindie di mettersi in relazione con la fede cattolica».

Apertura indigenista

Le autorità ecclesiastiche, nella veste dell’arcivescovo di Guadalajara cardinal Francisco Robles Ortega, approvano l’opera e le sue intenzioni, ammettendo però che queste possono confondere la «gente semplice non in grado di trascenderne il significato». La posizione della Chiesa rimane quindi in linea con quanto affermato dal pontefice Giovanni Paolo II il 30-31 luglio 2002, nel corso della sua seconda visita al centro culturale del Tepeyac, cioè che il «santuario messicano di Guadalupe e l’indio San Diego [Juan Diego, a cui la Madonna “morenita” sarebbe apparsa per la prima volta il 9 dicembre 1531] sono stati i protagonisti di un nuovo modello di evangelizzazione, tanto più vincente quanto più il protagonista, con la propria conversione, avrebbe di fatto rinunciato alla sua identità indigena»¹.

La Vergine Nera

Nel Seicento «la conquista della Nuova Spagna si giustificava nella misura in cui aveva reso possibile alla Madonna di manifestarsi nella terra da lei scelta e fondare in Messico un nuovo Paradiso». Già nella prima metà del Cinquecento in effetti «era convinzione diffusa tra i missionari che il cristianesimo potesse recuperare la sua purezza originaria tra gli indios del Nuovo Mondo, avendo la Provvidenza offerto agli evangelizzatori un campo vergine per impiantare un modello ideale di comunità cristiana»: e, come Israele era stato scelto per ricevere Gesù, così il Messico e in particolare Guadalupe era stato scelto da Maria per una sua nuova manifestazione.

La Madonna che appare all’indio Juan Diego, però, è nera e gli attributi iconico-simbolici che accompagnano la sua sacra immagine a Guadalupe, fin dalla metà del Cinquecento (come il glifo nel suo ventre in cui si è voluto riscontrare il simbolo del dio Sole), sono di origine preispanica.

Il fatto che il veggente fosse un indio suscitò inoltre, da principio, il sospetto del clero e soprattutto dei francescani, che «vedevano i pericoli (non solo dottrinari) dell’appropriazione indigena della mediazione mariana. Del resto – almeno fino agli inizi del secolo XVII – nel luogo di culto della Vergine di Guadalupe [sulla cima di quella zona ondulata a nord di Tenochtitlan] troppo vivi erano i ricordi di un precedente culto indigeno e il rischio [...] di indebite convergenze (idolatriche)».

Dea generatrice

In questo processo di appropriazione e promozione del culto mariano, una antica dea indigena viene “sostituita” dai missionari spagnoli e poi dagli stessi indios; questa dea si chiamava Cihuacoatl (serpente), detta anche Tonantzin cioè “nostra venerata madre”, attributo che «nel Messico precolombiano era conferito in generale a quelle divinità della Terra considerate procreatrici degli dèi e del genere umano»: evidentemente mimetizzata per non scomparire del tutto, nascosta tra le piume d’aquila di cui è adorna o tra le foglie degli alberi di cui è signora. L’apparizione della Vergine Nera, dopo le prime ostilità, viene quindi promossa dai missionari e attraverso di essa si giustifica un colonialismo dottrinario e deculturalizzante, mentre il popolo messicano andava definendo, alle porte del Settecento, una propria identità autonoma secondo la nuova realtà socio-politica, tra tradizioni precolombiane e un cattolicesimo dai connotati spiccatamente barocchi.

Strumento polisemico nazional-popolare

A testimoniare che l’icona guadalupense assume con il tempo connotazioni identitarie e nazionaliste è il fatto che l’immagine compare sullo stendardo degli insorti messicani del 1810, quando l’acquisita indipendenza del paese fu letta come la realizzazione della promessa “liberatrice” e salvifica della Vergine del Tepeyac, che diventa «uno strumento attivo di riscatto indigeno [stimolando la ricerca di una nuova “identità nessicana”] in una contraddittoria realtà globale».

Scriveva ancora l’antropologo e storico delle religioni Gilberto Mazzoleni nel suo saggio del 2002 che «chi guarda con spirito critico al periodo della colonizzazione spagnola [...] considera il culto guadalupano come uno strumento di rivitalizzazione di un’identità indigena» poiché contribuisce a «ripensare alle molte contraddizioni del passato e a favorire l’integrazione delle diverse realtà a vantaggio di una sintesi originale e in divenire» che non sia «rigidamente omologante»; ebbene oggi i fatti di cronaca che riguardano il riconoscimento del debito indigeno del diffusissimo culto mariano divengono la negazione stessa di questo riconoscimento, che viene mantenuto dall’intellighenzia (politica, culturale, ma pur sempre elitaria) mentre il “popolo” sembra essersi asservito alla logica colonizzatrice di cui deve aver perso il ricordo. Proponiamo qui di seguito, nostro modesto contributo alla sua memoria storica, una antica preghiera alla dea serpente. 

Inno alla Madre dei mortali

Quilatzli, di piume d’aquila chiomata, adorna della criniera delle aquile, dipinta con sangue di serpente, viene con la sua vanga, suonando il tamburo, da Colhuacan. 
Lei sola, lei la nostra carne, dea dei campi e degli alberi, lei sola è abbastanza forte da supportarci.
La dea delle messi ci sostiene con una scopa tra le mani. Nostra madre è come dodici aquile, dea che suona il tamburo e che riempie i campi con l’agave e lo tzioac come il nostro signore Mixcoatl.
Lei è nostra madre, dea della guerra, nostra madre, la dea della guerra, lei è il nostro esempio e ci accompagna presso la dimora degli antenati.
Lei avanza per prima, quando viene dichiarata la guerra, e nella guerra ci protegge affinché non siamo distrutti, lei è il nostro esempio e ci accompagna alla dimora degli antenati.
Lei arriva, come nell’antichità, adorna di una cresta d’aquila, come nei tempi antichi viene adorna di una cresta d’aquila².
*

   1. E di seguito per i virgolettati cfr. G. Mazzoleni, La Virgen de Guadalupe. A proposito di un culto mariano, in Id., Identità. Contributo a una disciplina del confronto e della riflessione, Bulzoni, Roma 2002, pp. 59-69.
   2. Quilatzli è un altro nome di Cihuacoatl; lo tzioac sembra essere un albero o pianta sacra. Tratto da D. G. Brinton, Rig Veda Americanus, Sacred Songs Of The Ancient Mexicans, With A Gloss In Nahuatl, via Sacred Texts Archive. Trad. nostra.

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