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Storia di Setne, principe e mago


L’immaginario che riguarda l’aldilà, in Egitto, resta sostanzialmente immutato dal Nuovo Regno fino all’età ellenistica, dopo l’annessione all’impero di Alessandro, nel 332 aev, e poi romana. All’impianto religioso tradizionale egizio si aggiungeranno simboli e raffigurazioni di provenienza soprattutto greca, che, in ogni caso, non ne modificano il significato. Il Libro dei Morti e gli altri testi funerari continuano a essere deposti nelle tombe, accanto ai defunti. Raccontano di un paese sotterraneo, attraversato da strade e canali, interrotto da porte che il morto deve attraversare e popolato da terrificanti spiriti guardiani che possono essere placati solo se si conoscono le giuste formule.

L’aldilà tra luci e ombre

Il mondo dei morti è un campo di giunchi dove si vive in pace accanto a Osiride e agli dei suoi consiglieri.

Al tempo stesso, però, l’aldilà è un luogo oscuro e pericoloso dove a figure protettrici e rassicuranti (come Horus che calpesta una tartaruga e incatena esseri malefici in forma di serpenti e di pesci) si contrappone ogni sorta di geni funerari più o meno spaventosi — serpenti incoronati, scimmie munite di coltelli, “patechi” bifronti e Sekhmet la Divoratrice, dall’aspetto di nera leonessa. 

Queste immagini sono così pregnanti che continueranno a popolare l’immaginario egiziano fino al periodo più tardo, e si ritrovano rappresentate sui cartonnage (contenitori in papiro o tessuto, incollati e ricoperti di stucco dipinto, che avvolgono le mummie dall’inizio del I millennio aev), insieme ai simboli della rigenerazione e della protezione degli dei dell’aldilà: il pilastro-djed, immagine della resurrezione di Osiride, il nodo di Iside, che assicura “la protezione magica delle membra” del morto, la croce ansata ankh, simbolo dell’eternità della vita, l’occhio-udjat.

È ancora Anubi il dio che introduce e guida i defunti nell’ultimo viaggio, dopo aver assicurato la conservazione del corpo grazie al rituale dell’imbalsamazione

A partire dal II sec. ev, Anubi è raffigurato nel suo aspetto canino con una grossa chiave appesa al collo — la chiave della porta degli Inferi... —, un oggetto che non appartiene alla simbologia egizia ma è una novità acquisita dall’iconografia funeraria greco-romana.

Gli amuleti e gli incantesimi sono necessari, poiché destinati alla sopravvivenza dell’individuo attraverso la perpetuazione del suo nome, del suo status e delle azioni che ha compiuto. 

Le formule e gli amuleti, però, da soli non bastano ad assicurare la felice sorte nell’aldilà. Fin dai testi più antichi, sono presenti  il tema del giudizio e l’idea di un castigo che punisce la condotta di vita terrena. Nella Sala della Doppia Verità avviene la pesatura del cuore del defunto, il quale deve dichiarare alla presenza di Osiride che le sue azioni sono sempre conformi ai dettami di Maat, il giusto ordine di tutte le cose.

In Età Tarda questo tema sembra rafforzarsi e assumere contorni più precisi, espresso con molta chiarezza nella Storia di Setne. Il protagonista visita l’oltretomba dove è testimone della beatitudine dei giusti e delle torture destinate ai peccatori che scontano una pena eterna, descrive dettagliatamente il mondo dei morti e le divinità che vi risiedono.

Storie di maghi

Il principe Setne Khamwas (o Khaemwese) fu storicamente il quarto figlio di Ramses II (XIX dinastia) e gran sacerdote di Ptah a Menfi; era molto famoso nell’antichità e conosciuto come il primo archeologo, per via dei restauri che fece eseguire su alcuni monumenti del vecchio regno per preservarne la memoria. 

Nel tempo il personaggio si è arricchito di elementi fantastici diventando nell’immaginario popolare un sapiente scriba e un potente mago che ha trascorso la vita ad apprendere sui libri i segreti di tutte le cose, protagonista in particolare di due storie riportate su altrettanti papiri demotici di epoca romana risalenti al IV sec ev (Setne ISetne II, conservati rispettivamente presso il Museo del Cairo, papiro n. 30646, e il British Museum, papiro n. 604, 10822 secondo la nuova numerazione del Dipartimento di Antichità egiziane), ma probabilmente scritti, a giudicare dallo stile, in momenti diversi. 

I tratti descrittivi sono vividi e vivaci e la sequenza narrativa, pervasa dal soprannaturale, diventa quasi un ciclo poiché le vicende e i personaggi si intrecciano, richiamandosi, mentre altri episodi e varianti sono contenuti in diversi frammenti.

Una gara di magia

Setne viene a sapere dell’esistenza di un libro magico scritto dal dio Thoth in persona e rinchiuso nella tomba di un principe di nome Naneferkaptah, a sua volta un grande mago vissuto in un remoto passato e sepolto da qualche parte nella vasta necropoli di Menfi. 

Dopo una lunga ricerca, il principe Khamwas, accompagnato da suo fratello adottivo Inaros, riesce a trovare il sepolcro ma, nel momento in cui cerca di impossessarsi del libro, gli spiriti di Naneferkaptah e di sua moglie Ahwere si sollevano per difenderlo. 

I due maghi ingaggiano una gara di abilità che vede Setne sconfitto. La magia, seppur legittima, è un’arma pericolosa che può spingere l’uomo a misurarsi con i più intimi segreti della vita e della morte, i quali appartengono solo agli dei.

In conclusione di Setne I, il protagonista riesce a riportare la mummia della moglie e del figlio del mago da Coptos a Memphis, così che la famiglia possa riunirsi nella stessa tomba. 

Il Pariro n. 10822 conservato presso il British Museum che riporta sul fronte la storia di Setne II.

L’anima in una statua

La vicenda di Setne I verrà menzionata, molto tempo dopo, in un contributo pubblicato dalla Theosofical Publishing Society del 1896. Gli autori, ispirati ai princìpi di Madame Blavatsky, sembrano trovare conferma a una particolare dottrina secondo cui è possibile che un oggetto inanimato divenga ricettacolo magico di uno spirito:

... Il ka (la personalità, l’essenza umana) di ogni uomo, dopo la morte del corpo, può entrare in una immagine, in un dipinto o in un altro strumento magico preparato e usato come ricettacolo. Ne La storia di Setne, un papiro demotico del I sec. ev, è scritto: ‘ora nella tomba c’era Na-Nefer-Ka-Ptah e con lui c’era il ka di sua moglie Ahura: sebbene sia sepolta a Koptos, il suo ka risiede a Memphis con il suo amato marito’. Ovvero, con ogni probabilità, dimorava in una statua, un vaso o un recipiente: se la mummificazione preservava il sahu (corpo astrale, elementale) e il khaibt (radiazioni, emanazioni del sahu), così la cassa che contiene la mummia, con le rappresentazioni dipinte della vita del defunto, ne conservava il ka.

Le statue funerarie erano considerate le immagini del ka e spesso si presentavano con le braccia e le mani distese nell’atto di respingere magicamente gli spaventosi spiriti del mondo dei morti.

Il ka riceveva in offerta cibi e bevande, ma non si credeva che li assumesse fisicamente, piuttosto ne assimilava le energie per preservare e incrementare la sua forza. 

F. Dunand, C. Zivie-Coche, Dei e uomini nell’Egitto antico, 3000 a.C.-395 d.C., L’Erma di Bretschneider, 2003, pp. 341 ss.); H. D. Betz, The Greek Magical Papyri in Translation, Including the Demotic Spells, vol. 1, University of Chicago Press, 1996, xlii ss; M. Lichtheim, Ancient Egyptian Literature: A Book of Readings, vol. 3, University of California Press, 1980, pp. 125-6; 
 P. J. Frandsen, Demotic Texts from the Collection, Museum Tusculanum Press, 1991, pp. 33 ss.).
A. Bart in euler.slu.edu

In copertina: mano in legno lavorato e dipinto policromo, da una statua funeraria, Terzo periodo intermedio (1069-747 aev ca.). via Online Galleries.