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Gli Hieroglyphica di Orapollo, ovvero l’interpretazione delle oscurità

Cosa significa una stella? Come si esprime l’idea della morte, della vita, del potere, dei rapporti umani, dell’eternità? A queste e a molte altre curiosità sulla scrittura geroglifica risponde il trattato di Orapollo Niloo (cioè l’egiziano), opera sull’interpretazione dei geroglifici del V-VI secolo pervenutaci integra in traduzione greca, l’unica trattazione sistematica sui geroglifici egiziani che sia stata tramandata dall’antichità.

Handbook of Archaeology (Internet Archive)

Scrittura enigmatica e occulte dottrine

Lopera, il cui titolo generale è L’interpretazione dei (?) segni (geroglifici), l’interpretazione delle difficoltà, il penetrare ciò che è nascosto, l’interpretazione delle oscurità […] ossia il loro venire in protezione (?). L’interpretazione di quanto promana dagli dei, i venerabili antenati, il sapere iniziatico (?) che promana dai distretti e dalle città dell’Alto e Basso Egitto [… trovato in] un rotolo di pelle nel tempio di Osiride, preposto agli Occidentali, il dio grande signore di Abido, in […], si presenta come un breve catalogo in due libri, nei quali sono contenute le spiegazioni e lesegesi di 189 segni geroglifici

I, 1. L’eternità.
Le immagini sono tratte dall’edizione francese del 1551 Horou Apollōnos Neilōou Hieroglyphika.

Il primo manoscritto fu portato a Firenze nel 1422 da un viaggiatore fiorentino, Cristoforo Buondelmonti, che lo trovò sullisola greca di Andros, e subito fu ritenuto, al pari degli scritti di Ermete Trismegisto, una composizione antichissima, in grado di rivelare i significati più oscuri, reconditi e religiosi della natura.

Lopera, stampata in numerose edizioni, tradizioni e ristampe, con commenti e rielaborazioni, suscitò subito un grande entusiasmo e conobbe una rapida diffusione. La ragione di questa straordinaria e immediata fortuna, oltre che una grande influenza nei secoli successivi, consiste nel fatto che i geroglifici sono spiegati secondo uninterpretazione puramente simbolica delle qualità misteriose che regolano il rapporto tra limmagine (il segno) e il significato, trasformando il mondo in un repertorio di immagini da collegare tra loro sulla base di analogie segrete e profonde.

Sono infatti oggetto della trattazione solo i geroglifici enigmatici, che si riteneva fossero una sorta di codice segreto capace di rendere accessibili gli antichi misteri religiosi e filosofici egiziani. Una scrittura che, diffusasi in epoca tolemaica come reazione ai culti delle divinità straniere introdotte dalla nuova classe dirigente, in realtà non esiste, ma fu solo uninvenzione erudita, tarda e artificiosa, ideata dai sacri scribi per accrescere lesclusività della loro arte.

Non tutti i segni descritti da Orapollo, però, sono inventati. Avendo avuto ancora una conoscenza di prima mano del sistema di scrittura egiziano, molti simboli da lui riportati, per quanto bizzarri, trovano una reale corrispondenza nellautentica scrittura geroglifica.

Gli ultimi circoli pagani del V secolo

Se nulla si sa del traduttore in greco dellopera, tale Filippo, si conosce poco anche dellautore, in base alle notizie che è possibile trarre dalla Suida: legiziano Orapollo, vissuto probabilmente sotto Zenone (474-491), quindi molto più tardi rispetto a quanto ritennero gli umanisti al momento della scoperta del libro.

Orapollo diresse una delle ultime scuole pagane dEgitto, presso Alessandria, per poi essere coinvolto in uninsurrezione contro i cristiani che, come reazione, portò alla dispersione della scuola: una piccola cerchia di filosofi ed eruditi che investigavano le ultime vestigia di un passato ormai remoto, cercando di mantenere in vita lantico culto egiziano alla luce del pensiero neoplatonico. In questi ambienti furono composti gli Hieroglyphica.

— Sulle resistenze dell’intellettualità pagana nel Tardo impero leggi anche: La fine di un mondo. Ultimi tentativi di restaurazione pagana a Roma

Prendendo spunto dalle varie grafie, lautore fornisce così preziose informazioni sul pensiero scientifico e religioso e sulla civiltà egiziana in generale, come a proposito delle origini e dello sviluppo storico del calendario o cenni relativi alluso astronomico di alcuni animali sacri.

I, 3. L’anno.
I, 3. Lanno. Quando vogliono rappresentare l’anno raffigurano Iside, cioè una donna; della medesima immagine si servono anche per indicare la dea. Identificano infatti con Iside quella stella, chiamata Sothis in lingua egiziana [Sirio], Astrokyon in greco, che sembra regnare sugli altri astri, sorgendo talvolta più talvolta meno grande, ora più ora meno luminosa; in base al sorgere di questa stella noi traiamo le previsioni di tutto ciò che avverrà nel corso dell’anno. Non è dunque senza ragione che gli Egiziani chiamano l’anno Iside. Quando invece vogliono indicare l’anno in maniera diversa rappresentano una palma, perché, di tutti gli alberi, questo solo produce un nuovo ramo a ogni novilunio, così che nei dodici rami l’anno è completo.

Le proprietà meravigliose degli animali

Il secondo libro è incentrato sulle caratteristiche degli animali, più o meno favolistiche”, che verosimilmente appartengono più alla conoscenza greco-romana che non a quella egizia: l’orso, il castoro e l’elefante, infatti, non potevano essere conosciuti dagli antichi Egizi e difficilmente potevano far parte del loro simbolismo sacro.

In questi casi, i geroglifici potrebbero essere stati solo un pretesto per fornire delle spiegazioni che riguardano gli animali e le loro meravigliose proprietà, tra laltro riproponendo delle nozioni ben conosciute da opere quali la Storia naturale di Plinio o la Storia degli animali di Aristotele, Eliano e altri autori antichi: il soffio fatale del basilisco, i soprannaturali metodi di concepimento delle vipere, la fenice, i cigni che cantano, il toro addomesticato, i montoni e così via. 

(cfr. L. Thorndike, A History of Magic & Experimental Science, Columbia University Press, New York-London 1923, pp. 322 ss.) 

Più originali, o se vogliamo meno familiari, altri temi e credenze dal mondo animale come il piccione che si cura poggiandosi del lauro sul petto, o le ali di pipistrello davanti a un formicaio che impediscono alle formiche di uscire.

Il mito della fenice

Numerose affinità con i simboli descritti da Orapollo, che già riprendevano le idee degli autori greci, si ritroveranno quindi in una lunga serie di bestiari e lapidari medievali, dopo essere state riprese dagli autori cristiani. 

È il caso della fenice, che secondo gli Hieroglyphica simboleggia lanima e l’eterno rinnovamento di tutte le cose, assunta come simbolo di resurrezione e dell’immortalità dell’anima: creatura sacra al sole, diversa da tutti gli altri uccelli per il becco e per le tinte del piumaggio («sacrum Soli id animal et ore ac distinctu pinnarum a ceteris avibus diversum», Tacito, Annali, VI, 28), in parte dorato e in parte rosso (Erodoto, Storie, 2, 73.2), molto simile a un’aquila per forma e dimensioni.

In realtà, le versioni del mito fornite in due differenti voci da Orapollo (I, 34-35 e 2, 57) non corrispondono del tutto: nella seconda, non è solo la fenice padre a far ritorno in Egitto, a Eliopoli, ma con essa si reca anche la figlia, nata dal siero di una ferita del genitoreNella prima versione, invece, la fenice, quando sente sopraggiungere la fine, fa ritorno in Egitto con l’intento di morire nel proprio paese. 

La seconda versione, quella riportata nel secondo libro, rappresenta la tradizione più diffusa, quella per esempio descritta da Erodoto (2, 73.3-4): volando dallArabia al tempio del Sole (ἐς τὸ ἱρὸν τοῦ Ἡλίου), a Eliopoli, la giovane fenice trasporta il padre morto avvolto in un uovo di mirra, e lo seppellisce.

Il periodo del “grande rinnovamento” o rinascita, reso dal traduttore greco con il termine ἀποκατάστασιςè rappresentato da un ciclo variabile di anni, trascorsi i quali gli astri si ripresentano nella stessa posizione che occupavano gli uni rispetto agli altri all’inizio di tale periodo. 

I, 34. Come rappresentano un’anima che rimane a lungo in questo mondo (la fenice).

Alla fine di questo lungo ciclo astronomico, ripetendosi gli influssi dei pianeti, si riteneva che si sarebbero ripetuti anche i fenomeni meteorologici e gli eventi della storia universale, in tutti i particolari. 

Ed è al termine di questo periodo che la fenice rinasce; secondo Tacito, tale lasso di tempo corrisponde a 1.461 anni («sunt qui adseverent mille quadringentos sexaginta unum interici») oppure a 500, secondo la tradizione generale («maxime vulgatum quingentorum spatium»).

I, 34. Come un’anima che rimane a lungo in questo mondo. Quando vogliono simboleggiare un’anima che rimane a lungo in questo mondo oppure un’inondazione raffigurano la fenice; l’anima perché questo uccello vive più a lungo di tutte le altre creature della terra, un’inondazione perché la fenice è simbolo del sole e nulla nell’universo è più grande di esso; il sole infatti sovrasta e scruta ogni cosa ed è per questo che viene chiamato “dai molti occhi”.

I, 35. Come colui che ritorna in patria dopo una lunga permanenza all’estero. Per rappresentare colui che ritorna in patria dopo una lunga permanenza all’estero raffigurano di nuovo la fenice. Quest’uccello infatti, passati cinquecento anni, quando sta per coglierlo il tempo della morte, fa ritorno in Egitto e, dopo aver pagato il debito col destino entro i confini dell’Egitto (se riesce a giungervi prima della morte), riceve mistici onori funebri. Alla fenice devono essere tributati tutti gli onori che gli Egiziani rendono agli altri animali sacri. Si dice infatti che gli Egiziani godano del sole più di tutti gli altri uomini, dal momento che anche il Nilo straripa a loro beneficio a causa del calore di questo dio.

II, 57. Come il grande rinnovamento ciclico degli astri. Quando vogliono simboleggiare il grande rinnovamento ciclico degli astri, raffigurano la fenice; alla sua nascita, infatti, ha luogo un rinnovamento delle cose. Essa nasce in questo modo: quando la fenice è vicina alla morte, si getta a terra con violenza procurandosi per il colpo una ferita. Dal siero che cola da questa ferita nasce una nuova fenice. Non appena messe le ali, questa vola insieme al padre a Eliopoli, in Egitto, e qui, al sorgere del sole, il padre muore. Dopo la sua morte, la giovane fenice fa ritorno alla propria patria, mentre i sacerdoti egiziani seppelliscono la fenice morta.

Rappresentare gli dei

Per indicare alcune divinità della tradizione greco-romana, si ricorre a dei segni raffiguranti degli specifici animali, che ne diventano quindi il simbolo. 

Ad esempio, Ares e Afrodite sono rappresentati da una coppia di sparvieri o di cornacchie. Nel caso degli sparvieri, se il maschio è associato al sole, la femmina è la luna e il loro accoppiamento in base al numero 30 simboleggia il novilunio, cioè quando il sole si congiunge con la luna. Lo sparviero simboleggia la divinità in generale perché è longevo e fecondo, oltre che, in associazione al sole, la vista, laltezza, la vittoria ed anche il sangue, perché si dice che questo animale beva sangue anziché acqua (I, 6).

La cornacchia sembra invece essere stata scelta per la caratteristica fedeltà coniugale che lega il maschio alla femmina, e viceversa, fino alla morte, fedeltà che viene rispettata sia in caso di nozze endogamiche (quando i due piccoli, maschio e femmina, una volta adulti si accoppiano tra di loro), sia esogamiche (quando, seppur raramente, dalla nidiata nascono due maschi o due femmine).

Efesto e Atena, ritenuti essere dei ermafroditi per gli Egizi, sono invece associati allo scarabeo e all’avvoltoio.

Per Orapollo, lo scarabeo rappresenta la nascita, anche se nella religione egizia rappresentava in realtà il sole, che ogni giorno riappare dalle tenebre, e pertanto si credeva che rinascesse dalla propria decomposizione; da qui l’usanza di utilizzare amuleti a forma di scarabeo: questo animale sembrava infatti celare in sé il principio dell’eterno ritorno.

Se lo scarabeo indica il padre, perché si riteneva che si potesse autogenerare senza l’ausilio di una femmina, l’avvoltoio rappresenta la madre (I, 11): secondo la credenza, questo animale non aveva il genere maschile; quando la femmina voleva riprodursi, apriva la vagina al vento del nord e si lasciava fecondare per cinque giorni. 

I, 8. Come rappresentano Ares e Afrodite (due cornacchie o sparvieri).

Nella simbologia degli Hieroglyphica, L’avvoltoio rappresenta Atena ed Era«perché gli Egiziani ritengono che Atena abbia il dominio dell’emisfero superiore del cielo, Era di quello inferiore; [...] si servono di un termine femminile poiché è nel cielo che sono generati il sole, la luna e le altre stelle e il generare è attività femminile».

I, 8. Come Ares e Afrodite. Per indicare Ares e Afrodite raffigurano due sparvieri, il maschio lo assomigliano ad Ares, la femmina ad Afrodite. Infatti in tutte le altre specie animali la femmina non si sottomette al maschio a ogni accoppiamento come avviene tra gli sparvieri, presso i quali essa è messa alla prova trenta volte al giorno e, se si allontana, al richiamo del maschio di nuovo gli si sottomette. Per questo gli Egiziani chiamano Afrodite ogni donna che ubbidisce all’uomo. Per lo stesso motivo lo sparviero è sacro al sole; come il sole, infatti, nell’accoppiamento con la femmina esprime il numero trenta. Quando vogliono rappresentare diversamente Ares e Afrodite, raffigurano due cornacchie, un maschio e una femmina, poiché quest’uccello depone due uova dalle quali devono venire alla luce un maschio e una femmina; qualora nascano due maschi o due femmine, cosa che però accade raramente, i maschi che si sono accoppiati con le femmine non si uniscono più a nessun’altra cornacchia fino alla morte, e così pure fanno le femmine; quelle il cui compagno muore trascorrono la vita in solitudine. 

I, 12. Come indicano Efesto e Atena. Per indicare Efesto raffigurano uno scarabeo e un avvoltoio, per indicare Atena un avvoltoio e uno scarabeo; [essi ritengono infatti che il mondo sia costituito da un elemento maschile e da un elemento femminile; <per Efesto che è maschio> raffigurano uno scarabeo, per Atena invece raffigurano l’avvoltoio.] Per gli Egiziani infatti essi sono i soli dei ermafroditi.
I, 12. Come indicano Efesto e Atena (lo scarabeo e l’avvoltoio).

Una voce che viene da lontano

Anche se lontana da quel remoto passato che intendeva riecheggiare, offrendo la promessa di una conoscenza superiore e segreta, nondimeno lopera conobbe una grande fama nel XV e XVI secolo, agli occhi di quei letterati cui lEgitto appariva la patria per eccellenza di un arcano e antichissimo sapere, una verità mascherata da simboli accessibili solo agli iniziati. 

Circondato dalloscurità dei secoli, lEgitto era un visto come un paese esotico e prodigioso, terra dorigine della magia e di tutte le scienze. Il mito della sapienza egiziana era stato alimentato da opere quali, ad esempio, il trattato su Iside e Osiride di Plutarco e lo scritto ermetico De Mysteriis di Giamblico, allievo di Porfirio, disputa filosofica sull’arte ieratico-sacerdotale e sulla teurgia, cui presiede Hermes Trismegisto identificato con il dio egizio Thoth.

Anche Apuleio, nelle Metamorfosi o L’asino d’oro, descrive in maniera particolareggiata i Misteri di Iside, e fa riferimento a un libro scritto in caratteri ignoti, in parte con figure di animali e in parte con segni misteriosi incomprensibili ai profani, che il sacerdote gli mostra prima delliniziazione (XI, 22, qui la traduzione):

[senex] de opertis adyti profert quosdam libros litteris ignorabilibus praenotatos, partim figuris cuiuscemodi animalium concepti sermonis compendiosa verba suggerentes, partim nodosis et in modum rotae tortuosis capreolatimque condensis apicibus a curiosa 1profanorum lectione munita: indidem mihi praedicat quae forent ad usum teletae necessario praeparanda.
[il vecchio] trasse da una celletta certi libri scritti in caratteri misteriosi: figure danimali dogni specie, alcuni, parole abbreviate che racchiudevano un discorso complesso; altri tutti svolazzi e circoletti come ruote o a riccioli e nodi come viticci perché i profani nella loro curiosità non potessero decifrarli. Ma proprio di lì egli mi lesse le istruzioni necessarie per la mia iniziazione.
I, 13. La stella.

Ma tutta la speculazione rinascimentale sullefficacia magica dei geroglifici, che si riteneva avessero una forza creatrice sconosciuta alle altre forme di scrittura, deve la sua fortuna alla tradizione ermetica e neoplatonica, a partire da una breve osservazione di Plotino, che nelle Enneadi scrive (V, 8.6):

i saggi di Egitto [...] quando volevano rivelare la loro sapienza, non si servivano dei segni delle lettere [...] ma disegnavano figure, ciascuna delle quali significava una singola cosa [...] in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna figura è sapienza, soggetto e sintesi.

Questo brano è stato poi tradotto e commentato da Marsilio Ficino, il quale sostenne che i sacerdoti egiziani avevano voluto creare con i geroglifici qualcosa di corrispondente al pensiero divino, come forma semplice e certa della cosa rappresentata: il geroglifico è dunque lo strumento privilegiato della conoscenza perché offre una visione totale e immediata delle cose. 

E ancora nel XVI secolo, Giordano Bruno parla di tale scrittura come un modo per impadronirsi della lingua degli dei (De magia et theses de magia, in Opere latine, III vol., pp. 411-2):

Tales erant litterae commodius definitae apud Aegyptios, quae hieroglyphicae appellantur seu sacri characteres, penes quos pro singulis rebus designandis certae erant imagines desumptae e rebus naturae vel earum partibus; tales scripturae et tales voces usu veniebant, quibus Deorum colloquia ad mirabilium execuutionem captabant Aegyptii.

Le sacre lettere in uso tra gli Egizi venivano chiamate geroglifici ed erano immagini tratte dalle cose della natura o parte di esse. Servendosi di tali scritture e voci erano soliti impadronirsi, con meravigliosa abilità, della lingua degli dei. 

Nel simbolo è pertanto racchiusa tutta una forza spirituale che emana dalla sua immediatezza, permettendoci di alzare lo sguardo, interamente e in un istante, dal fondo oscuro dell’essere e del pensiero.

I, 29. Una voce che viene da lontano.

(Cfr. Orapollo, I geroglifici, introduzione, traduzione e note di M. A. Rigoni, E. Zanco, Bur, Milano 2001. Cfr. anche F. Crevatin, G. Tedeschi, a cura di, Trattato sui geroglifici. Testo, traduzione e commenti, in Quaderni di AIΩN, 8, 2002, pp. 5-181.)

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