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Roberto il Diavolo, opera in cinque atti

Un dì sbarcò al porto di Palermo un giovane straniero per andare a prender parte al torneo indetto dal duca di Messina. Aveva con sé bellissime armi e al seguito compagni, scudieri e un amico dall’aria losca dal quale non si separava mai, di nome Bertram. Ad accoglierli, sull’ombroso lido, alcuni cavalieri radunati a tavola che si concedevano una lauta gozzoviglia. L’opera di Giacomo Meyerbeer, compositore berlinese, andò in scena per la prima volta a Parigi nel 1831 e fu un successo senza precedenti, superando qualsiasi previsione. Essa si inserisce nella tradizione del racconto morale cavalleresco che prevede la soluzione del conflitto drammatico da parte dell’eroe in un percorso che parte dalla dannazione e arriva alla santità, dopo il superamento di alcune difficili prove. La più sensazionale, narrata nella scena VII, costituisce il culmine drammatico dell’intera opera e mette in scena un baccanale di monache fantasma, sullo sfondo dal gusto gotico e decadente di un vecchio monastero abbandonato.

Gustave Courbet, Louis Guéymard nelle vesti di Robert le Diable, 1857, via Wikivisually

Il figlio del Diavolo

Dopo le prime battute di presentazione, sappiamo subito di chi si tratta, grazie all’eloquenza poco opportuna di un vassallo cantastorie di nome Rambaldo: è Roberto duca di Normandia, che viene identificato dai romanzieri francesi sin dal XV secolo con il secondogenito di Riccardo II il Buono, asceso al trono nel 1028. Le battute iniziali lo tratteggiano come un «tristo soggetto promesso a Lucifero», figlio di una principessa che il Diavolo in persona aveva corrotto con le sembianze di uno splendido guerriero «dal parlare seducente». Roberto cresce e compie i più odiosi misfatti, imperversando per le contrade a uccidere e violentare, fedele solo all’ebrezza, al gioco e all’appagamento del proprio piacere, e per questo viene bandito dal suo paese. Così inizia l’opera di Giacomo Meyerbeer, con Roberto che si è rifugiato in Sicilia forse cacciato dal padre, forse costretto dalle conseguenze dei suoi disordini. Solo, a volte, risuona un rantolo di coscienza quando affiora il ricordo della madre, che, morente, gli invia un doloroso messaggio per tramite della sorellastra Alice.

La vicenda si snoda attorno alla progressiva corruzione dell’anima di Roberto a opera di Bertram, che si scoprirà essere il diavolo suo padre. Egli lo vuole suo, senza distrazioni, per fargli firmare entro la mezzanotte del giorno prefissato il patto irrevocabile che lo consegnerà senza ritorno alla dannazione eterna. Così, mentre la sua fedele innamorata Isabella viene contesa a duello e vinta come premio dal principe di Granada, Roberto neanche si presenta e trascorre il tempo giocando a dadi.

Alice e Roberto in una litografia svedese del 1848, via Internet Archive

«La felicità è nell’incostanza»

Per portare a termine il suo piano, Bertram offre a Roberto infinite tentazioni. Un giorno, sullo sfondo di un paesaggio roccioso con, sulla destra, le rovine di un antico tempio e «caverne di cui si vede l’entrata, dall’altra parte una croce di legno», Bertram consuma il suo piano. Dalla caverna si sente risuonare cupamente un coro di demoni, «neri fantasmi» che invocano «Gloria al signore che ci guida, / e alla danza che egli presiede». Il sole si oscura, l’anima raggela. Alice, che ha raggiunto il fratello in quel funesto luogo per consegnarli la lettera materna, trema e vacilla dal terrore nell’udire «la voce crudele dell’angelo ribelle».

Nella scena successiva Bertram propone finalmente a Roberto di compiere l’atto estremo. «Esistono dei segreti per invocare gli spiriti invisibili», e accedere ai misteri che apriranno le porte di ricchezza e immortalità: c’è un’antica abbazia, gli confida Bertram, «che l’ira del cielo ha abbandonato all’inferno». In mezzo ai chiostri deserti si innalza la tomba di santa Rosalia; in questo terribile luogo, proprio sulla tomba della santa cresce un ramo sempreverde che è un talismano potentissimo e temuto. All’idea di compiere un tale sacrilegio Roberto sembra arretrare, tuttavia si lascia convincere e si reca nel luogo indicato.

Sacerdotesse del cielo

La scena VII
rappresenta una delle gallerie del chiostro. A sinistra, attraverso gli archi, si vede un cortile pieno di tombe di pietra [...]. A destra, nel muro, fra molte tombe sulle quali sono sdraiate figure di monache intagliate nella pietra, si nota quella di santa Rosalia. La sua statua di marmo è coperta da un abito religioso e tiene in mano un ramoscello verde di cipresso. Sul fondo una grande porta e una scala conducono alla cripta del convento. Lampade di ferro arrugginito sono appese alla volta. Tutto mostra che il luogo è rimasto disabitato da molto tempo.
Al chiarore lunare, il silenzio è interrotto dallo stridore degli uccelli notturni che, disturbati dall’arrivo di Roberto, volano via. In questo antico monastero abitavano un tempo delle suore che in realtà erano ardenti «sacerdotesse del cielo» le quali, al posto dei servizi claustrali, si dedicavano a celebrare i piaceri della natura «bruciando ad altri dèi un incenso impudico». Salvo poi provocare l’ira della santa che diede loro la morte e le condannò per l’eternità su quelle fredde lapidi tombali, trasformate anch’esse in corpi di pietra.

Al sopraggiungere di Roberto, ecco però che la scena inizia ad animarsi in maniera innaturale. Dapprima si scorgono dei fuochi fatui che procedono lungo le gallerie e si fermano sulle tombe delle monache, poi le figure «si sollevano con sforzo, si alzano e scendono a terra». Sono le monache vestite di bianco che, con pallore mortale, si alzano dai loro sepolcri. Il fuoco delle lampade si riaccende illuminando la cripta. «Che egli sia sedotto dai vostri incantesimi», impetra Bertram alle monache fantasma le quali, intanto, hanno estratto dalle tombe «gli oggetti della loro passione profana»: anfore, coppe, dadi. «Qualcuna fa delle offerte a un idolo», le altre «si adornano la testa di corone di cipresso per lasciarsi andare alla danza con grande leggerezza. Ben presto non sentono più che l’attrattiva del piacere, e la danza diventa un ardente baccanale».

Roberto viene circondato dai fantasmi delle giovani e, dopo un primo comprensibile disagio, ogni resistenza cede ed egli accetta la coppa offertagli da una di esse. Al compiere questo gesto, però, e riconoscendone l’empietà, si allontana con ribrezzo. A nulla più serviranno le insistenze di Bertram che, ritenendo ormai di aver conquistato l’anima del cavaliere, lo attende con «una pergamena e uno stiletto di ferro» per fargli firmare il patto irrevocabile che li avrebbe uniti per l’eternità. E così il diavolo viene sconfitto, mentre la terra si apre per inghiottirlo in una nera voragine.

«Terribile storia in verità, ma piena di nobile insegnamento»

In alcuni particolari della vicenda del nostro Roberto, come tramandata dalle prime testimonianze medievali fino alle opere cinematorafiche, sembra di poter riconoscere un “plot narrativo” che riguarda le vicende di alcuni personaggi i quali condividono alcune caratteristiche: giovani e forti, di nobile stirpe, avvezzi al comando e dediti ai più sfrenati piaceri disseminando terrore e spargendo sangue, fino a travalicare l’orlo dell’abominio e perdere infine la qualità stessa di esseri umani. Fatta salva, poi, la redenzione concessa a seguito di lungo e travagliato pentimento.

Così, ad esempio, ne riporta la leggenda Arturo Graf nel Diavolo (1889), poderoso compendio ordinato e compiuto di «casi meravigliosi e formidabili istorie» sul diavolo, appunto, e le sue svariate sembianze. Secondo la tradizione riportata da Graf, la storia di Roberto ricorda quella di un altro personaggio avvolto nella più fosca reputazione, Gilles de Rais maresciallo di Francia, condannato a morte sulla piazza di Nantes per i suoi crimini nel 1440. Anche di lui sappiamo ‒ e lo sappiamo con la crudezza degli atti processuali  ‒ che l’indole malvagia si era manifestata sin da piccolo: la sua balia, chiamata a testimoniare, raccontò come il bimbo usasse morderle con violenza il seno mentre l’allattava e la sottoponesse a continue cattiverie.
C’era dunque una duchessa di Normandia, che si struggeva dal desiderio d’aver figliuoli, e non ne poteva avere. Stanca di raccomandarsi a Dio che non l’esaudisce, si raccomanda al diavolo, ed è subito appagata. Nasce un figlio, una saetta. Bambino, morde la balia e le strappa i capezzoli; fanciullo, sventra a coltellate i maestri; giunto a vent’anni si fa capitano dei ladri. L’armarono cavaliere, credendo così di vincere in lui quella furia d’istinti malvagi; ma dopo egli fa peggio di prima. Nessuno lo passa di forza e bravura. In un torneo vince e ammazza trenta avversari; poi va giorni per il mondo; poi ritorna in patria, e si rimette a fare il bandito e il ladrone, rubando, incendiando, assassinando, stuprando. Un giorno, dopo aver sgozzato tutte le monache di un’abbazia, si ricorda della madre, e va a trovarla. Come prima lo scorgono, i servitori scappano, nessuno si indugia a domandargli da dove venga, cosa voglia. Allora, per la prima volta in vita sua, Roberto si stupisce dell’orrore che ispira ai suoi simili; per la prima volta ha coscienza di quella sua mostruosa malvagità, e sente trafiggersi il cuore dal dente acuto del rimorso. Ma perché mai è egli più malvagio degli altri? Perché nacque, chi lo fece tale? Un’ardente brama lo punge di penetrare il mistero. Corre dalla madre, e con in pugno la spada sguainata le impone di svelargli il segreto dei suoi natali. Saputolo, freme e inorridisce, sopraffatto dallo spavento, dalla vergogna e dal dolore. Ma la sua forte natura non s’accascia per questo, non cede alla disperazione; anzi, la speranza di un laborioso riscatto, di una mirabil vittoria, stimola e solleva l’anima sua tracotante. Egli saprà vincere l’inferno e sé stesso, saprà rendere vani i disegni dello spirito maledetto che in proprio servigio lo creava, che aveva voluto far di lui un docile strumento di distruzione e di peccato. E non frappone indugi. Va a Roma, si butta ai piedi del papa, si confessa a un santo eremita, si assoggetta ad asprissima penitenza e giura di non prendere più cibo se non sia strappato alla bocca di un cane. Per ben due volte, essendo Roma assediata dai saraceni, egli combatte sconosciuto per l’imperatore e procaccia la vittoria ai cristiani. Riconosciuto finalmente, rifiuta i premi e gli onori, la corona imperiale, la stessa figlia del monarca, e si ritrae col suo eremita nella solitudine, e muore come un santo, ribenedetto da Dio e dagli uomini. In altri racconti gli si fa sposare da ultimo la bella principessa innamorata di lui.

Il “caso” Meyerbeer

Quando Robert le diable venne rappresentato per la prima volta all’Opéra il 21 novembre 1931, tutta Parigi ne fu «elettrizzata». Dalle prime battute dell’introduzione, quando una minacciosa figura ai tromboni annuncia le forze elementali del male, quello che andò in scena fu uno spettacolo senza precedenti. Gli effetti speciali sensazionali e le scenografie imponenti, uniti a un perfezionismo al limite dell’ossessivo e la cura del dettaglio da parte del suo autore, fecero letteralmente esplodere la risposta di pubblico e critica. Per almeno 35 anni, le opere di Meyerbeer furono salutate come un vero e proprio evento epocale, vantando numerose imitazioni e rimanendo ineguagliate: in soli tre anni, Robert le diable fu eseguito in dieci paesi da 77 compagnie, e in vent’anni l’Opéra di Parigi lo propose ben 329 volte (R. P. Forbes, The Case of Meyerbeer, in Id., The Age of Romanticism, 1988).

Nato nel 1791 in una famiglia benestante e raffinata di ebrei tedeschi che si occupava di finanza con un ramo nelle raffinerie di zucchero, Giacomo Meyerbeer non abbandonò mai, a differenza del suo contemporaneo Mendelssohn, la religione di provenienza. Questo non gli impedì tuttavia, nel suo percorso di studi, di sviluppare una autentica predilezione per le tecniche della musica devozionale acquisendone una profonda conoscenza, conquistato dal «potere sensuale e coinvolgente del rituale cattolico». Le sue opere ne furono intimamente pervase in particolare Robert le Diable, Les Huguenots e Le Prophete, definita una «trilogia religiosa». Meyerbeer stesso svolse un ruolo cruciale nella definizione della funzione religiosa della musica operistica del XIX secolo, che con le sue tensioni e ... Legittima e mitizza l’ascesa della nouveau riche (?). Di più, il panorama musicale degli anni Venti dell’Ottocento languiva in un prolungato periodo di stagnazione e il pubblico, sempre più composto da ricchi borghesi e sempre meno da aristocratici, desiderava essere stupito. Meyerbeer era l’uomo giusto.

Nelle ultime decadi del secolo, di Giacomo Meyerbeer si parla in maniera sempre più tiepida fino al «completo annichilimento» con il quale viene del tutto liquidato dalla critica del Novecento. Dopo un oblio di cinquant’anni, oggi questo abbandono, repentino tanto quanto la sua ascesa, è spiegato con un radicale «cambiamento di gusto» del XX secolo: il suo repertorio operistico, con tutta quell’agitazione emotiva, le solenni sonorità e le scenografie spettacolari, trova un pubblico ormai saturo e la sua musica è considerata «vuota».

Il valzer infernale

L’opera di Meyerbeer viene citata da Aldous Huxley nel racconto La bottega del libraio contenuta nella raccolta Tutti i racconti (Einaudi, 1958):

E poi venne il coro dei bevitori. Pareva di vedere degli uomini avvolti in tenebrosi mantelli, in preda a una pazza allegria davanti ai boccali vuoti.

“Versiam a tazza piena
Il generoso umor…”

[...] Voltò qualche altra pagina. – Ah, il Valzer Infernale, – disse. – È bello –. Un breve preludio malinconico, poi l’aria, meno infernale, forse, di quanto ci si poteva aspettare, ma abbastanza piacevole. Io cantavo, leggendo le parole al di sopra delle sue spalle.

“Demoni fatali,
Fantasmi d’orror,
Dei regni infernali
Plaudite al signor”.
*
Cfr. anche J. Berlioz, Dramma di famiglia e ideale cavalleresco: la leggenda di Roberto il Diavolo nelle ‘Chroniques de Normandie’ (XIV secolo), in E. Pellizer, N. Zorzetti (a cura di), La Paura dei padri nella società antica e medievale, Roma-Bari 1983.

Il libretto, scritto da Eugéne Scribe e Germaine Delavigne, ha avuto due traduzioni in italiano (qui il riferimento è a Roberto il Diavolo, Opera in cinque atti. Da rappresentarsi nell’I.R. Teatro alla Canobbiana, l’autunno 1857). In Italia, nel primo decennio dalla sua uscita, l’opera è stata rappresentata a Firenze, Trieste, Padova, Venezia, Fiume, Brescia, Livorno, Cremona, Parma, Verona, Milano, Udine, Gorizia, Bassano, Torino, Bologna, Ancona, Forlì. Forse da imputare a motivi di censura l’impossibilità, negli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento, di realizzare una rappresentazione a Napoli e, in generale, nel Sud Italia. Cfr. G. Staffieri, “Robert le Diable” e la riforma delle orchestre italiane negli anni Quaranta, in “Studi verdiani”, 16, 2002, pp. 219-246.

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