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Filottete e Laocoonte, sulla manifestazione della sofferenza nelle arti

Il Laocoonte ovvero sui confini tra poesia e pittura è il manifesto dei principi estetici di uno dei più illuminati esponenti delle “belle lettere” tedesche del Diciottesimo secolo. Ephraim Lessing (1729-1781) fu drammaturgo, filosofo e scrittore; figlio di un pastore protestante, venne avviato allo studio della teologia presso l’Università di Lipsia, poi abbandonata per la medicina con gran rammarico del padre, e trascorse gli anni della formazione nella già allora vivissima Berlino.

Nicolai Abraham Abildgaard, Den sårede Filoktet (Filottete ferito), 1779. Via Wiki commons

Dapprima concepita come un’opera sui limiti delle arti fra loro – su suggerimento del Winckelmann che nel 1751, reduce da un viaggio in Italia dove «si era invaghito della bellezza classica degli antichi monumenti», pubblica la colossale Storia delle arti del disegno presso gli antichi  – il Laocoonte (1766) esamina le leggi dell’arte classica paragonando, diversamente dal Winckelmann a vantaggio della seconda, le arti plastiche e la poesia: «la pittura (o scultura) esprime corpi, ed è coesistente; la poesia esprime azioni, ed è consecutiva. La pittura non sa esprimere le azioni che con i corpi, la poesia non sa esprimere i corpi che con le azioni»; «ambedue illudono e con l’illusione dilettano» (Proemio).

La gravità del compito era espressa in una prima introduzione:

Immaginate un uomo di curiosità sconfinata, non inclinato veramente verso nessuna scienza, incapace di dare alla sua mente un indirizzo sicuro; costui per appagarla percorrerà tutti i campi dello scibile; vorrà ammirare tutto, conoscere tutto, e si annoierà di tutto. Se non manca di genio, osserverà molto, ma approfondirà poco; scoprirà alcune tracce, ma non ne seguirà alcuna; mostrerà le sue mire in contrade che si possono appena guardare...

Bellezza e dolore

Il primo confronto corre tra la statua di Laocoonte conservata al Vaticano e il Filottete di Sofocle, due immagini artistiche che hanno in comune il modo di soffrire. Nella statua però il dolore non può essere sfigurante, ma è pacato e tranquillo, perché le leggi estetiche della classicità, a differenza dei canoni più moderni che concedono all’arte limiti decisamente più ampi, non consentivano che la perfezione del soggetto: poiché il grido in pittura è una macchia scura e nella scultura è un’orbita vuota, il furore descritto dai poeti diviene gravità e il lamento è mitigato in tristezza.

Figuriamoci che Laocoonte apra la bocca, e giudichiamo. Facciamolo gridare, e vediamo. Era una immagine che muoveva a pietà, perché rivelava insieme bellezza e dolore; ora è un’immagine deforme, odiosa, da cui si distoglie volentieri lo sguardo, perché l’aspetto del dolore muove a dispiacere senza che la bellezza del paziente sappia trasformare questo dispiacere nel dolce sentimento della compassione (p. 16).

Gruppo del Laocoonte, Musei Vaticani, dettaglio. Via Wiki commons

Nella scultura il dolore corporeo è più cupo che feroce: l’Eracle che soffre nel manto avvelenato di un antico artista ignoto (Plinio, lib. XXXIV, 19) non era quello di Sofocle, il quale grida così forte da far rimbombare le rocce della Locride e il promontorio di Eubea.

La rappresentazione dell’estremo, nell’arte figurativa classica, costringe la fantasia a sottostare alla pienezza visibile: il dolore violento che fa gridare diverrebbe continuo, ininterrotto, invariabile, insopportabile, prolungato in maniera innaturale e quindi meno interessante: lo spettatore non deve vedere l’eccesso, ma supporlo. Così Filostrato (Vita di Apoll., lib. II, 22) descrive un dipinto – ora perduto – di un famoso pittore dell’antichità, Timomaco: egli rappresentò l’Aiace furente non già nell’atto di avventarsi verso le mandrie indifese scambiandole per l’esercito nemico, ma subito dopo, oppresso dalla stanchezza e dalla vergogna, quando l’intensità del suo dolore traspare dalla disperazione e dentro di sé si fa strada l’idea di darsi la morte. 
Questi limiti non sono invece necessari alla poesia, che può ritrarre l’azione in momenti diversi e non deve tenere conto esclusivamente del senso della vista. Al contrario, ogni azione può essere presa e portata a compimento in tutte le sue variazioni. Il Laocoonte di Virgilio grida (clamores horrendos ad sidera tollit) come il Filottete di Sofocle urla e si lamenta accrescendo l’idea del dolore corporeo che per scelta poetica non proviene da un morbo interno, ma da una ferita che era una vendetta divina, un veleno soprannaturale e continuo che arde fino allo strenuo delle forze, fino a che il corpo stremato si assopisce in un riposo che prelude a un nuovo patimento.«Ma per quanto fossero gravi e atroci i dolori corporei del suo eroe», esposto a un veleno che corrode per nove anni senza uccidere, Sofocle sentì che essi da soli non sarebbero bastati a muovere a compassione lo spettatore; li associò allora ad altri mali che, partecipando tutti insieme alla sofferenza dell’eroe, assumono una tinta disperatamente malinconica: l’assoluta privazione del consorzio umano, la fame, la miseria «e tutti i disagi della vita che si possono incontrare sotto il cielo aspro di quella solitudine» (p. 24).

(E. Lessing, Laocoonte, a cura di T. M. Persico, Napoli 1879)

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Commenti

  1. Un dolore che pervade la materia ed umiliato si volge agli dei per chiedere il perchè.

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